I Rockets sono divenuti la più recente esemplificazione nella rappresentazione di una scenetta oramai consueta, ove il management si trova a dover trascorrere lunghe ore al telefono con ogni potenziale partner per imbastire una trade in grado di risolvere un problema oggigiorno fondamentale, relazionato alla rimozione dal roster della superstar scontenta di turno.

Come ben noto, James Harden non ha visto nella programmazione texana a lunga scadenza un panorama in grado di permettergli di lottare ancora per il titolo decidendo di adottare conseguentemente un comportamento che la società di provenienza è oggi sostanzialmente costretta a subire, ricevendo nel contempo un elenco di possibili destinazioni ancor più gradite se appartenenti al novero di superteam in grado di ambire alle Finals.

Il resto è storia, una storia che ha visto Houston virare in maniera contraria rispetto alla precedente strategia attraverso la quale Daryl Morey dispensava scelte a mezza Nba estraendo puntualmente conigli da un cilindro di infinite possibilità salariali, un operato ribaltato dal nuovo general manager Rafael Stone con l’intento di raccogliere il maggior numero di selezioni possibile cominciando a costruire la nuova identità della franchigia.

Come ampiamente prevedibile la squadra sta cercando ancora l’amalgama ideale tentando di capire come poter sviluppare l’attuale nucleo di giocatori a disposizione.

Non erano pochi i dubbi che gravitavano attorno all’orbita dei Razzi già nella fase precedente allo scambio con Nets, Pacers e Cavaliers, d’altro canto la trade giostrata assieme a Washington per togliersi dall’imbarazzo del problema Westbrook – mossa all’epoca effettuata con il solo fine di non scontentare proprio il Barba, ma rivelatasi deleteria per chimica ed economie – aveva portato prospettive tutte da interpretare nei confronti di John Wall, superstar più che degna di tale caratura ma pur sempre inattiva a livello agonistico da due stagioni, e la firma del bizzoso DeMarcus Cousins non faceva che aumentare il numero di potenziali domande sulle relative condizioni fisiche, dato che pure per il talentuoso lungo l’ultimo biennio era stato altrettanto generoso in termini di rieducazione articolare.

Di quale pasta siano fatti i nuovi Rockets è ancora un mistero, e così non potrebbe essere dal momento che non si è ancora raggiunto un giro di boa di solito determinante per trarre le giuste indicazioni di una determinata compagine, per capirne di più occorre senz’altro depennare dal taccuino quelle prime otto partite di polemica presenza hardeniana, terminata in occasione dell’incrocio contro quei Lakers che da bravi campioni uscenti rappresentavano il metro di paragone per le ambizioni di chi rincorre da dietro, sottolineando proprio la profonda inadeguatezza dei Rockets nel partecipare ad una profonda corsa nei playoff.

Il lavoro di comprensione delle potenzialità non è semplice nemmeno oggi, in quanto sia gli infortuni che le gestioni dei vari giocatori recentemente usciti da importanti convalescenze – alla lista va aggiunto Victor Oladipo – sono fattori che hanno permesso di vedere solamente alcuni lampi della squadra che oggi Houston può essere.

La valutazione barcolla quindi tra gruppo nemmeno in grado di pensare di appartenere alla postseason data la propensione a farsi impossessare da blackout più lunghi del necessario, lasciando occasionalmente il posto alla concretezza vista durante la striscia di sei vittorie consecutive ottenuta nella porzione conclusiva del mese di gennaio, quando ogni meccanismo della filosofia di Stephen Silas pareva permettere di cominciare a raccogliere frutti di un raccolto senz’altro buono.

La più recente fila di sconfitte – alcune molto pesanti contro Pelicans e Knicks – pare assegnare il ruolo di ago della cosiddetta bilancia a Christian Wood, un’acquisizione di free agency non certo sfavillante nell’estetica ma solida come una roccia, evidente parte di un solaio sopra al quale edificare delle mura molto solide giustificando l’ottimo tempismo di Stone nell’andare a raccogliere la firma del ragazzo.

