C’è un numero che ritorna in ogni mia possibile analisi di questa stagione dei Philadelphia 76ers. E’ il numero 3.

Ad oggi i Sixers sono terzi nella Eastern Conference, a mezza gara di distanza dai Boston Celtics e a 3 dai Milwaukee Bucks ma soprattutto a un più che tranquillo +4 dai Cleveland Cavs che seguono a ruota.

La classifica cristallizza una situazione che era già abbastanza chiara fin dalla pre-season. Questi Sixers infatti sono chiaramente la terza forza ad Est e a mio modo di vedere anche l’ultima che da questa parte del Mississippi può realisticamente pensare di vincere l’anello.

Non dovrebbero avere chance gli stessi Cavs, le due squadre di New York, né gli Hawks o i Raptors oppure i Bulls deludenti di questa stagione. Scommetterei un dollaro bucato solo su un ritorno ai vertici dei Miami Heat, memori di una partecipazione alle Finals in tempi recenti (il 2020 della pandemia) ma che hanno comunque tanti problemi oggi irrisolti.

Per l’ultimo Power Ranking di ESPN i Sixers non sono soltanto la terza forza della Conference ma dell’intera NBA, segno di un apparente travaso di equilibri tra le due Conference.

Ad Ovest regna un’allegra anarchia, ci sono almeno 5 o 6 o addirittura 7 squadre che possono puntare al titolo e soprattutto non si capisce bene quale possa esserne la favorita.

Ad Est come detto è tutto più chiaro. Tra Bucks e Celtics sceglierei personalmente più quest’ultimi ma di sicuro sono sostanzialmente alla pari e hanno qualcosa in più di questi Sixers, che quindi se la giocano col classicissimo ruolo di terzo incomodo.

Di recente hanno galoppato una striscia di 8 vittorie consecutive, conclusasi solo dopo un doppio overtime contro i Chicago Bulls e sono tra le squadre più calde dell’intera lega.

Dicevamo del numero 3 che ritorna. Il destino dei Sixers anno di grazia 2023 dipende da tre uomini e su ognuno di loro mi voglio soffermare brevemente. Tre uomini e una missione. Battuta fin troppo facile.

Quel che è difficile invece, lo sapete già, è vincere un titolo NBA anche se oggi possono farlo almeno una decina di squadre. Viviamo in tempi di ricambio, dove nessuno comanda saldamente seduto sul trono.

Joel Embiid e la caccia all’MVP

Non so se ci riesce quest’anno. Quel che è certo è che vincere il titolo di MVP è nella testa di Joel Embiid, forse più di qualsiasi altra cosa. E’ arrivato secondo nelle ultime due stagioni e quel che è più frustrante nella sua ottica è che a vincere è stato un suo collega di ruolo, un altro centro, quel serbo geniale di nome Nikola Jokic.

Joel ha numeri mostruosi. E’ il miglior scorer NBA a quota 33,6 di media e il settimo rimbalzista con 10,3 a partita, conditi con 4 assist e il 54,6% dal campo.

Forse è davvero la volta buona. Sia per l’MVP Ladder del sito NBA sia per Bleacher Report è ora il favorito numero 1 e se lo meriterebbe ampiamente. Senza nulla togliere a Jokic non gli darei il terzo MVP di fila, roba da Michael Jordan o Magic o Bird.

La lotta quindi si riduce a chi sia il miglior centro NBA. Embiid ha ampliato ulteriormente il suo raggio di azione e ormai è quasi più un tiratore da fuori che un lottatore sotto canestro, anche in situazioni “clutch”.

A 29 anni e finalmente lontano da continui acciacchi fisici che lo hanno azzoppato non poco negli anni passati possiamo considerarlo al suo picco in carriera. Ora o mai più.

E’ stato lui anni fa a lanciare lo slogan “The process”, vedremo se davvero questo processo giungerà a destinazione quest’anno. Cosa gli manca ? Da un punto di visto tecnico e atletico niente, direi che difetta ancora dell’opportunità della scelte migliori in determinate tipi di situazioni, soprattutto offensive.

Personalmente a me il lungo, anzi il centro tiratore da fuori non piace ma ormai non è più una moda passeggera, nella NBA di oggi è una norma. Capire di potersi giocare dei possessi importanti con soluzioni a più alta percentuale è un passaggio cruciale, come anche poter ottenere più liberi.

Lui li trasforma con un 85% straordinario per un lungo, se fossimo negli anni ‘90. Oggi tali numeri sono di fatto pretesi anche per un sette piedi.

James Harden 2.0

Onestamente non pensavo di ritrovarmelo così in forma arrivati a questo punto della sua carriera, soprattutto dopo la non felicissima parentesi in maglia Brooklyn Nets che ha lasciato non poche ferite.

A fare la differenza è come sempre la testa, dell’uomo prima che del giocatore. Harden ha accettato con serietà il ruolo di secondo violino e pur non potendo di certo entrare negli spogliatoi dei Sixers l’impressione è che abbia davvero ben legato a livello umano con Embiid, il leader riconosciuto.

