Heroes come and go. Per una ragione o per un’altra siamo tutti destinati a vedere i nostri eroi cadere vittime del tempo, dell’usura, di infortuni. L’unica piccola speranza che ci rimane accesa è quella di riuscire a vederli con i nostri occhi almeno un’ultima volta al loro meglio.

Ci sono poi delle condizioni particolari, che posso sconvolgere tutte le carte in tavola, e farci voltare le spalle indignati. Il nostro eroe “ha sbagliato”, ha fatto una scelta per noi incomprensibile o, peggio, si comporta da bambino, esattamente ciò che non ci si aspetta da una persona che si ammira.

In queste poche righe sopra sono riassunte le vicende di tre veterani e All-Star NBA che per un motivo o per un altro non hanno ancora calcato il parquet in questa stagione e non sembrano destinati a farlo se non in un remoto futuro.

John Wall

Una carriera pazzesca, almeno in potenza e a piccoli sprazzi, rovinata dalla persecuzione di infortuni che sembrano accanirsi senza pietà.

20.6 punti e 7 assist in 32 minuti di media con il 40% dal campo. Numeri di un fenomeno, se si conta che sono le medie dopo un anno e mezzo di totale inattività per via di una tremenda rottura al tendine d’Achille. Eppure, anche l’anno scorso, solo 40 partite. Ancora, per l’ennesima volta, un infortunio, seppur muscolare e non tendineo, ha frenato e terminato anzitempo l’annata di Wall.

Il lato romantico dello sport avrà sempre la meglio su alcuni (spero molti) degli appassionati, e quel lato romantico scommetto che desiderava e tutt’ora desidera vedere questo signore almeno un’ultima volta fare una delle sue taurine penetrazioni al ferro in bulldozer-mode. Ma la realtà cruda è che la NBA è prima di tutto business, e un giocatore come il buon vecchio e fragile John, con 44 milioni di contratto quest’anno più 47 per l’anno successivo in player option, non sono l’ideale per nessuna franchigia.

Se poi quella franchigia è nel mezzo del rebuild più radicale e ha l’opportunità, giustamente colta al volo, di appaiare nel back-court i gemelli terribili Kevin Porter Jr e Jalen Green, ecco che l’esclusione dalle rotazioni di Wall è più comprensibile. Ma il capire non lenisce la sensazione di mancanza che a volte mi prende nel pensare a che giocatore sarebbe oggi John Wall se il parquet non lo avesse privato in continuazione della possibilità di giocare.

Una nota di merito va data a Houston e alla ex-prima scelta assoluta del 2010: hanno gestito con enorme professionalità e trasparenza la situazione, senza scontri plateali o scenate isteriche. Hanno dovuto entrambi fare i conti con la realtà monetaria dello sport, e hanno preso di comune accordo la decisione di cercare per Wall una nuova sistemazione via trade.

Una trade che non arriverà mai (chi è disposto a prendersi 44 + 47 milioni di contratto?) e che quindi costringerà Houston a tagliare il giocatore a ridosso della trade deadline. In questo modo, libero dal contratto pesante per qualunque franchigia, il trentenne ex-Washington potrà accasarsi dove più gli aggraderà.

In passato si vociferava di Miami, ma se tanto mi dà tanto, ho come l’impressione che la vecchia Brooklyn…

Ben Simmons

Prima scelta assoluta nel 2016, pur non giocando poi la prima stagione per infortunio. In 4 anni di attività: 1 Rookie of the Year, 3 volte All-Star, 2 volte All-Defensive Team, 1 volta All-NBA. Uno dei difensori più micidiali della lega, cosa che gli è valsa il ricco rinnovo da 170 milioni in 5 anni nel 2019.

Tutto molto bello, eppure non credo di aver mai assistito ad una involuzione più repentina di quella di cui nell’ultimo anno soprattutto è stato vittima, e artefice, lo stesso australiano.

