Tre cose sono certe nella vita: la morte, le tasse e la nuova puntata di 7for7 ogni lunedì. Le prime due non sono colpa nostra, ma sulla terza ci prendiamo ogni responsabilità. La scorsa settimana, l’aerodinamico collega Giorgio vi aveva raccontato un paio di performance eccellenti, a firma di Kemba Walker e Jimmy Butler, per poi snocciolare statistiche sulle squadre più calde del momento: Blazers, Clippers, Grizzlies. Gli ultimi sette giorni, invece, sono stati più frizzantini: polemichette, battibecchi via web, mancanze di rispetto assortite a bordocampo, dentro il campo, fuori dal campo. Andiamo a scoprire tutto quanto, e buon appetito.

LUNEDÌ 26 NOVEMBRE – LO STRANO CASO DEI WASHINGTON WIZARDS

Sappiatelo, noi di 7for7 abbiamo già eletto i Washington Wizards come nostra squadra-feticcio dell’anno. Il perché potete individuarlo andando a scorrere, a vostro rischio e pericolo, tra le prime sei puntate della stagione, ma se non volete rivangare certi ricordi spiacevoli, vi capiamo e vi veniamo incontro con un riassunto. Si parte da Dwight Howard, che atterra in pompa magna nella capitale accompagnato dai soliti proclami (quante volte l’abbiamo visto allenarsi in estate nel tiro da tre per poi stampare mattoni come questo?) e finisce subito in lista infortunati per un problema in zona-chiappe. Si passa da un inizio stagione disastroso e si finisce con lo spogliatoio in ammutinamento, Otto Porter scioperante, Wall e Beal ai ferri corti e la dirigenza che offre in trade mezzo roster.

Però li amiamo perché al contempo ci regalano momenti come questo. Emozionante vittoria all’overtime sui Rockets, pure loro in risalita e con un James Harden da 54 punti e 13 assist, pur giocando col paraocchi Beal ne mette 32 e John Wall galvanizza il pubblico segnandone 36 più 11 assist; Markieff Morris poi è rinato, da quando parte come sesto uomo, e infila la doppia doppia in 40 minuti dalla panchina. In tutto questo, il tuo centro titolare è Thomas Bryant – così a naso, non credo sia imparentato con Kobe.

Per essere una squadra in cui si vive con la valigia in mano, certi risultati non sono mica male

 

MARTEDÌ 27 NOVEMBRE – PRETTY BORING

C’è una vecchia favola che racconta di come la volpe, che non riusciva a saltare abbastanza in alto da prendere l’uva, se ne andò dicendo “che importa, tanto è acerba”. In settimana, il coach dei San Antonio Spurs Gregg Popovich, che in quanto a status da vecchio saggio ha poco da invidiare a Esopo, se n’è uscito con l’ennesima critica alle tendenze attuali nel gioco NBA, in particolare con la crescente importanza del tiro da tre punti.

“Non è più pallacanestro, non c’è più bellezza. È tutto piuttosto noioso”

Si fa pour parler, perché ogni opinione argomentata è valida – specialmente se viene dalla bocca di un tale intenditore, ma varrà la pena considerare che gli Spurs viaggiano sotto il par a cui ci avevano abituati, messi in crisi dagli infortuni e obbligati ad aggiornarsi al volo con un Derozan in più e un Leonard in meno. Dietro al record di 11-12, penultimo in una comunque equilibratissima Western Conference, si nasconde anche la difficoltà nell’adattarsi ai ritmi di gioco odierni: ventiquattresimi per pace (l’anno scorso furono ultimi), ventinovesimi per tiri da tre tentati e realizzati. E varrà la pena anche notare che tanti dei successi più recenti, come l’anello del 2014, gli Spurs li hanno ottenuti proprio convertendosi con grande scioltezza alla filosofia del tiro da tre punti: partiamo da Bruce Bowen tra i primi ad abusare della tripla dall’angolo, passiamo dal Danny Green scatenato dal perimetro nelle Finals 2014, finiamo con Kawhi Leonard che ha cambiato marcia quando è diventato un affidabile tiratore dalla distanza. Una volta qui era tutta campagna, Pop, lo sappiamo, ma facciamocene una ragione.

Popovic trollato da Steph: i due hanno opinioni un filino divergenti sulla materia

 

MERCOLEDÌ 28 NOVEMBRE – MY NAME IS LUKA

A differenza della Luka di cui cantava Suzanne Vega lui non vive al secondo piano (anche se ci sale per stoppare due volte LeBron in settimana), ma quando sei in NBA da nemmeno due mesi e vanti già una frequenza di apparizioni nella nostra rubrica da potertela giocare con James, beh, qualcosina lo sai fare. Per la seconda volta in sette giorni i Rockets finiscono dalla parte sbagliata degli highlights: stavolta fanno da spettatori nell’agile vittoria dei Mavericks con Doncic che guida i suoi senza strafare, ma coi soliti lampi di genio.