Il lungo esploso ai Pistons a seguito della trade di Andre Drummond non solo ha fornito immediate conferme, ma ha mostrato chiari progressi cominciando a scrivere le migliori statistiche della sua girovaga carriera.

Nel giro di poche settimane ci si è trovati dinanzi ad uno dei migliori lunghi offensivi di tutta la lega nonché ad un difensore molto più maturo, in grado di effettuare decisioni più consone facendosi nel contempo sentire di più da compagni a livello vocale.

Prima dell’infortunio alla caviglia – evento dopo il quale per Houston è letteralmente scesa la più fonda delle notti – Wood stava chiaramente giocando da potenziale All-Star producendo 22 punti e 10.2 rimbalzi di media, statistiche figlie della consistenza nel giocare quel pick’n’roll che Silas utilizza per migliorare la qualità della circolazione di palla come pure di una componente atletica e verticale attraverso la quale conclude in schiacciata i numerosi lob che gli vengono recapitati, e di una notevole capacità di mettere palla a terra che gli permette di fronteggiare in singola marcatura avversari più piccoli di lui, nei confronti dei quali non ha nulla di cui temere in termini di agilità.

Se Wood è un finisher determinante nel quadro generale offensivo, è anche vero che spesso tutto inizia dal nuovo John Wall.

L’ex-asso dei Wizards ha investito il lunghissimo tempo trascorso lontano dal parquet per lavorare duramente su alcuni fondamentali, ed i risultati sono sotto gli occhi di chiunque lo guardi in questo preciso momento.

L’essere un tiratore affidabile dal perimetro non è mai stato nelle sue corde, fatto suggellato da tutti i rischi calcolati che le difese hanno sempre preso nei suoi confronti, ma le sessioni in palestra sotto l’attenta direzione di Alex McLean – conosciuto a Washington in qualità di assistente – gli hanno permesso di rivedere completamente le meccaniche di tiro ottenendo quella che ad oggi è la miglior percentuale di carriera da oltre l’arco, 37.3% in 5.6 tentativi medi (altra vetta mai toccata prima) permettendo quei tratti di fluidità offensiva necessaria per la pratica dei concetti di Silas, dove ogni giocatore può ricevere un’opportunità di tiro diversa in situazioni disomogenee.

Il problema è semmai quello di sfruttarle adeguatamente certe occasioni, dal momento che è necessario accantonare l’esplosione da oltre l’arco che ha generato il nuovo record di franchigia per triple in singola gara – 28, contro i  Thunder – concentrandosi maggiormente sul fatto che Houston stia attualmente stazionando al quartultimo posto di lega per percentuale di realizzazione da tre punti, un fattore divenuto pesante in particolar modo quando la squadra ha fornito un approccio troppo lento alla partita, trovando il modo di rimontare alcune circostanze non certo per merito delle soluzioni perimetrali ma grazie ad una difesa notevolmente progredita rispetto alle stagioni scorse, frutto di un quintetto che opera in piena sintonia rispettando gli assegnamenti, accettando cambi o aggredendo in blitz creando tutte quelle opportunità in grado di produrre canestri facili in contropiede.

Il lato difensivo della vicenda è uno degli aspetti più interessanti da osservare, accorgendosi di come Silas abbia trovato nella sua combinazione di guardie un reparto assai efficiente puntando sui progressi mostrati da Oladipo e sulla preesistente consistenza di Wall e Gordon, nonché sulle qualità che hanno portato all’inserimento in quintetto di Jae’Sean Tate nello spot di ala piccola, a dimostrazione dell’immutata abilità dei Rockets di trovare produzione da giocatori sottovalutati nonostante il cambio di timone dirigenziale.

Proprio la menzione di Oladipo porta al maggior numero di quesiti in chiave futura, non tanto per il comprensibile periodo di adattamento ad un sistema offensivo con maggiori opportunità di isolamento ed a compagni di differente attitudine, quanto per la sua possibile permanenza in Texas, strettamente legata a logiche puramente contrattuali.