Nel 2021, Simmons ha registrato carreer-lows in punti (14 in 32 minuti), assist (6.8 contro gli almeno 8 degli altri anni), rimbalzi (7) e rubate, nonché offensive rating (109 contro i 112 di media degli altri anni) e defensive rating (addirittura sceso da 109 a 102).

Ma non tutto può essere dimostrato con i numeri. Perché Simmons ha dimostrato, in tutto questo, che il vero problema non è la tecnica, bensì la testa. Perché in allenamento le triple le tira e segna anche, ma in partita per provare quel tiro ci vuole fiducia in se stessi e più consapevolezza, cose che lui evidentemente non ha o non ha ancora sviluppato.

E poi la paura… di sbagliare, dei rimproveri del pubblico sempre più impietoso di Philly, di prendersi tiri importanti fino anche a giocare una partita di basket. Da questa paura, e dalla sfiducia nei suoi confronti erroneamente confessata al mondo da coach Rivers e dai suoi compagni di squadra, è nata una vera e propria telenovela riassumibile in questi snodi chiave:

– Simmons finge un contagio da COVID-19 per non giocare gara 7 contro gli Hawks (poi persa). La gioca senza testa e voglia, compiendo un errore offensivo decisivo per la sconfitta.
– 7 minuti dopo la sirena, Doc Rivers dice di non essere sicuro che il giocatore possa giocare come point-guard in una squadra da titolo.
– Simmons incontra la dirigenza dei Sixers in agosto, e comunica di voler essere ceduto. Poi si volatilizza per due mesi, dando notizia di sé solo in video dove il suo jump shot sembra più fluido di quello di Carmelo Anthony.
– Joel Embiid ci scherza su al media day dicendo che dai video diffusi sul web Simmons ha sviluppato ottime skills.
– Philadelphia offre Simmons a Portland chiedendo CJ McCollum, 3 prime scelte, 3 swaps. Portland, “stranamente”, rifiuta.
– Philadelphia multa Simmons e non gli versa 8 milioni di dollari di stipendio a cui il giocatore avrebbe diritto perché non pensa neanche di prendere l’aereo per presentarsi alla pre-season.
– Simmons ricompare: un bel giorno di qualche settimana fa Elton Brand riceve un messaggio inaspettato che gli comunica la presenza di Simmons fuori dal West Fargo Center. Tutto punta ad un vibrante desiderio del giocatore di non perdere più sonante denaro a causa della sua testardaggine.
– Nel primo allenamento dal ritorno , Simmons partecipa in tuta lunga e con il cellulare in tasca, senza neanche far finta di impegnarsi.
– Nel secondo allenamento, Simmons viene cacciato e sospeso per una partita per motivi disciplinari, per la sua “riluttanza
all’impegno fisico e mentale”. Viene poi apostrofato aspramente dal compagno Joel Embiid (non sono qui per fare il babysitter) e dal coach Doc Rivers (mi sembrava distratto, non sembrava voler fare quello che facevano anche gli altri)

Settimane dopo essere tornato a Philly, e dopo workout  da lui documentati sui social durante tutta l’estate, si dichiara “ancora non pronto a giocare”. Nel frattempo, non partecipa agli allenamenti collettivi e rifiuta l’aiuto di specialisti che lo possano aiutare mentalmente verso un approccio migliore alle gare. Viene multato di 360.000 dollari per aver rifiutato l’aiuto di specialisti, per la continua assenza di comunicazione tra lui e la squadra, e ovviamente per le assenze ingiustificate alle partite di stagione.

Ora, vedere un talento così cristallino buttare giù dallo scarico la sua carriera non può far altro che dispiacere. Ci sono pochi altri modi, oltre a bambinesco, unprofessional and disrespectful, per definire il comportamento di un giocatore verso una franchigia che su di lui ha investito una marea di milioni.