Approfittiamo dell’occasione per aprire l’angolo della polemica settimanale. C’è in giro una teoria del complotto che sostiene che Luka Doncic non sia all’altezza dell’hype che lo circonda, che il suo impatto sia gonfiato dai media, che le sue statistiche siano pompate da una squadra al suo servizio, che giochi come un veterano perché ha già raggiunto l’apice del proprio potenziale: può solo peggiorare, insomma, mentre i limiti difensivi e fisici lo perseguiteranno per sempre. Dietro questo accanimento, fatichiamo a intravedere una logica: gli hater un po’ te li guadagni e un po’ te li cerchi, come fece a suo tempo LeBron, ma Doncic, in due mesi, che può aver mai combinato? Non ci sembra nemmeno particolarmente spocchioso. Forse c’è una certa idiosincrasia da NBA vs Eurolega, ben incarnata dallo scetticismo di Charles Barkley, e chi ama solo e soltanto il basket americano ha paura che il successo di Doncic legittimi l’assioma (sbagliatissimo) “Eurolega>NBA”. Oppure è invidia per la mamma. Più probabilmente, si tratta di una comprensibile reazione a una certa parte della critica che invece esalta Luka oltremisura, ma risolvere una metodologia d’analisi sbagliata con un’altra metodologia sbagliata non ci sembra il modo più corretto di procedere

Noi, come da sempre ci suggerisce il nostro punto di vista, invitiamo a guardare i fatti, godersi il gioco e lasciare ai posteri le sentenze.

Ogni partita è uno show. Io mi riterrei fortunato che non dobbiamo pagare il biglietto

 

GIOVEDÌ 29 NOVEMBRE – KIKI, DO YOU LOVE ME?

“Don’t ask me no dumbass questions”, esortava Kyle Lowry presentandosi ai microfoni dei giornalisti dopo la partita, e quelli puntualmente ripartivano con la cantilena sull’importanza del confronto appena vinto dai suoi Raptors, all’overtime, contro i Golden State Warriors. Così, in uno scambio piuttosto spassoso, si ribaltavano le parti e Lowry faceva le domande. “In che periodo dell’anno siamo?” “Novembre” “A che partita siamo?” “La 23”. “Quindi?” “Regular season”. “Bravi. Ottime risposte”.

Eppure, il siparietto lasciava intendere che non si trattasse soltanto di “another regular season game”. Klay Thompson (che è sempre parecchio generoso quando si tratta di complimentarsi coi rivali, dobbiamo dirlo) alla vigilia parlava di una preview delle Finals, e in effetti i Raptors comandano autorevolmente la Eastern Conference. Sul parquet canadese c’è stata battaglia vera, e si è visto un Kevin Durant superlusso da 51 punti. Succede, quando hai il solito, asfissiante Drake che fa trash talking per 48 minuti da bordocampo, simpatico come il proverbiale felino avvinghiato ai gioielli di famiglia. Alla fine KD gli regala pure la maglietta, ma nel mentre lo invita a provare la Kiki Challenge nella corsia di sorpasso della Interstate più vicina.

L’altro tema caldo è Kawhi Leonard, per lui 37 punti e solita prestazione da leader su entrambi i lati del campo. “Sono uno che fa da leader con l’esempio” aveva detto in settimana. “Forse ci si dimentica delle cose, quando non mi si vede giocare per tanto tempo. Ma ora penso solo ai Raptors”. La frecciata era rivolta al suo ex coach Popovich, settimana da sindrome pre-mestruale per lui, che non si era speso in elogi parlando ai media del suo vecchio pupillo. “Buon giocatore sì, leader no. E pure quell’uva lassù, a me sembra acerba”.

Kawhi non è un leader, Durant è inaffidabile, Drake è simpaticissimo e voi non state leggendo questa puntata di 7for7

 

VENERDÌ 30 NOVEMBRE – TUTTI I COLORI DEL MONDO

Se di colpo, al posto dei consueti completi blu e neri sulle panchine NBA, avete iniziato a vedere macchie rosa shocking, arabeschi degni di un trip da LSD e motivetti natalizi con un mese d’anticipo, non preoccupatevi; non siete impazziti. È il modo che l’NBA ha scelto per omaggiare il ricordo di Craig Sager a due anni dalla scomparsa, un tributo agli abiti sgargianti che rappresentavano il marchio di fabbrica del giornalista. Anche Popovich, che con Sager divideva un forte legame di amicizia, ha partecipato indossando una cravatta a tema, ma la palma per la best impression se la contendono Luke Walton (pantalone nero, giacca rosa a metà tra l’ipnotico e l’accecante) e Nick Nurse (arabeschi neri e viola, luminosissimi, simili a uno degli ultimi completi che Sager portò a bordocampo esordendo, ormai a fine carriera, come reporter delle Finals).

