“The last dance” è una lunga ri-narrazione a ritroso nella vita di una delle più grandi icone dello sport globale, Michael Jordan. Dal college in North Carolina alla NBA all’eternità, probabilmente.

Nelle prime puntate Jordan parla di alcune situazioni viste ad inizio carriera: “Al mio arrivo ai Chicago Bulls era un gran casino: giravano donne e droga. Io ero un rookie, ma i veterani della squadra facevano cose che non avevo mai visto”.

Michael Jordan, North Carolina Tar Heel, scelto #3 al NBA Draft 1984, colui che dominò con la sua presenza l’epoca tra gli anni ‘80 e gli anni ‘90. Tanti hanno provato a rubargli quello scettro, tanti furono considerati il suo “anti-” all’arrivo in NBA.

La mattina del 19 giugno del 1986, due giorni dopo l’NBA Draft 1986, Len Bias morì, generando una sorta di spartiacque tra il prima ed il dopo. Nel mezzo una ferita che sembra non chiudersi mai, un dolore non sembra mai attenuarsi, un pozzo senza fondo che continua a vomitare domande come “E se non fosse successo?”.

Maryland, i Celtics che lo avevano scelto #2, la NBA, il basket stesso, l’America. Quanti “se” raccoglie una scomparsa che segna il suo tempo e, di riflesso anche tutti i tempi successivi.

La sua eredità si è riflessa in mille direzioni, anche in modi che nessuno avrebbe potuto prevedere allora e di cui parleremo. E’ incalcolabile il numero di atleti nati dopo la sua morte che lo hanno ammirato o ne hanno tentato di imitare le gesta.

Come ha detto sua madre, Lonise Bias nel 2018 in una tavola rotonda nel campus di Maryland, “Siamo così onorati e sbalorditi di come, 33 anni dopo, la gente stia ancora parlando di Len Bias”.

Come non farlo, non solo per quella seconda scelta spesa per lui da Boston, ma per il due volte ACC Player of The Year, per l’iconica palla rubata come una freccia nel tempio di North Carolina, il Dean Dome, che Maryland nel marzo 1986 aveva violato per la prima volta nella sua storia.

Bias sarebbe stato migliore di Michael Jordan, con cui aveva incrociato la strada per due anni nell’ACC?
Cosa poteva ornare la dinastia dei Celtics se lui a Boston avesse potuto giocare?
Quanto, in effetti, è stata alterata la storia della NBA e del basket dal vuoto lasciato da Bias?

Di ritorno da Boston, dove aveva firmato con i Celtics, e soprattutto con la Reebok, Bias aveva festeggiato con gli amici e i compagni di college alla Maryland University. Brian Tribble, Terry Long, giocatore di football americano, e David Gregg gli avevano organizzato una festa con mille invitati anticipata da una festa privata nella stanza da cui non sarebbe uscito più cosciente: un’overdose di cocaina gli causò un’aritmia e successivamente un arresto cardiaco.

Bias fu una vittima, forse negli States “La vittima” di quegli anni ’80 in cui tante cose erano cambiate riguardo gli stupefacenti.

Era iniziata l’era di Ronald Reagan alla Casa Bianca (spettacolare, con la liberazione degli ostaggi a Teheran), segnata da un ambiguo uso dei servizi segreti nello scacchiere mediorientale e centro-sudamericano che per giornalisti come Gary Webb, ed in parte anche per la commissione d’inchiesta Kerry, avevano pesantemente agevolato l’invasione della cocaina, e poi di un prodotto raffinato della cocaina, il crack, quest’ultimo nei sobborghi poveri d’America.

Il crack si configurò come una vera pestilenza per i suoi effetti immediati ed a lungo termine, provocando tutta una serie di effetti collaterali nelle comunità di colore, legate alla criminalità.

La morte di Bias spinse l’adozione di quello che venne chiamato Anti Drugs Abuse Act (ADAA) come punta di diamante della war on drugs di Reagan. In quella che a volte viene citata in maniera semplicistica come la “Legge Len Bias”, le pene per consumo di crack erano cento volte più alte di quelle per consumo di cocaina: tra la metà degli anni ’80 e la metà degli anni ’90 la popolazione carceraria americana duplicò, un nero tra i 20 e i 40 anni su 10 era in carcere nel 2000.

Sono innumerevoli le segnalazioni ed i report (Human Rights Watch 2000, World Report 2018) che confermano l’estrema disparità razziale nella composizione carceraria americana. La guerra alla droga è stata un clamoroso caso di quello che viene chiamato confirmation bias, il pregiudizio di conferma.

Curioso che nel diritto americano, vi sia un concetto chiamato “impatto negativo” (adverse impact), per cui, in sostanza, se alcune regole nominalmente neutre hanno un impatto negativo ingiustificato su un particolare gruppo etnico o sociale, possono essere contestate come discriminatorie.

Nel caso di Bias è ancora più tragica l’idea che sia stata la morte di un ragazzo di colore che aveva appena sfiorato con un dito il paradiso, a determinare la schiusa dell’inferno per centinaia di migliaia di “fratelli”.

L’ADAA, ma anche la militarizzazione della polizia senza una contestuale preparazione specifica, o l’uso disinvolto ed aggressivo dei mass media d’informazione, sono stati fattori che hanno aumentato le disparità di trattamento tra la maggioranza e le minoranze, vuoi per il retroterra culturale degli USA o perché l’ADAA stesso sia uno strumento che ottiene un effetto esattamente opposto al suo intento.

Questi “non cambiamenti” degli anni ’80 arrivano come effetto di una onda lunga a ripercuotersi nella socialità di oggi e nella percezione delle disparità tra minoranze, come a dire che per la comunità afroamericana “the cruelest thing ever” non fu la morte del campione, ma la conseguenza pratica dell’uso politico che se ne fece.

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