Settimana particolare questa in NBA, tutta incentrata sul week-end delle stelle che quest’anno si trasferisce nella cornice più appropriata: Los Angeles, California. Per buona parte dei giocatori e degli addetti ai lavori è un’occasione per tirare il fiato e ricaricare le pile, approfittando anche dei giorni di riposo extra che Adam Silver ha inserito nel calendario. Per altri, All Star Game e iniziative di contorno rappresentano una possibilità per mettersi in mostra, per dare un po’ di spettacolo, per partecipare a quel carrozzone festoso che l’NBA decide, una volta l’anno, di mostrare al pubblico. Che gli eventi siano competitivi, in fondo, è fatto secondario; ma a questo giro c’era tantissima curiosità per il nuovo formato del main event, Team LeBron contro Team Curry, i compagni scelti uno dopo l’altro come al playground per stimolare lo spirito agonistico dei partecipanti.

RISING STARS CHALLENGE – IL RESTO DEL MONDO

White men can splash

Il più snobbato tra gli eventi snobbati, la partita tra rookie e sophomore ha invece il pregio di introdurci a un formato che, vogliano gli dei e/o Adam Silver, potrebbe un giorno riaccendere con una sana rivalità anche l’All Star Game vero e proprio. USA contro Internationals è una sfida intrigante, che se non altro stuzzica il patriottismo che è tipico degli statunitensi. Il risultato conta fino a un certo punto, 155 a 124 per il Resto del Mondo nella consueta sequela di schiacciate in campo aperto, ma c’è da rimanere meravigliati di fronte alla quantità di talento che gli stranieri possono mettere sul parquet.

Joel Embiid (visto anche nello Skills Challenge di sabato e nella partita di domenica), Ben Simmons, Jamal Murray, Lauri Markkanen, Domantas Sabonis, Buddy Hield. Tutti giocatori da quintetto, con poco da invidiare ai coetanei americani. L’MVP è quello che non ti aspetti: Bogdan Bogdanovic, il più europeo tra gli europei, che si scopre incline allo show con una prestazione da 26 punti. A un certo punto perde la capoccia, forse chiedendosi chi gliel’ha fatto fare di abbandonare l’Eurolega per giocare nei Kings, e si mette a tirare da metà campo. Segnando pure.

CELEBRITY GAME – WALK OF SHAME?

Brandon Armstrong, noto per le imitazioni dei giocatori NBA, incarna i sogni di qualsiasi videogiocatore di NBA2K quando allunga la mano in direzione dei pantaloncini ascellari di Rachel DeMita. Lei, che deve avere un certo caratterino, si rifà sgusciando in backdoor per il canestro

È giunto il momento di confessare la mia singolare attrazione per il celebrity game. Non che abbia qualche beniamino di cui m’interessa seguire le gesta – se non conoscete tv americane e scena musicale hip hop, metà delle figure coinvolte vi resteranno oscure -, ma trovo divertente assistere alla passerella di questi personaggi, che comunque hanno qualche rudimento di come si tratta un pallone da basket. La miscela poi è collaudata. Qualche giocatrice WNBA che fa il bello e il cattivo tempo, vecchie glorie NBA con la pancetta e il freno a mano tirato, più o meno sedicenti rapper, sportivi in prestito da altre discipline, il bambino che deve fare canestro a tutti i costi, Win Butler dagli Arcade Fire e Justin Bieber (quest’anno assai appannato rispetto alla sua prestazione da MVP).

A questa edizione è mancata la schiacciata, memorabili quelle di Terrell Owens e Usain Bolt in annate precedenti, ma c’è stato comunque qualche highlight degno di nota. Il mio preferito? Il golfista Bubba Watson ha un’autostrada per il canestro, T-Mac ha tutte le intenzioni di lasciarlo segnare, ma poi lo vede tentennare e regala al pubblico quello che volevano vedere: la stoppata.

Nota di merito alla bella Rachel DeMita, volto di NBA2K ed ex-giocatrice, che ce la mette tutta per conquistare l’MVP zompettando tra gente grossa il doppio di lei. Il premio invece lo stacca Quavo, assai educato col pallone in mano.

Buca in uno per Tracy McGrady

SKILLS CHALLENGE – SHAQTIN’ EMBIID

Joel Embiid conosce il segreto del successo: se qualcosa non ti riesce, fai finta di niente a vai avanti

La suddivisione tra piccoli e lunghi ha mescolato le carte dello Skills Challenge, un po’ stantio come struttura. Il risultato è che i big rubano la scena spesso e volentieri, perché è sempre impressionante notare la preparazione sui fondamentali di gente alta sette piedi. Markkanen, Horford, Embiid e Drummond (quest’ultimo un po’ meno, ma c’era da aspettarselo) sfoggiano un’inconsueta precisione negli esercizi di palleggio, passaggio e tiro. In particolare il finlandese, chirurgico dall’arco, che raggiunge la finale. Spencer Dinwiddie tuttavia gli dà un giro di pista in termini di velocità, decisamente il più agguerrito di tutti.

