Ti ho visto la prima volta lì, quasi per caso, nelle pagine di un libro che parlava di sport, non saprei nemmeno ripetere quale libro fosse.

Avevi quella maglia gialloviola, che per te era come le squame, la tua seconda pelle.
E avevi quel braccio destro scagliato verso l’alto, e un sorriso tirato che stava per esplodere dopo tutta l’adrenalina accumulata.

Sullo sfondo, delle maglie verdi Celtics sconsolate, dopo aver subito la sconfitta in gara 7 delle finali NBA 2010. Ero piccolo, avrò avuto sì e no 10 anni. Non ti conoscevo, non conoscevo il basket.

Dopo solo 9 anni, una briciola che si perde nell’infinito sciabordio del tempo, precisamente il 26 gennaio 2020, ecco che tu davi disgraziatamente inizio ad un anno di tragedie.

Ero seduto a tavola, speravo di alzarmi in fretta per godermi in pace il divertimento del Pro Bowl della NFL. Con la prima delle scuse che mi passa per la testa mi assento, vado in camera mia, e vedo un messaggio di mio fratello: Kobe è morto in un incidente di elicottero, e con lui la figlia tredicenne Gianna. No, non è possibile, ha 41 anni. Sarà uno dei suoi soliti scherzi.

Beh, quella volta non lo era. E allora, senza neanche capire perché, le guance mi si iniziano a rigare di un pianto amaro.

Perché piango per una persona che nove anni prima non sapevo neanche esistesse?
Perché piango per un giocatore che ho solo visto a migliaia di chilometri di distanza tramite lo spietato filtro dei media e dello schermo digitale?

Non lo so, la verità è che non lo so ancora. So solo che una parte di me quel 26 gennaio se n’è andata per sempre, ma non è andata sprecata.

Non voglio ora darmi a ricordi strappalacrime, a insulti rabbiosi quanto inutili a un presunto destino infame che ce lo ha portato via. Non è quello che tu Kobe avresti voluto. Tu avresti preteso sorrisi, avresti preteso una testa bella alta, ritta, in pieno stile Mamba Mentality.

Avrei così tante cose da raccontare di te.

Potrei partire dai tuoi 33.643 punti in carriera, quarto di sempre, in 48.637 minuti giocati (811 ore di pallacanestro, cioè circa 33 giorni completi). Oppure della tua leggendaria partita da 81 punti, seconda solo dietro ai 100 di Chamberlain. O ancora del fatto che a soli 18 anni e qualche giorno hai esordito in NBA, diventando allora il più giovane di sempre a farlo.

E perché non parlare del fatto che sei 5 volte campione NBA, 2 volte MVP delle Finals, 18 volte All-Star, 12 volte all-defensive-team, 15 volte all-american-team, campione della gara delle schiacciate nel tuo anno da rookie, 17 volte giocatore del mese, medaglia d’oro nel 2007 ai Tournament of Americas e alle Olimpiadi del 2008 e 2012, e la lista si potrebbe fare più lunga. E invece per quanto riguarda i 60 punti rifilati a Utah nel giorno del tuo ritiro, a 37 anni?

Ma per oggi non mi va di ripetere le solite cose. I talk show sono pieni di questi numeri, statistiche, cose che appassionano ma che non dicono niente dell’uomo che sei stato.

Allora provo a fare così.

Sei sempre stato un po’ fuori dal mondo, a partire dal fatto che il tuo nome deriva dalla pregiatissima carne di manzo Kobe giapponese, che tuo padre Joe stava mangiando in un locale quando mamma Pam era in dolce attesa.

A 11 anni, quando eri a Reggio Emilia seguendo la carriera sportiva di tuo padre, ti infortunasti lievemente ad un ginocchio in allenamento e scoppiasti a piangere. I tuoi compagni di squadra provarono a consolarti, e ti chiesero come mai tu piangessi tanto. La tua risposta fu secca e breve: “così rischio di non giocare in NBA”. Le risate furono la prima reazione dei ragazzini, ma chissà se avevano ancora quel sorriso strafottente sulle labbra quando 7 anni dopo tu in NBA ci sei andato per davvero…

Hai sempre avuto questo talento: dimostrare che gli altri si sbagliavano sul tuo conto. Sul tuo talento, sul tuo ritorno a massimi livelli dopo la rottura del tendine di Achille, sulla tua leadership e il tuo presunto egoismo. Avevi solo in testa una parola chiave: vittoria. E sudavi sangue per raggiungerla, e pretendevi che tutti i tuoi compagni facessero come te.

C’è poco da raccontare qui riguardo alle tue leggendarie sessioni di palestra alle 5 di mattina, quando la sera prima avevi finito di tirare all’una, riguardo alle tue pedalate notturne ai ritiri del Team USA nel deserto del Nevada, e perfino riguardo alle tue famose prove senza palla di meccanica di tiro e movimenti di gioco che lasciavano ogni volta Shaquille O’Neal esterrefatto.

Avevi una mentalità differente, da black mamba appunto, una sicurezza nei tuoi mezzi, una decisione che mai nessuno ha avuto e mai nessuno avrà. Eri posseduto da una maniacale e ossessiva ricerca della perfezione. L’immagine di questo rimarrà la tua intervista nelle Finals 2009, quando, sopra 2-0 contro Orlando, alla domanda dell’intervistatore sul perché tu non stessi sorridendo, rispondesti con fare quasi scocciato: “Cosa c’è di cui essere felici? Il lavoro non è finito (Job’s not finished). Tu credi che il lavoro sia finito? Io non credo proprio”.

