Inizio questo pezzo con un piccolo ricordo personale: il mio primo articolo per PlayitUSA riguardava la disastrosa uscita dai playoff dei Philadelphia 76ers nella bolla di Orlando a cui il COVID-19 costrinse la NBA nel 2020. Un secco 4-0 dai Boston Celtics che significò idealmente la fine delle illusioni nate col motto “Trust the process” e concretamente il termine del lavoro di Brett Brown sulla panchina dei Sixers che venne poi sostituito da Doc Rivers.

Da quella postseason quantomeno singolare la parte cestistica della Città dell’Amore Fraterno ha continuato a provarle più o meno tutte per arrivare a quell’anello che manca dal 1983 o quantomeno alle NBA Finals che invece furono raggiunte per l’ultima volta grazie allo straordinario Allen Iverson del 2001.

I tifosi di Philadelphia hanno subito le vergogne sportive della gestione di Sam Hinkie che ingoiarono con la speranza che sarebbero servite a vincere; finora non è successo, non si è portato a casa nemmeno un titolo di Conference e l’unico prodotto del Process arrivato fino ad oggi è Joel Embiid, seppur stella indiscussa della squadra.

Riassuntino di una serie di mosse che dovevano portare l'anello a Phila...

Riassuntino di una serie di mosse che dovevano portare l’anello a Phila…

Questo è l’ennesimo anno dell’ora-o-mai-più per Phila. Il roster si è liberato del peso Ben Simmons, può contare fin dall’inizio su James Harden, lo scorso anno arrivato in corso d’opera soprattutto grazie al suo ex general manager Daryl Morey che inoltre ha aggiunto un altro suo pupillo come PJ Tucker per aggiungere solidità difensiva a un frontcourt che vede Embiid uomo solo al comando da entrambi i lati del campo.

Il risultato tuttavia è stato una partenza con 3 sconfitte su 3 seguita da un brodino come la vittoria casalinga ai danni di una squadra da “perdere e perderemo” come Indiana e un comunque deludente 1-1 a Toronto con la W arrivata soprattutto grazie a un pazzesco Tyrese Maxey da 9/12 da tre. 

La fotografia perfetta dell’inizio stagione dei Sixers restano tuttavia i fischi del pubblico del Wells Fargo Center nel vedere la propria squadra subire come se niente fosse una San Antonio data come peggiore del campionato da vari analisti e in piena corsa per Victor Wenbanyama piuttosto che per vincere partite, nonchè le dichiarazioni di Doc Rivers che senza mezzi termini ha affermato come ad ottobre 2022 i Philadelphia 76ers non siano una contender.

Parole dure ma giuste. Ma per iniziare l’analisi dell’ennesimo periodo buio in casa Sixers non si può fare a meno dal partire proprio dalle responsabilità del coach.

Rivers ha raccolto una squadra che nonostante fosse tornata in pianta stabile a disputare i playoff non era costruita bene se il suo obiettivo era arrivare al bersaglio grosso. C’era da scaricare un Al Horford che a fianco di Embiid non c’entrava nulla (e Horford è tornato a Boston, dove in un contesto appena più costruito è tornato ad essere il concentrato di esperienza e fondamentali apprezzato ovunque tranne che a Philadelphia) c’era da trovare un ruolo a Tobias Harris arrivato a suon di milioni a sostituire Jimmy Butler (un altro che arrivato a Miami è subito approdato alla finale NBA ed è oggi uno dei leader più apprezzati della lega) e da sistemare la questione Ben Simmons.

Ma al di là dei singoli c’era un intero sistema di gioco da costruire, perchè se si hanno tanti singoli affermati e nel loro periodo migliore di forma arrivare ai playoff deve essere ordinaria amministrazione. Ebbene, sono passate due stagioni e un assaggio della terza e questo sistema di gioco ancora non c’è.

Embiid era padre e padrone dei destini di Philadelphia e dopo due anni lo è ancora. Il camerunense è anzi passato dai 15.7 tiri a partita presi nella stagione 2019-20, quella della fine del ciclo Brett Brown, ai quasi 20 tiri presi nella scorsa stagione che peraltro sono 18.2 quest’anno.