Vittoria meritata per lui, ma luci del palcoscenico per Joel Embiid. Se resterà nel giro dell’All Star Game a lungo, avremo forse trovato un degno erede di Shaquille O’Neal in termini di intrattenimento. Qui, nella sfida con Markkanen, sbaglia il passaggio ma continua allegramente il percorso come se nulla fosse. I giudici, severi, non ci cascano, ma intanto Joel inoltra la candidatura a Shaqtin’ a Fool.

3-POINT CONTEST – NEL LIBRO DEI RECORD

La settimana scorsa avevano detto a Booker che c’erano buone notizie, ma era soltanto arrivato Elfrid Payton. In attesa di tempi migliori a Phoenix, lui si consola così

Perdonatemi il gioco di parole, ma non c’era modo migliore per introdurre la prestazione record di Devin Booker che fa registrare 28 punti nella serie finale, aggiudicandosi così il titolo. Sessione di tiro quasi impeccabile per lui, con un carrello completo e un solo errore nel cosiddetto money rack. In una competizione che ci permette anche di apprezzare l’eleganza nel fondamentale, è giusto che il premio vada a un giocatore dalla meccanica compatta, efficace e ipermoderna. Se avrà voglia di rimettersi alla prova, in Devin Booker abbiamo trovato un finalista perenne.

Il solito, automatizzato Klay Thompson gli ha dato filo da torcere fino all’ultimo, con un sorprendente Tobias Harris a fare da terzo incomodo nella fase finale. Deludente invece il campione in carica Eric Gordon, e una prima fase della sfida che assomigliava a una fiera dell’edilizia per la quantità di mattoni scagliati.

SLAM DUNK CONTEST – DONOVAN MITCHELL PIU’ IN ALTO DI TUTTI

La gara delle schiacciate si gioca la palma dell’evento più atteso del fine settimana con l’All Star Game vero e proprio, e per alcuni lo supera in termini di interesse. Quest’anno abbiamo assistito a una competizione di buon livello, superiore all’edizione 2017, ma non ancora all’altezza del duello Lavine-Gordon del 2016. Via il dente, via il dolore: parliamo subito della poco felice comparsata di Victor Oladipo, pompatissimo alla vigilia vista l’ottima stagione a Indiana e l’esperienza nel Dunk Contest (suo, lo ricordiamo, il primo 540 della sfida). La prima schiacciata è creativa, ma la sbaglia per tre volte di fila. Nella seconda, indossa la maschera di Black Panther recapitatagli direttamente dall’attore Chadwick Boseman, ma ne esce fuori una pubblicità negativa per la Marvel perché il decollo a canestro è debole.

Dennis Smith Jr. esegue la perla della serata, una quasi-360 sotto le gambe che impressiona per l’1.80 scarso dell’autore, ma non basta al rookie di Dallas per accedere al round finale. Larry Nance Jr. coinvolge il padre e ne imita la schiacciata dello Slam Dunk Contest inaugurale, accattivandosi le simpatie del pubblico. Poi procede con altre due belle schiacciate, movimenti ampi ed esecuzioni pulite, per chiudere con un innovativo doppio appoggio al tabellone, poco spettacolare ma inedito, e ad alto coefficiente di difficoltà. Il problema di Larry Nance è che devi vendere le tue mosse, come un buon wrestler, mentre lui atterra come se avesse appena bevuto un caffè. Donovan Mitchell invece diverte e fa divertire. Salta altissimo e conclude sempre con potenza, come già visto in stagione. Replica la schiacciata del Rising Stars Game, con appoggio al tabellone ed estensione massima del braccio, sorvola Kevin Hart e famiglia accucciati (ma perché? Poteva saltarli anche se stavano uno sulle spalle dell’altro) e chiude con un omaggio a Vince Carter, da cui prende in prestito la canotta. 360 con rotazione inversa, a una mano. It’s over.

Non ce ne voglia Larry Nance Jr, ma lo stile del papà non si batte (e nemmeno i quadricipiti)

ALL STAR GAME – IL MEGLIO E IL PEGGIO DELLA SERATA

La più bella azione dell’MVP della serata

Non vogliamo gridarlo troppo forte, ma possiamo affermarlo con un tiepido ottimismo: il nuovo formato dell’All Star Game funziona. I due team hanno fatto squadra e davano l’impressione di competere per qualcosa, pur nella rilassatezza generale. Più che i 100.000 bigliettoni di premio, che per gente con simili introiti assomigliano agli spiccioli per la merenda, la posta in palio dovevano essere i bragging rights che motivano anche la più pigra delle partite al campetto: a nessuno piace perdere, e ancora meno fare brutta figura con avversari e compagni. Certo, il punteggio finale di 148 a 145 per LeBron e soci svela che l’intensità difensiva si è palesata solo a tratti (approfondiremo a breve), ma non si è sentita la mancanza di siparietti come gente che si sdraia all’arrivo dell’avversario. Un approccio più serio, insomma.