Anche i giocatori hanno partecipato all’iniziativa, ma nel caso di Harden e Westbrook c’è poco da segnalare, loro vanno già in giro vestiti così. Più seriamente parlando, la dedica a Sager serve anche a dare visibilità all’associazione benefica che porta il suo nome, la SagerStrong Foundation, per dare un aiuto ai malati di cancro. Per chi volesse approfondire il personaggio, o semplicemente ricordarlo, su Play.it ne parlammo qui. E per chi preferisse la sostanza all’apparenza, c’è anche tanto basket giocato nella notte: i Grizzlies battono i Nets dopo un supplementare, continuano la loro sorprendente cavalcata e festeggiano il career high del rookie Jaren Jackson Jr. con 36 punti.

Persino Jim Carrey ha partecipato all’iniziativa. Eccolo a bordocampo, mentre finge di essere l’allenatore dei Mavericks Rick Carlisle

 

SABATO 1 DICEMBRE – STEP-OVER MARIO

Non siamo più così sicuri che siano i Wizards il feticcio d’elezione per 7for7 versione 2018/2019. La sgangherata banda dei Knicks presenta una degnissima competizione. Un coach sopra le righe e con qualche citazione di culto nel carniere come David Fitzdale. Idoli delle statistiche come Enes Kanter. Emuli iversoniani, leggasi Trey Burke. Rotazioni folli, quintetti imprevedibili e una collezione di bidoni da rilanciare di cui Mario Hezonja è la punta di diamante. Un po’ di storia. Hezonja, croato, arriva in NBA dal Barcellona nel 2015, scelto come quinta assoluta, e c’è chi giura che farà sfracelli. Nulla di tutto ciò. Tre anonimissimi anni ai Magic dopo, eccolo nella vittoria dei Knicks contro i Bucks all’overtime (sì, perché il bello di questi Knicks è che stanno portando a casa scalpi di tutto rispetto).

Scatto imperioso in campo aperto, sgomitata su Middleton, decollo e schiacciata dell’anno sulla testa di Giannis Antetokounmpo, che non arriva in tempo per la chasedown block di lebroniana memoria. Dopo l’atterraggio, col greco a terra, ad Hezonja scatta il disrespect. Lo scavalca come fece Allen Iverson su Tyronn Lue – Trey Burke, a guardarlo, deve aver avuto un orgasmo. Detto ciò, consideriamo le statistiche del buon Mario per l’intero incontro: 12 minuti in campo, due tiri, due palle perse, un canestro. Quello. Pregevole anche il commento post-partita di Giannis. “La prossima volta gli dò un pugno”.

Didascalia di Urban Dictionary per la voce DISRESPECT

Chiudiamo la giornata con una nota che farà piacere a ogni appassionato. Tanto si è detto delle difficoltà di Gordon Hayward a scrollarsi di dosso la ruggine accumulata in un anno d’inattività, complici anche le nuove dinamiche di questi Celtics talentuosi ma difficili da plasmare. Adesso coach Stevens lo fa partire dalla panchina in modo da dividere il parquet con la second unit per una parte dei suoi 30 minuti d’impiego, con maggiori responsabilità di playmaking. Stanotte, nella vittoria sui Timberwolves, la statline finalmente ripaga i suoi sforzi e lo riporta ai fasti che gli valsero la convocazione all’All Star Game: 30 punti, 9 rimbalzi e 8 assist, coi compagni che lo celebrano innaffiandolo di Gatorade. Bentornato Gordon, ma per quel che conta, noi non avevamo dubbi. In fondo, ogni appassionato di videogames come lui lo sa bene: quando si viene sconfitti, basta avere pazienza e aspettare il respawn.

 

DOMENICA 2 DICEMBRE – FLASH E SPIDERMAN

Il farewell tour di Dwayne Wade è in pieno regime, e Flash ha intenzione di onorare al meglio la sua ultima stagione: prima di entrare sul parquet si toglie le ciabatte, si immerge nella vasca della giovinezza e per 48 minuti porta le lancette dell’orologio indietro di qualche giro. La sfida di stanotte, coi Jazz ospiti a Miami, ha il sapore del passaggio di consegne perché Donovan Mitchell è forse il talento contemporaneo che più ricorda D-Wade, per stile di gioco e movenze.

La partita si conclude in zona Cesarini, 102 a 100 per gli Heat, con Wade che pianta la bandiera sull’ultimo periodo di gioco. 30 minuti in campo, 15 punti e 8 assist, il canestro del vantaggio con una zingarata nel pitturato old school, poi un tuffo ben oltre le prime file per salvare il pallone, infine i due tiri liberi che sigillano il risultato dopo essersi guadagnato un duro fallo da Rudy Gobert. Mitchell si arrende con onore e a fine partita cerca il saluto del mentore.

Mitchell è una superstar in the making, ma si ferma comunque ad apprezzare chi è venuto prima di lui

 

Per questa puntata è tutto, passo il pallone a Giorgio, confidando che abbia le mani di un buon wide receiver, e vi do appuntamento tra due settimane, mentre 7for7 torna ovviamente lunedì prossimo. See ya!

One thought on “7for7 La settimana in NBA (Ep. 2×07)

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