Gli Utah Jazz, squadra per antonomasia da small market, hanno il miglior record NBA. Quegli stessi Utah Jazz stanotte sono diventati la prima squadra NBA ad assicurarsi la partecipazione ai playoff che inizieranno tra poco meno di un mese.

Credo si potrebbe partire da qui per descrivere la stagione impressionante che ha vissuto e, infortuni permettendo, continuerà a vivere Donovan Spida Mitchell.

Mitchell è la stella indiscussa di quella stessa squadra, pur essendo solo al suo quarto anno nella massima lega americana. Credo sia anche abbastanza accurato dire che sia il massimo contributore al successo attuale dei Jazz assieme a Rudy Gobert.

Rivolta ad una squadra che ora (e per ora) siede sul trono della Western Conference con un record di 44-16 sembra ovviamente una espressione tirata un po’ per i capelli perché per arrivare a questo punto della stagione in una posizione di prestigio assoluto è praticamente impossibile immaginare che il contributo sia arrivato solo da due giocatori, per quanto di calibro All-Star.

Si potrebbe sicuramente argomentare che a fette importanti delle vittorie della squadra di Salt Lake City abbiano contribuito i vari Clarkson, sesto uomo dell’anno praticamente assicurato, Bogdanovic, Conley, Ingles, che sta vivendo una stagione fuori dal normale al tiro tanto che la sua true shooting percentage è del 71.1%. Vi posso però assicurare che guardando le partite dei Jazz è chiaro ed evidente come il fulcro e il perno di tutto sia proprio il giovane prodotto di Louiusville.

Innanzitutto, dati alla mano, Mitchell è coinvolto nelle azioni di attacco della sua squadra ben il 33.5% delle volte (quinto dato nella intera NBA), e questo ovviamente significa che circa una azione su tre la palla passa da Spida. La centralità nel gioco orchestrato da Quin Snyder è evidente, e lo diventa ancor di più se si trova il tempo per dare una sbirciatina alle sue statistiche attuali.

Nella stagione corrente il numero 45 di Utah sta registrando di media 26.4 punti, 4.4 rimbalzi, 5.2 assist (tutti career-highs) in solo 33.4 minuti di media (career-low). Lascio un po’ di tempo per assorbire queste informazioni, che descriverò molto brevemente come: Mitchell sta avendo il miglior anno della sua breve carriera NBA nello stesso anno in cui gioca di meno in assoluto. Inoltre, i 26.4 punti a partita lo inseriscono come nono top-scorer nell’intera NBA.

Ovviamente però non finisce qui. Infatti, i dati credo che forniscano prova lampante di come questa stella stia sempre più prendendo le redini della squadra. Di anno in anno sono andati aumentando i tiri che Mitchell si prende a partita (passati da 17.2 a 20.6, andando quindi in direzione inversamente proporzionale rispetto al suo minutaggio), di questi circa 4 tiri in più, ben due sono triple, quindi la scelta di Mitchell è verso un tiro più pesante e più difficile.

Non a caso, è ottavo nella lega per triple segnate con 178, anche grazie al fatto che nella sua carriera la percentuale da tre è costantemente aumentata (da 34% a 38.6%). In crescendo continuo è anche l’effective field goal percentage passato dal 50% al 52%. Stabile invece è rimasta la percentuale da due, sempre intorno al 43-44%.

Tutti questi dati però non varrebbero nulla se non si dicessero due altre statistiche, sempre legate al tiro, che sono cruciale a mio parere per determinare la crescita esponenziale sia sportiva che mentale di questo fenomeno. Il suo offensive rating negli ultimi 5 minuti di partita quando la distanza tra le squadre è minore o uguale a 5 punti (il cosiddetto clutch time) è di ben 118.2, di gran lunga il migliore della sua squadra.

Dalla sua stagione rookie, dove già era rivestito di grandi responsabilità tanto da prendersi il 20% a partita dei tiri della sua squadra, ha continuato progressivamente a caricarsi la squadra sulla schiena arrivando, questa stagione, a tirare ben il 23.5% dei palloni a disposizione della sua squadra, senza aver paura di isolarsi (nel 38% dei casi è infatti così).

In più, circa il 46% dei suoi tiri sono compiuti con il difensore più vicino a 4 piedi (1.2 metri) o meno da lui. Se avete pazienza, andate pure a rileggere le statistiche al tiro di prima, e credo che vi sarà facile capire con quanta naturalezza questo giocatore si prende e segna tiri veramente complessi ed al contempo importanti.

Oltre alle statistiche, però, è ancora più bello osservare la sua crescita come giocatore. È entrato nella lega come point-guard che non aveva adeguate capacità di play-making, o vedendola da un’altra prospettiva come shooting-guard che non aveva percentuali abbastanza alte al tiro.

Si è fatto conoscere per lo più come quello che ha vinto la gara delle schiacciate all’All-Star Game del 2018, come rookie. Era ancora l’epoca, come d’altronde è ancora, di Curry, LeBron, Durant, Thompson e compagnia bella, e forse anche ragionevolmente non c’era spazio nei discorsi per un rookie come lui.

Era rinomato per il suo atletismo, per la sua garra alla uruguaiana, per le sue, appunto, schiacciate pur essendo lui solo 1.85m. Poco contavano agli occhi del sempre più impietoso pubblico i 38 punti sparati in faccia a Westbrook e Paul George da rookie in quella gara 6 in cui i Jazz hanno eliminato gli OKC Thunder.

