I’m just a kid from Akron. Così lo si ricorda spesso, in lacrime, quando è riuscito a regalare a Cleveland, la sua città, quell’anello NBA che mancava nella bacheca.

Alcuni invece, forse con malizia o forse con sguardo freddo e calcolatore, lo ricordano per la celebre frase I’m gonna be taking my talents to South Beach. Lo guardano come il responsabile di una rivoluzione epocale nella NBA: il creatore dell’Era dei Super-Team.

Con LeBron, così come è stato e sarà per qualunque giocatore che sia davvero degno del titolo di superstar, sarà sempre una questione di antinomie, di odi et amo.

Per Il Re, però, credo che le cose siano leggermente più complesse. In lui, involontariamente, sono anni che si sta concentrando il più grande dibattito sportivo degli ultimi anni: MJ o LBJ? Chi è il GOAT, il migliore di tutti i tempi?

Su questa domanda amletica generazioni di nonni, padri e figli si sono scontrati testa contro testa, tutt’oggi lo fanno, e tutto ciò ha reso LeBron il centro di un vero e proprio scontro generazionale di opinioni (ma non sempre tale, leggere per credere).

Non sono qui per dare una risposta a quella questione, non sono qui per argomentare né dimostrare un qualcosa che credo estremamente soggettivo e non limitabile a statistiche o premi. Sono qui per esortare chiunque sia coinvolto in quel dibattito, di qualunque fazione sia: mettete da parte per pochissimi minuti le vostre fiamme argomentative e le vostre convinzioni, e state semplicemente a guardare.

Prima di iniziare ad analizzare la lotta tra il Re e Father Time, solo un accenno al lontano 18 febbraio 2002, in particolare sulla copertina di una rivista di una certa importanza come Sports Illustrated. Una gigantografia di un adolescente di 17 anni con la canotta della St. Vincent-St. Mary High School, la scuola secondaria locale di Akron, suo paese natale. Accanto a lui, una scritta a caratteri cubitali: The Chosen One.

LeBron non era ancora nella NBA, a dir la verità era mesi prima che dichiarasse la sua volontà di saltare l’anno di college e dichiararsi subito per il Draft NBA del 2003, ma già era Il Prescelto.

Pochi mesi dopo i Cavs, che nel 2002 battagliarono con altre franchigie per avere il record peggiore, lo ospitarono illegalmente per un allenamento, cercando di nasconderlo tra giocatori free agent. La dirigenza rimase abbagliata, ma ricevette anche 150.000 dollari di multa, in aggiunta alla sospensione per due partite di coach Lucas. E ancora LeBron non aveva reso pubblica nessuna decisione relativa alla sua effettiva partecipazione al Draft di pochi mesi dopo.

Insomma, provate voi a citarmi un giocatore, uno basta, che sia arrivato in NBA con così tanto peso sulle spalle, con così tante aspettative date da una superiorità innegabile (nel suo ultimo anno di high school sono 29 punti, 8.3 rimbalzi, 5.7 assist e 3.3 rubate a partita di media).

Potrei citarvene uno recente che forse gli si avvicina: Zion Williamson. Fenomeno assoluto, ma in NBA? Desaparecido, forse sazio [NDR ehm…] della sua fama e di tutti gli accordi pubblicitari firmati. In LeBron, anche solo dati alla mano, non c’è traccia di sazietà, perché si è sempre cibato di critiche, pressione e dubbi altrui. Perché LeBron ha sempre avuto e sempre avrà fame.

Rapidissimo e cinematografico flash-forward ben 19 anni dopo quel fantomatico 2002-2003.

LeBron è in pantofole a casa con i figli, con il suo meritato posto nella Hall of Fame già esposto insieme a tutti gli altri trofei… Anzi, meglio.

LBJ è il primo giocatore nella storia della massima lega americana di pallacanestro a raggiungere 30.000 punti, 10.000 assist e 10.000 rimbalzi. E per la cronaca:

A 37 anni, sta timbrando 32.8 punti a partita da dopo l’All Star Game, secondo solo ai 33.3 di un Jason Tatum in formato superstar. Si trova secondo, dietro al candidato MVP Joel Embiid, per punti a partita stagionali con 29.7, solo 0.2 dietro al centro dei Sixers.