Ma non eri solo un giocatore, un fenomeno, tu eri prima di tutto un uomo, un marito e un padre.

Un marito, come quella volta che nel 2003 tu fosti accusato di violenza sessuale su una impiegata di un hotel. Dopo le prime incertezze, ti sei preso le tue responsabilità, ammettendo pubblicamente il tuo errore, chiedendo umilmente scusa alla ragazza, e a tua moglie Vanessa dicendo: “Siedo davanti a voi, e mi sento furioso con me stesso e disgustato da me stesso per aver commesso l’errore dell’adulterio. Amo mia moglie con tutto il cuore. Lei è la mia spina dorsale”.

Avevi commesso un grave errore, ma non hai mai provato a scappare da quello. E con te tua moglie Vanessa, che se non è una moglie modello poco ci manca. Forse sono troppo di parte, ma quelle quattro italianissime parole (“ti amo per sempre”) con cui ogni volta ti rivolgevi a tua moglie, e quella presa di responsabilità davanti a un enorme sbaglio saranno sempre simbolo di ciò che per me sei: un Uomo con la maiuscola, un uomo vero.

E un padre, come in quelle migliaia di sedute sul parquet con tua figlia Gianna, che era destinata a diventare un fenomeno come il papà. Come in quei miliardi di momenti che niente, eccetto il tuo cuore e il cuore dei tuoi familiari, può ricordare.

Per non parlare di quel tuo ultimo discorso, dentro uno Staples Center che strabordava per salutarti un’ultima volta alla cerimonia del ritiro delle tue maglie, in cui ti rivolgesti alle tue quattro figlie dicendo: “Sapete già che se lavorate abbastanza duramente, i sogni diventano realtà. Voi lo sapete, lo sappiamo tutti. Ma spero che voi da stasera riusciate a capire che quelle volte in cui ti alzi presto e lavori sodo, quelle volte in cui stai sveglio fino a tardi e lavori duramente, quelle volte in cui non te la senti di lavorare, sei troppo stanco, ma tuttavia lavori comunque, ecco questo è in realtà il sogno. Questo è il sogno: non è la destinazione, ma il viaggio. Se voi ragazze riuscite a capire questo, allora quello che vedrete accadere è che voi non raggiungerete né esaudirete i vostri sogni, ma avverrà qualcosa di ancora più grande. E se voi riuscite a capire questo, allora sto facendo abbastanza bene il mio lavoro di padre”.

Quindi, caro Kobe, grazie, perché mi hai insegnato cosa significa essere uomo, perché mi hai mostrato una strada per raggiungere i miei obiettivi che non prevedesse scuse né scorciatoie, mi hai insegnato a faticare apprezzando il gusto salato del sudore e ad amare la fatica fatta per compiere i miei sogni. Mi hai insegnato a cercare la mia perfezione, costi quel che costi, e a pretenderla anche dagli altri (anche se sicuramente meno rigidamente di quanto il Mamba potesse fare con i suoi compagni).

Il grande Giacomo Leopardi sosteneva che l’uomo sia fatto per tendere all’infinito, ma che non potrà mai raggiungerlo, e proprio per questo si sente vuoto, incompleto, inadatto. Ecco, mi piace pensare a quegli ultimi istanti di Kobe, poco prima dello schianto. In quei secondi, in quei suoi ultimi respiri, quando ormai aveva capito che lì sarebbero scorsi i titoli di coda. Sono sicuro che Kobe abbia voltato solo le pupille come tante volte aveva fatto per guardare con la coda dell’occhio i numeri di led arancione e rosso sopra il tabellone andare verso lo zero.

E quegli occhi non si sono riempiti di ansia per quello zero, anche se era lo zero assoluto – in fondo lui non aveva mai sentito quella pressione nei clutch moments. Con quello sguardo, invece, lui si è fatto catturare per un’ultima volta dagli occhi di sua figlia Gianna. E forse, chissà, ha fatto in tempo ad alzare il braccio destro, come in quella gara 7 delle Finals 2010. E lo ha slanciato verso il cielo, cercando di prendere quel mondo che tanto aveva morbosamente desiderato possedere e che solo in quel momento si era accorto di avere sempre avuto a portata di braccio, in una sua forma più piccola, arancione e a spicchi.

Se n’è andato, ma non per sempre. E con lui se n’è andata la leggerezza di quel pallone, che ora più che mai è un macigno.

Se n’è andato Kobe, se n’è andato un fenomeno, una leggenda. Se n’è andato un padre, un marito, un uomo. Un uomo come noi, ma uomo più di noi.

L’uomo che ha toccato quel cielo, vedendo come ultima cosa gli occhi della sua bambina e le ha sorriso, esattamente come tutti lo hanno sempre conosciuto. L’uomo che ha preso a cuore la sfida umana all’infinito, ed è andato più vicino di chiunque altro a conquistarlo. A volte, caro Leopardi, sbagli anche tu.

Heroes come and go, but Legends are forever.

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