Numeri dietro ai quali peraltro ci sono molte, troppe azioni in isolamento concluse con tiri in sospensione che sicuramente Embiid ha nel suo repertorio offensivo ma che troppo spesso sono il risultato di non aver costruito nulla di corale e dovergli quindi affidare il pallone negli ultimi secondi.

Joel Embiid deluso, immagine vista un po' troppe volte

Joel Embiid deluso, immagine vista un po’ troppe volte

Non che a Joelone la cosa dispiaccia, anzi. Il numero 21 ha fornito un’immagine di sè, mediante le sue dichiarazioni più o meno avventate o azzardate, proprio da giocatore che non esita ad essere il giocatore simbolo della squadra sia nelle vittorie che nelle sconfitte. La strada per vincere però non è questa: se lo fosse stata lo stesso Embiid si sarebbe già messo in tasca qualcosa di più delle convocazioni fisse per l’All Star Game.

L’acquisto di James Harden aveva aperto orizzonti potenzialmente devastanti per gli avversari di Phila in quanto offriva a Rivers la possibilità di sfruttare l’abilità del Barba nel palleggiare e attaccare il ferro per il pickandroll con Embiid definito da alcuni (tra cui il sottoscritto) il più devastante della lega. Invece anche Harden malgrado sia in doppia cifra di assist di media da anni tende più a palleggiare cercando di mettersi in ritmo che a cercare di fare lo stesso per la squadra, molto spesso con risultati che ricordano quelli di Russell Westbrook con i Lakers.

Quello che poteva essere l’asse portante di una contender si è invece rivelata una coppia di realizzatori che producono per i compagni meno di quanto potrebbero e dovrebbero. E le responsabilità sono anche di Rivers che è arrivato sulla panchina di Philadelphia con la nomea di coach di prestigio; tuttavia un vero top coach non lascia carta bianca alle sue stelle ma cerca di costruire un sistema in grado di farle rendere al meglio come ha fatto, per dirne uno, Erik Spoelstra ai Miami Heat per Jimmy Butler.

Certo, nel frattempo Tobias Harris si sta imponendo come il difensore principale della squadra sugli esterni ma il problema è sempre lo stesso: se il sistema di gioco non c’è Harris passa dall’essere il difensore principale ad essere spesso l’unico difensore, l’uomo sulle cui spalle grava l’intero peso di tale responsabilità.

In tutto ciò, come già accennato, sta emergendo come nota lieta principale Tyrese Maxey soprattutto perchè ci mette ciò che quasi nessuno ai Sixers fornisce: l’energia e la voglia di vincere. I numeri parlerebbero già da soli: 22.6 punti di media con 50.4% dal campo e 46.8% da tre con più assist (3.4) che palle perse (0.6)

Il giovane texano di Dallas classe 2000 è a tutti gli effetti l’anima e il cuore di questi Sixers che di anima e cuore ne stanno mettendo davvero poco e le cifre sopra citate, che già sarebbero più che esaltanti per un ragazzo alla sua terza stagione NBA, non rendono merito a come Ty si butti su ogni pallone quasi a cercare di mettere lui stesso, come accennato, quegli occhi della tigre che gli altri non mettono.

Peccato che Maxey sia forse l’unica novità buona rispetto a quel ciclo del Process che ha sì riportato ai playoff i Sixers ma nel poco ambito ruolo di eterna incompiuta incapace di arrivare fino in fondo alla sua stessa Conference.

L’errore principale è stato continuare ad aggiungere a una base che però non aveva ottenuto risultati invece di costruire sul campo con le enormi potenzialità a disposizione (leggi: manca pericolosità sotto canestro? Compriamo Horford. Manca difesa? Compriamo Tucker) e così Philadelphia è attualmente guidata da un grande realizzatore che però fa risultato con ciò che produce da sè come Embiid e un James Harden che non ha accettato, come ha invece fatto Jimmy Butler, il ruolo di uomo squadra.

La prossima stagione sarà l’ultima da contratto per quasi tutti, esclusi Embiid e la player option di un Tucker che nel 2024 avrà 39 anni. Dato per scontato che si lavorerà a un gran rinnovo per Maxey ad oggi non ho grandi prospettive per Philadelphia: un altro anno ai playoff, un’altra uscita più o meno inaspettata nei primi due turni e di nuovo a lavorare per cercare di mettere su una squadra che sia una contender credibile.

D’altro canto per bocca dello stesso coach Philadelphia oggi non lo è.

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