L’accoppiata con Wall è in fase di solidificazione grazie alla propensione a difendere con reattività e ad attaccare puntando sulla capacità di crearsi le proprie opportunità, ed anche se si litiga un tantino troppo con il canestro quando si tratta di elevarsi dalla distanza – c’è solo il 30% da tre punti – si è colta l’occasione per diventare un passatore migliore proprio grazie ai concetti di questo sistema offensivo, fatto che ha reso Dipo il secondo miglior assistman di Houston con 4.9 dispense vincenti a serata, secondo miglior dato di carriera.

La prossima decisione rilevante di Stone passa proprio da qui, dato che il contratto acquisito dai Pacers scade difatti al termine della presente regular season ed è necessario capire quale strada intraprendere prima del prossimo 25 marzo, ultima data utile per una trade che per molti addetti ai lavori i Rockets sono destinati a portare a termine.

Proprio nel momento in cui il backcourt sta trovando la giusta sintonia bisogna scegliere se portare a casa qualcosa anziché lasciar scadere l’accordo accontentandosi di liberare spazio per la prossima offseason, affrontando un bivio che da un lato costringerebbe a spezzare la chimica creatasi in un gruppo che avrebbe le potenzialità per i play-in e dall’altro potrebbe riproporre quell’organico cresciuto così rapidamente da cominciare a vincere con inattesa continuità, puntando leggermente più in alto. L’unica possibilità da scartarsi a priori è quella del rinnovo, dato che non c’è alcun interesse ad occupare lo spazio salariale futuro con un giocatore prossimo ai trent’anni con quel tipo di cronologia infortunistica, per quanto l’identikit motivazionale di Victor corrisponda perfettamente all’identità di una compagine frettolosamente data per spacciata dopo la partenza della sua iconica superstar.

La lontananza rispetto ad un prodotto finito è ancora significativa, ma Houston sembra aver intrapreso un percorso di ricostruzione ricco di aspetti positivi. Parte del record di inizio stagione, 4-9, era chiaramente viziato dalla tensione creata dalla voglia di evasione immediata manifestata da Harden sin dal training camp, ed è innegabile che dopo lo scambio la squadra abbia assunto sembianze differenti e per certi versi migliore, trasformandosi in un’entità difensiva di grande rilievo grazie alla progredita sintonia di elementi che ora operano all’unisono, nonché in una compagine capace di spingere sull’acceleratore senza più accontentarsi di consegnare il pallone al proprio miglior giocatore e attendere gli sviluppi dei suoi innumerevoli isolamenti, tracciando contemporaneamente la più grande qualità ed il più grande limite della precedente versione dei Rockets.

Passeranno indubbiamente molte altre stagioni prima di poter vedere le risultanze della trade più eclatante del presente campionato attendendo di vedere come verranno investite le scelte accumulate in chiave prospettica, per una situazione la cui attualità parla molto chiaramente vedendo in Wall e soprattutto in Woods i punti di partenza per la rifondazione, che dovrà passare anche attraverso una possibile trade dell’immenso P.J. Tucker, eroe di tanti possessi difensivi nei momenti più decisivi di tante gare di playoff ed altra scadenza in vista, senza poi dimenticare le decisioni che riguardano le sorti Eric Gordon, che per quanto bene stia giocando vista la maggior libertà schematica di cui sta godendo potrebbe far gola a qualche contender desiderosa di aumentare la propria qualità da oltre l’arco aggiungendovi difesa e grande esperienza in postseason, liberando il monte salari da un contratto molto oneroso.

Se può aprire le porte ad un futuro migliore, allora sia benvenuta anche la sofferenza che la franchigia dovrà sopportare tornando ad occupare posizioni medio-basse di lega dopo tanti anni sulla cresta dell’onda. Il ciclo dei Rockets del Barba è finito per sempre, è giunta l’ora di fare largo alle nuove prospettive.

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