Mitchell, però, come solo i talenti puri come lui sanno fare, si è fatto spazio tra le maglie della lega andando ad adeguarsi al gioco NBA in evoluzione e andando a migliorare proprio quelle cose che gli impedivano di essere un giocatore completo. Ha aumentato la percentuale del suo jump-shot, specialmente da fuori dall’arco, e ha aumentato di gran lunga le sue abilità di gestione del pallone, arrivando ad aggiungere due assist a partita al suo scoreboard e aumentando la sua Assist ratio di un terzo al minuto.

Tutto questo senza minimamente intaccare, anzi andando a migliorare anche quelle che erano le sue forze, prime tra tutte l’esplosività dal palleggio e il suo ormai caratteristico step-back che farebbe saltare i legamenti di caviglia e ginocchio a chiunque non si chiami Spida Mitchell.

La cosa che però più mi sta a cuore di questo ragazzo è la sua leadership e il suo spirito di appartenenza. È una stella, e su questo ci sono ben pochi dubbi, ma molte star fanno tanto bene in regular-season quanto spariscono poi quando le partite iniziano a contare per davvero, si prenda l’esempio di Giannis Antetokounmpo.

Mitchell invece ha dimostrato già l’anno scorso che è un giocatore che si accende nei playoff quando è sotto pressione, e grazie a questa sua caratteristica ci ha regalato uno dei duelli più belli degli ultimi tempi con Jamal Murray. Basti pensare al fatto che in regular season aveva registrato il 18.8 in player efficiency rating, che si era quasi duplicato nella serie contro Denver raggiungendo i 33.7 (per intenderci, il Joel Embiid di questa stagione viaggia intorno al basso 31 in PER).

In quelle incredibili 7 partite aveva tirato con il 52.9% dal campo, con il 51.6% da tre e con il 69.9% di true shooting segnando una media di 34.6 punti a partita. Questo a riprova del fatto che se c’è bisogno di un leader, di uno che abbia la decisione ed il coraggio di prendere tra le sue mani le sorti della sua squadra in momenti cruciali, lui non si tira indietro e anzi è capace di elevare il suo gioco a livelli dei migliori della NBA.

Non è un caso, credo, che nella nuovissima classifica dei migliori giocatori sotto i venticinque anni della NBA lui sia quarto, per quanto mi sembra molto incomprensibile la scelta di LaMelo Ball come terzo migliore, ma non è questo l’ambito in cui discutere di questo.

Ha iniziato la sua carriera NBA sottovalutato da tutti, preso con la tredicesima scelta da Denver e scambiato per un pacchetto di noccioline con dentro Tyler Lydon e Trey Lyles. Si è evoluto fino a diventare una stella degna di questo nome, trascinatore di una piccola squadra fino al primo posto a Ovest sopra le ben più ricche Lakers, Clippers e Nuggets.

È un giocatore che ama il basket, ma soprattutto ama la competizione, l’aggressività, la rabbia agonistica che è esattamente ciò che lo porta ad essere il giocatore che è quando la squadra ne ha bisogno. E credo che Artūras Karnišovas e Tim Connelly in quel di Denver si stiano ancora mordendo le mani per il talento perso in quel disgraziato scambio durante la notte del draft.

L’ultimo capitolo credo che debba riguardare la maturità che Mitchell ha dimostrato quando gli è stata rinfacciata da Shaq la frase più insensata e imbarazzante che un opinionista tv potesse dire riguardo a lui. Questo è l’intero scambio di battute:

Shaq: “Sei uno dei miei giocatori preferiti, l’ho già detto, ma non hai ciò che serve per elevare il tuo gioco al livello successivo. L’ho detto apposta perché tu lo potessi sentire, cos’hai da dire a riguardo?”

Mitchell: “Ok, questo è quanto. Ok. Continuo a sentirmelo dire dal mio primo anno nella lega. Lavorerò per diventare un giocatore migliore e continuerò a fare ciò che faccio già ora”.

Credo che una più bella dimostrazione di questa da parte di un giovane giocatore come lui non ci sia. La prontezza di spirito di rispondere ad uno dei grandi di questo gioco, la sicurezza nei propri mezzi e nelle proprie capacità, l’abilità di non accettare le critiche di altri, per quanto grandi, quando si è certi che con il lavoro e il talento di cui si è dotati l’etichetta star è quella più giusta.

Ma più di tutto, l’umiltà, di dire ok, di ammettere apertamente che la strada è ancora lunga e il lavoro ancora tanto. Credo che con una semplice frase abbia dimostrato quanto vale non solo come giocatore ma anche come persona, al contempo mettendo in luce a tutti quanto poco adatti spesso siano gli ex-giocatori a fare gli opinionisti tv, fermi ad un gioco del basket vissuto nel passato e incapace di vedere nel “nuovo gioco” la bellezza, anche se spesso questa viene dal cambiamento.

Tanto onore e tanta ammirazione a Mitchell, un paio di occhiali per Shaq.

Credo comunque che al mondo ci siano due tipologie di uomini: chi ama Mitchell e chi odia il basket. Un giocatore così, con quelle abilità, un uomo così, con quella personalità, non può che essere un esempio per tutti i giovani giocatori. Non ha finito di migliorare, anzi probabilmente non è neanche vicino al giocatore che ha le potenzialità di diventare, ma è ancora giovane.

E lo dico per i vari Shaq in circolazione: Donovan Mitchell è già una stella.

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