Si evince chiaramente come di fatto sia lo stesso giocatore del tempo dei Rockets ma con due grandi differenze, fondamentali per ora per questi Sixers. Ha perso un passo ma ha acquisito maturità.

Sull’accoppiata maturità – Harden si potrebbe scrivere una tesi di laurea. Ricordo un giochetto che mi frullava in testa fin dai tempi di OKC dove il nostro eroe giocava insieme a Kevin Durant e Russell Westbrook. Mi domandavo: “Cosa sarebbe Westbrook se rallentasse un attimo e con un pizzico in più di IQ cestistico?”. Sappiamo che la domanda è inevasa tutt’oggi.

“E cosa sarebbe Harden se difendesse e se avesse maggiore attitudine al sacrificio?”

Intelligenza in campo e voglia/mentalità vincente non si comprano al supermercato da un giorno all’altro. Se Westbrook però è rimasto al palo, perso a Los Angeles prima ai Lakers e ora ai Clippers, Harden ha raddrizzato la sua traiettoria.

Sarà sempre un avventore di locali notturni, magari non nello stile dell’ultimo formidabile Ja Morant con tanto di pistola, sarà sempre un po’ lento e grave sulle gambe in difesa, ma qualcosa onestamente si muove.

Come ha capito che inevitabilmente qui ai Sixers è il numero 2, così avrà accelerato anche sulla comprensione che un giocatore NBA non è soltanto poter fare quello che in fondo gli pare. Al netto di un episodio ai limiti dell’incredibile, del resto l’eccezione conferma sempre la regola.

In una gara casalinga contro Denver, in diretta nazionale ESPN per di più, è seduto sulla panchina e a un certo punto entra in campo e devia un pallone in piena azione difensiva.

Embiid va bene, va alla grande, ma senza il miglior Harden e senza la sua testa più lucida possibile questi Sixers non vanno comunque da nessuna parte.

I punti deboli del Doc

Ho sempre voluto bene a Doc Rivers e forse il suo problema è proprio questo. E’ una persona che si fa amare e questo in un mondo di lupi come quello NBA non sempre è positivo. E’ un “players coach”, già giocatore di successo con una dignitosa carriera NBA da veterano, stimato da tutti i suoi ragazzi. Quindi, dov’è il problema ?

I più cattivi diranno che non è mai stato un coach di grandissime doti tecniche e che ha sprecato grosse occasioni nei playoff.

Su un aspetto in particolare si concentrano le critiche, ovvero sulla sua capacità di lettura della partita in corsa, su quei famosi aggiustamenti che ogni buon telecronista vi dirà essere fondamentali per riacciuffare una gara o per tenerla in piedi.

Non so se Doc sia cambiato rispetto ai tempi eroici dei Big 3 a Boston, dove vinse il titolo. Non credo più di tanto. Allora la sua grande capacità fu tenere insieme un gruppo di superstar che non aveva mai giocato insieme. Non era facile e lui ci riuscì al primo colpo, vincendo già al primo anno.

Tornando a oggi, possiamo parlare di un allenatore che semplicemente non può fallire. Società e tifoseria non potrebbero sopportare di non arrivare nemmeno alle Finals, in un momento storico in cui non c’è una squadra dominante.

Le Finals sarebbero alla portata. I Sixers giocano il basket di sempre nella testa di Doc: semplice in attacco con i pick i roll con Harden in cabina di regia e con un po’ di velocità in più del solito, grazie alle gambe di Maxey.

Embiid è ovviamente spirito libero. Direte che i tempi moderni di questa nostra amata NBA sono nel segno delle triple di Steph Curry che ha allargato il range di tiro e l’orizzonte. Certo, senza dubbio.

Vedere però il nostro Joel uno contro in punta contro Jokic con stepback da tre a sigillare la vittoria con la tripla allora cos’è ? Come lo cataloghiamo ? I tempi sono cambiati e c’è un uomo che invece sulla panchina di Philadelphia ha ancora una ricetta che presume possa essere vincente, anche se è datata 2008.

I Sixers volano verso i playoff con l’etichetta di squadra più calda dell’intera NBA. Non male, anche se manca ancora un po’, soprattutto oltre il naturale primo turno direi facile da superare.

Dopo il dominio dell’era LeBron con Cleveland (quattro Finals consecutive) vedo questi Sixers giocarsi la loro occasione d’oro nel mese di giugno. Sarebbe la quinta diversa squadra di seguito che esce dalla Eastern Conference.

So che la città di Philadelphia non si accontenterebbe, sono famosi per il loro calore a volte anche eccessivo. L’obiettivo Finals è però ad ogni modo non solo realistico ma anche in fondo gratificante, almeno per adesso. Non lo dite a Joel però, MVP o meno, Jokic permettendo.

2 thoughts on “Tre uomini e una missione per i Philadelphia 76ers

  1. Jokic segna meno di Embiid solo perché la maggior parte del tempo fa il playmaker.
    Sarebbe il caso di ricordarsene…
    Che colpa ha il serbo se da tre anni in regular season ha i numeri migliori di tutti?
    L’unico paragonabile è Antetokoumpo.

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