Il problema rimane che lui non vuole evidentemente rimanere a Philadelphia, e Philadelphia chiede troppo perché una squadra possa pensare di investire su un giocatore che non si sa se mai recupererà la sicurezza adatta a farlo stare su un palco stressante quanto una gara 7 dei Playoff. Solo il tempo ci dirà se Morey sarà disposto ad abbassare le richieste e porre fine a questa infinita storia, che si trascina ormai da mesi.

Una cosa è certa: una involuzione di questa portata, causata da problemi chiaramente psicologici di insicurezza e paura, non può essere usata come motivo di bieco insulto ad un essere umano. Anzi, dati i problemi evidenti, il giocatore andrebbe sostenuto, accompagnato, in un momento della sua vita, anche extra-pallacanestro, sicuramente non facile.

E se il giocatore rifiuta questo aiuto, trovare altri modi per aiutarlo è il minimo per curare il lato di uomo fallibile e fragile che sta dimostrando una stella come Ben Simmons. Nella speranza che tutto si risolva per il meglio, e che Ben riesca a trovare -o ritrovare- una casa che possa chiamare home.

Kyrie Irving

Ed eccoci finalmente al tema caldo. Diciamoci le cose chiare, dirette, senza perderci in eccessivi e futili fronzoli. Kyrie ci ha abituato a comportamenti che lungo tutta la sua carriera hanno fatto alzare ben più di un sopracciglio.

Rimanendo solo all’anno scorso: l’aperto rifiuto del nuovo allenatore Nash con la frase “saremmo in grado benissimo di fare un campionato da soli, senza allenatore”, il rito dei nativi americani nel pre-partita bruciando incenso, il rispetto del Ramadan pur non essendo lui di fede musulmana, l’irrispettosa pulizia delle sue scarpe sul logo dei Celtics, squadra che gli ha dato casa e vagonate di soldi per quattro anni… e si potrebbe continuare.

Sono scelte personali, che non ho intenzione di stare a giudicare, ma che è oggettivo abbiano fatto sorgere qualche domanda nel chiacchiericcio televisivo. E ovviamente, in un anno come questo, non poteva mancare l’ennesimo colpo di coda di Irving, che ha rifiutato di ricevere il vaccino (che comunque, è bene dirlo, non era stato reso obbligatorio dalla NBA).

Qui sono iniziati i problemi, perché benché la lega avesse dato il via libera a giocatori non vaccinati, rispettando limitazioni adeguate, sono intervenuti a gamba tesa i governi e le istituzioni di alcune città o stati. Essendo che ovviamente i palazzetti sono al chiuso, e qui il rischio contagio aumenta esponenzialmente, la città di New York così come lo Stato della California e altri governi locali hanno imposto l’obbligo di vaccinazione per entrare nei palazzetti sportivi. Questo, nell’equazione della stagione di Kyrie, sarebbe significato perdere sicuramente almeno il 50% delle partite, quelle in casa, più molte altre.

Brooklyn, dopo giorni di incertezza e dopo essersi resa sicura della fermezza della posizione di Irving, ha preso le redini della situazione ed ha annunciato la sospensione di Irving da ogni attività di squadra a tempo indeterminato. Non un gesto di condanna della sua decisione, che è stata rispettata in quanto scelta personale, ma una dimostrazione di maturità e consapevolezza.

Una squadra che ha necessariamente bisogno, per giungere alla vittoria di un titolo, di trovare chemistry, di far girare il pallone trovando meccanismi e rodandoli fino alla consunzione delle articolazioni, non può permettersi di avere un giocatore una partita sì e due no. Decisione a mio parere saggia, che certo va a penalizzare Brooklyn ma al contempo dimostra la fiducia di Marks e Nash nei riguardi di tutti gli altri membri del roster.