Possiamo dire che LBJ sia l’unico lumicino che tiene accesa la speranza di tutti i tifosi gialloviola, in una stagione dove la storica franchigia losangelina è al completo sbaraglio, trovandosi nona a Ovest con un record di 29-39 e con sole 2.5 partite dai primi inseguitori per un posto nei play-in. Se c’è davvero un solo argomento razionale che può impedirci di sostenere che non sia davvero ancora finita per i Lakers è: LeBron Raymond James.

A 37 anni forse non è più in grado di caricarsi sulle spalle il peso di un roster costruito malamente, anche con responsabilità del Re. Sicuramente Father Time piano piano inizia a farsi sentire nelle ossa, nei legamenti, ma anche nella testa.

Attitudine, sfoghi di rabbia, appuntamenti con la stampa saltati, tutti segnali che convergono verso una situazione estremamente complicata e mal gestita.

Eppure, se il record dei Lakers è 2-8 nell’ultimo mese e quelle due vittorie nascono da prestazioni di 50 e 56 punti di LeBron (unico giocatore di età superiore ai 35 anni a segnare più di 50 punti in almeno due partite), mi viene sempre più difficile pensare che davvero il Tempo la stia avendo vinta.

LBJ rimane LBJ, rimane quell’uomo che non ha mai terminato una stagione sotto i 20 punti a partita. Rimane un giocatore che nel suo diciannovesimo anno di attività sta avendo la terza stagione più prolifica della sua carriera, tirando con il 36% da tre e con il 62% da due. Che ha saputo riadattarsi ad un gioco in mutamento, ampliando il suo range di tiro in modo siderale.

Sì, le prime rughe iniziano ad intravedersi. L’energia di rincorrere un Igoudala, e “oscurare la vallata” con la stoppata più iconica di sempre, non la dimostra ogni azione. Queste sono però considerazioni adatte solo a chi vuole trovare il pelo nell’uovo a tutti i costi. Nessuno di noi se la sentirebbe mai di chiedere ad un trentasettenne ciò che noi pretendiamo di vedere ogni maledetta sera da quel signore nato ad Akron, Ohio.

E se non ci accontentiamo di meno, se dobbiamo continuare sempre e comunque a criticarlo, significa che davvero LeBron è arrivato al traguardo, significa che davvero lui è uno dei grandissimi, che si merita legittimamente di essere accostato a Air Jordan come il migliore di tutti i tempi.

Nessuno sa come finirà. Probabilmente andrà avanti finché non supererà Kareem Abdul-Jabbar come miglior realizzatore della storia NBA e finché non avrà avuto la possibilità di giocare in una franchigia insieme a suo figlio maggiore.

Ma a prescindere da tutto questo, dalle antipatie o simpatie che un giocatore può suscitare in chi lo guarda, dai giudizi su scelte sportive, LeBron rimane uno dei giocatori più completi della storia del basket americano, forse addirittura il più completo.

E se tutta questa grandezza è stata raggiunta con il peso di una corona che gli è stata posta sul capo quando aveva 17 anni, allora davvero era lui il Prescelto, The Chosen One.

E chi non è in grado di contemplare in silenzio l’atto finale della sua incoronazione, o peggio chi non riconosce che quella corona è sua, sarebbe meglio che abbandonasse ogni pregiudizio o pensiero e capisse che ciò che ha fatto quest’uomo non è mai stato fatto da nessuno nella storia della nostra amata pallacanestro.

Se davvero di uomo si può parlare quando si indica LeBron Raymond James.

 

One thought on ““LeTimeless” James

  1. Sono anni che gioca solo per le statistiche, come un Westbrick qualsiasi, e difatti dal clamoroso scippo ai Warriors (merito di Irving, peraltro – e quell’altro titolo avuto in regalo da Popovich e Ray Allen…) per vincere ha bisogno di supersquadre cucite su misura.
    In questa NBA persino uno che in ciabatte ci vive come Towns piazza 60 punti (su 140 della sua squadra: difese ne abbiamo?). La stagione vera comincia ai playoff.
    Ricordiamo infine che Lebbros spende oltre10 milioni di dollari/anno per fisioterapisti, nutrizionisti e massaggiatori olistici vari e assortiti.

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