Vince il team LeBron, con James che si porta a casa anche il titolo di MVP. Significativo che sia andato a lui, leader della squadra, e non a una delle stelle emergenti che si contendevano l’alloro gli anni precedenti. King James ha qualcosa da dimostrare, in questo periodo, e prende la sfida di petto. Vuole assicurarci che fisicamente è ancora al top della forma, che non ci sono ruggini con Kyrie Irving, che i suoi Cleveland Cavs rimangono in corsa per il titolo, che quando c’è da rappresentare il volto più spettacolare dell’NBA presso le televisioni di tutto il mondo, lui è in prima linea. Probabilmente, ci teneva anche a rispondere ai suggerimenti di chi gli ha detto “shut up and dribble”; la giornalista di Fox Laura Ingraham in vena di prendere le difese del presidente Trump.

Onore delle armi, comunque, al resto dei partecipanti di questo All Star Game. Difficile trovare un’interprete che si sia estraniato dalla sfida. Ai media è piaciuto il risultato, eccome, con Reggie Miller che proponeva in diretta dalla cabina di commento: il prossimo anno, eseguiamo il draft delle squadre a centrocampo, prima della palla a due.

E le note negative? Per una volta non è una cattiva notizia che provengano da fatti extra-cestistici anziché dal campo, anche se le nostre orecchie non approvano. Fergie pensa bene di portare l’inno americano a fare un giro in macelleria, in una rivisitazione che doveva essere jazz, ma in realtà è stata imbarazzante – ad essere gentili. “Il peggiore di sempre”, commenta il pubblico americano su Twitter. All’intervallo Charles Barkley non le manda a dire: “avrei avuto bisogno di una sigaretta, dopo”, riferendosi alla presunta natura sensuale dell’esecuzione. Esecuzione che è stata accompagnata, in diretta, da una carrellata sui giocatori che trattenevano a stento le risate. Ma l’America è the land of the free, dopotutto.

ALL STAR GAME – DEFENSE? DEFENSE!

Come un cane un po’ possessivo, Joel Embiid marca il territorio al primo All Star Game

In merito alla sua partecipazione allo Skills Challenge di sabato, accennavamo già alla presenza di Joel Embiid come possibile “centro di gravità” di All Star week-end attuali e futuri, un po’ come fu Shaquille O’Neal a suo tempo. La partita di domenica conferma la sensazione. Embiid è un personaggio che sa farsi amare e odiare come pochi altri, difficile giocare una partitella alla viva il parroco con lui nei paraggi, a maggior ragione quando lo stesso camerunense ha intenzione di fare sul serio. È tra i migliori del team Steph, mostra la mano educata nel tiro dalla distanza e poi si mette al lavoro sotto canestro con una certa convinzione. Soprattutto, è tra i primi a dare un giro di vite alla difesa. Quando stoppa Westbrook, si intuisce qualche strascico della loro rivalità maturata in regular season; nelle edizioni passate dell’All Star Game quella sarebbe stata una schiacciata in campo aperto, con tanto di tappeto rosso steso nel pitturato.

L’intensità di Embiid è un’ottima introduzione ai cinque minuti conclusivi dell’ultimo quarto. Col risultato in discussione entrambe le squadre alzano i giri del motore: specialmente il team LeBron che finalizza la rimonta con un paio di belle giocate collettive, mentre James si sgola – letteralmente – nei time out. La difesa è quasi ai livelli di una partita “normale”, e sull’ultima azione s’impenna. Al team di Steph Curry serve la tripla del pareggio, palla nelle mani del capitano, ma James e Durant lo raddoppiano e lo chiudono nell’angolo. Non c’è spazio per scagliare il tiro e nemmeno per servire Harden, libero qualche passo più in là. Gioco, partita, incontro, e grandi feste sulla panchina del Team LeBron.

Sogno o son desto?

Per l’All Star week-end è tutto, e quest’anno concludiamo il recap con un sorriso più largo del solito, sperando che nel 2019 si faccia ancora di meglio; chissà che non valga di nuovo la pena di passare la notte in bianco per ammirare una sfida tra i migliori giocatori del mondo. Tra sette giorni torneremo al formato classico della rubrica e Giorgio Barbareschi vi accompagnerà, giorno per giorno, nella prima settimana di NBA post-All Star Break: che cominci la corsa ai playoff! Good night, and good fight.

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