È già difficile allenare in NBA per tanto tempo, farlo per più di 20 anni sulla stessa panchina lo è ancora di più. Per questo la legacy – come la chiamano gli americani – di coach Gregg Popovich è qualcosa che va ben oltre i numeri, oltre i titoli conquistati.

Se Pop è rimasto così tanti anni ai San Antonio Spurs lo deve sicuramente al fatto di aver mantenuto questa squadra ai piani alti per moltissimo tempo grazie alla sua capacità di trasmettere passione ai suoi giocatori, seppur lo si veda sempre con questa attitudine fredda, stoica e mai soddisfatta che molto probabilmente gli è rimasta dagli anni passati nella Air Force.

Popovich ha raccolto questa franchigia quando era poco e niente, i cui unici periodi degni di nota appartenevano all’epoca di George Gervin e all’inizio dell’era David Robinson, e l’ha trasformata in una contender, capace di portare a casa cinque titoli in sei occasioni nel giro di quindici anni.

Certo, dietro ad un grande coach c’è sempre una grande organizzazione, e per questo Pop ha sicuramente dei ringraziamenti da fare.

Il primo va certamente ai suoi giocatori. Da Tim Duncan a Tony Parker, dal succitato Robinson a Manu Ginobili, perché non ce n’è uno che il buon Gregg non abbia valorizzato in tutti questi anni. E me ne vengono in mente tanti altri che hanno avuto un ruolo fondamentale per questa franchigia e nel cammino di Popovich, seppur magari non siano stati dei top scorer o non abbiano ottenuto riconoscimenti individuali.

Sia che durassero due mesi oppure degli anni all’interno della squadra, per lui non c’è mai stata differenza.
“Se fai parte della mia organizzazione ti chiederò il massimo e ti tirerò fuori il massimo” sembra aver sempre voluto dire.

Per questo deve ringraziare anche l’ex general manager R.C. Buford (ora CEO) con cui ha avuto una sintonia straordinaria, incentrata nel cercare e nello scovare sempre giocatori che potessero fornire un contributo importante alla causa e mantenere questa squadra competitiva. Un lavoraccio, ma che sono sempre riusciti a fare con discrezione, portando uno small market come San Antonio a diventare capitale del basket mondiale per lungo tempo.

Per ultimo, ma non per importanza, deve sicuramente ringraziare la proprietà, cioè quel Peter Holt che ha sempre creduto in lui e che lo ha voluto sulla panchina degli Spurs nel 1996, facendogli lasciare il posto di general manager e di vice presidente che aveva ricoperto nei due anni precedenti. Ruolo che poi ha sempre mantenuto, seppur nell’ombra.

Un’intesa splendida e vincente quella con Holt, scaturita probabilmente dal passato molto simile, dove entrambi hanno prestato servizio in un corpo delle forze armate (Holt ha servito per due anni nel US Army ed è pure stato in Vietnam). Forze armate che sono state il primo banco di prova di coach Pop quando divenne assistente allenatore dei Falcons di Air Force, tre anni dopo la sua militanza.

Sei stagioni lì, poi cinque ai Pomona-Pitzer Sagehens, due piccoli college, ma con un programma sportivo unico, della terza divisione NCAA. Il suo primo incarico da head coach che gli fece definitivamente scartare l’ipotesi di tornare nell’Air Force oppure di intraprendere la carriera nei servizi segreti, per il quale aveva studiato e si era addestrato, ma che la passione per lo sport e, specialmente, per il basket hanno allontanato.

Anni complessi quelli a Pomona-Pitzer, ma che lo hanno certamente fatto maturare, per poi avere la grande opportunità della sua vita, cioè diventare assistente di Larry Brown a Kansas. Un’opportunità che gli ha aperto quelle che sarebbero poi diventate le porte verso l’NBA.

Un anno di apprendistato, poi il ritorno a Pomona-Pitzer giusto per finire il lavoro che aveva iniziato, raccogliere le sue cose, salutare e trasferirsi a San Antonio per la prima volta, nel 1988, sotto la guida, guardate caso, di coach Brown.

Altri quattro anni di formazione, questa volta nella lega più importante al mondo, per poi ricevere la chiamata di un altro grande allenatore, Don Nelson, che lo volle come assistente ai suoi Golden State Warriors per due anni.

Proprio quel Don Nelson che, la scorsa notte, Popovich ha superato nella classifica dei coach più vincenti di sempre in regular season. Proprio quel Don Nelson con cui ha battagliato per anni all’interno della stessa division, quando Nelly allenava i Dallas Mavericks, creando una rivalità stupenda agli inizi degli anni 2000.

E infine, il già citato ritorno a San Antonio. Il resto è storia. Come è storia Popovich che, però, continua a voler andare avanti, a non porsi limiti, a voler allenare e, soprattutto, ad insegnare, specialmente alla classe di ragazzi che si trova ora, con questi giovani Spurs pronti a fare il salto di qualità quando meno te lo aspetti.

Una classe a cui sta continuando ad insegnare gli stessi valori che professava già vent’anni fa. A giocare un basket pulito, essenziale, prediligendo i fondamentali, senza essere mai troppo univoci, piuttosto poliedrici.

Ricordo che un po’ di tempo fa Popovich criticò aspramente il modo odierno di interpretare la pallacanestro, troppo incentrato sul tiro da tre punti, secondo lui, dimenticandosi di quelle che erano le basi.

Per dimostrare questo suo pensiero, San Antonio è una delle squadre che tira di meno da oltre l’arco di tutta la lega. Perché dico questo? Per farvi capire la coerenza di questa persona che sarà anche al passo con i tempi, ma che è sempre rimasta sé stessa, senza mai snaturarsi troppo.

Una integrità che è stata molto spesso apprezzata anche dai colleghi, ma, soprattutto, da coloro che hanno avuto l’onore di collaborare con lui e non è un caso che il suo coaching tree sia ampiamente il più prolifico della Lega.

Insomma, se siamo di fronte al più grande allenatore di tutti i tempi non lo so, è una visione molto soggettiva. Quello che è sicuro è che sia il più vincente e i numeri non mentono.

One thought on “1336 volte Pop

  1. Un breve frame che dice tutto. Duncan sostituito per una normale rotazione sfila di fianco a Pop e lo guarda. Pop continua a guardare fisso in mezzo al campo e non se lo fila proprio. Tim si siede in panchina con la sua solita espressione assente/imbronciata e sembra un bimbo delle elementari che ha capito anziché uno dei migliori 15 di sempre.

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