Ora, vorrei concludere questo pezzo con mie brevissime valutazioni che spero possano apparire a tutti logiche tanto quanto lo appaiono a me:

  1. La NBA è business, ormai dobbiamo fare la pace con questa storia. E funziona come una vera propria azienda privata che ha diritto a sue interne policy, restrizioni e regolamentazioni, soprattutto in uno stato di emergenza per una pandemia. La NBA ha deciso, tramite protocolli molto rigidi e un aperto incitamento alla vaccinazione, di proteggere la salute delle migliaia di donne e uomini che lavorano per permettere che la stagione fili liscia. Si è avvalsa quindi di un diritto pienamente suo.
  2. La Lega non ha apportato alcuna discriminazione contro i non-vaccinati, ha semplicemente stilato un protocollo che prevedesse maggiore accortezza e maggiori limitazioni da parte di coloro che avevano compiuto questa scelta. Non credo ci sia una “spinta tendente all’obbligo”, bensì semplice buon senso direzionato verso la protezione di vite umane, non solo degli addetti ai lavori ma anche delle loro famiglie. Non a caso, un giocatore come Bradley Beal, apertamente non vaccinato, sta disputando regolarmente la stagione rispettando il protocollo specifico.
  3. La posizione di Irving è una sua scelta, “è il mio corpo” ha detto lui in una live Instagram. Ma se difendiamo tanto il diritto di scelta del giocatore singolo, perché dovrebbe essere legittimo attaccare una scelta, di senso opposto, compiuta da una Lega che ha tra le mani non la salute del singolo ma di centinaia di persone?
  4. Se Irving si trova in disaccordo con le disposizioni della Lega, può benissimo rimanere fedele ai suoi principi e appendere le scarpe al chiodo. Credo però sia profondamente ingiusto costruire questa narrativa della lega come dittatorialmente padrona dei giocatori. La scelta è stata fornita, e ripeto, la porta è stata lasciata aperta anche per i non-vaccinati a determinate e comprensibili condizioni.
  5. Un uomo ha fatto la sua scelta, sebbene con motivi a parer mio risibili (“per rispetto di coloro che sono stati forzati a farsi il vaccino per non perdere il lavoro”). Credo che, in un mondo dove si predica tanto la libertà di scelta, sia giusto lasciargli fare come meglio crede per sé.

Una cosa è certa. Sono uomini, esattamente come noi. Sbagliano, esattamente come noi.

Prima di demonizzarli, scuotere la testa increduli o peggio insultarli, pensiamo a quante volte avremmo scatenato la medesima nostra reazione in altri se solo avessimo avuto puntati su di noi centinaia di microfoni e videocamere, nonché gli occhi milioni di persone.

2 thoughts on “Wall, Simmons e Irving: i perchè dietro la loro assenza dal parquet

  1. Uno che non conosce le leggi americane (federali e statali) dovrebbe evitare di scriverne: si espone a figure irredimibili.

    Se fosse sotto contratto per Orlando, Miami, Houston, Dallas, San Antonio o Phoenix, tanto per dire le prime che mi vengono in mente, Irving sarebbe regolarmente in campo (o in panchina) e di lui si parlerebbe solo per commentare le statistiche delle partite o i tuitte.
    Ergo la faccenda è meramente politica e non ha nulla a che (ripeto: nulla, zero, niet, nada) fare col Business.
    Salvo per i milioni che Brooklyn risparmia, ovviamente. Avessero tenuto Dinwiddie al posto dell’australiota sarebbero da titolo, ma pazienza.

    • La invito a rileggere più attentamente l’articolo perché ho specificato come il fatto che Irving non giochi sia una questione legata a leggi specifiche di New York, che hanno portato la squadra di Brooklyn a lasciare fuori rosa Kyrie per evitare di averlo meno del 50% delle partite, a intermittenza.
      In più, la NBA rimane un business e come tale in grado di porre delle proprie regolamentazioni, che in questo caso sono state più morbide rispetto a quelle statali (si veda il sopra citato caso di Bradley Beal, a cui è appunto permesso di giocare). Il fatto che poi le parole che cito di Irving sono state pronunciate prima che si scoprisse della legge di New York credo vada ad evidenziare come l’attacco di Irving non fosse alla Politica ma alle politiche della lega, cosa con cui mi sono permesso di dissentire.

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