Una lunga cerimonia prepartita, il silenzio, i volti, le immagini, la sua voce, le parole di LeBron e la strana sensazione nel realizzare che tra tutte quelle leggende, tra tutte quelle maglie issate sul soffito dello Staples, il più giovane ad averci lasciato, ad aver raggiunto Chamberlain sia lui.

Ciò che abbiamo visto nella notte ha rappresentato il culmine di una gigantesca, collettiva elaborazione del lutto che ha come trasportato milioni di persone da Sydney ad Hong Kong, tutti insieme nella Città degli Angeli.

E non poteva essere altrimenti, perché sono in tanti, tantissimi a poter esprimere senza retorica alcuna il peso che Kobe Bryant ha avuto nella loro vita, per un motivo o per l’altro.

È stato un marito, un padre, un compagno di squadra, una fonte di frustrazione, un incubo, un mito da imitare al campetto, un modello da seguire nel corso della propria carriera, un rivale da fischiare e temere o semplicemente un uomo, un artista da ammirare e, per il sottoscritto, una figura così importante da farmi pensare, egoisticamente, che sarei stato sollevato qualora su quell’elicottero fosse stata sacrificata un’altra vita in luogo della sua.

Per me, come per tutti coloro che hanno iniziato a seguire il basket nei ‘00s, Kobe è stato Michael Jordan, il migliore, una presenza quotidiana anche solo per qualche minuto di highlights in TV, una presenza così forte da diventare il termine di paragone per ciò che dovrebbe essere un giocatore di pallacanestro e prima ancora un uomo vero.

Posso persino attribuirgli la “colpa” del mio tic di alitare dentro ai pugni, deformazione mentale da baskettaro che ha passato tante ore e tante notti sveglio – mai troppe – tirando le cinque fresco come una rosa, senza neppure uno sbadiglio. Ci mancherebbe altro.

Il suo fadeaway, con la gialloviola che sventola e la gamba destra che scalcia l’aria è un’immagine con cui faccio i conti da anni e che da domenica continua a passarmi davanti. L’abbiamo vista tutti, chissà quante volte, una delle cose più belle mai mostrate su un parquet, che tornava puntualmente in mente nel tirare una cartaccia nel cestino in jumper o magari durante una di quelle inutili partite di regular season che somigliano più ad un three-point shootout prolungato che ad una partita di pallacanestro. Come del resto sono fissi e indimenticabili lo sguardo truce e determinato, la maglia in bocca, i denti digrignati dopo un and-1.

Mi viene naturale ricordare la confusione negli anni in cui Kobe&Shaq era diventato Kobe vs Shaq, lo sensazione delle prime partite con la 24 sulle spalle, la fatica ad immaginarlo con la maglia dei Pistons o dei Bulls negli anni in cui è andato molto vicino a lasciare L.A.

Kobe mi ha coinvolto, come altre grandi superstar, come Allen Iverson o Tom Brady, ma a modo suo. Ha rappresentato ciò che più mi eccita e mi colpisce dello sport, il concetto di dominio, ovverosia di controllo assoluto di sé stesso, degli altri, del momento. L’impressione che ciò che stavo guardando non fosse altro che il suo film di cui aveva già letto la sceneggiatura lunga decenni.

In fondo il ragazzino che neanche il tempo di entrare per la prima volta in palestra sfidava sfacciatamente Eddie Jones o Nick Van Exel, che al suo primo All Star Game godeva della narrativa che lo contrapponeva a MJ e senza troppi scrupoli faceva andare in bestia Karl Malone, non era né arrogante, né sfrontato.

Semplicemente lui il copione lo conosceva già, forse persino dai tempi della Lower Marion High School a Philly, quando aveva già stilato la “kill list” dei migliori prospetti liceali della nazione che avrebbe, e così e stato, spuntato un nome dopo l’altro.

Nella lunga storia di Kobe gli avversari non erano altro che comparse. Sfido chiunque a dire di non aver “sentito” per un secondo la frustrazione dei Ronnie Brewer, degli Shane Battier, dei Dahntay Jones, dei Bruce Bowen, che facevano la cosa giusta, che gli mettevano inutilmente la mano in faccia ogni azione e finivano per chiedersi come fosse possibile, cos’altro avrebbero dovuto fare. Nulla. Era tutto scritto. Da lui.

Kobe ha fatto in modo che attendessi trepidante la scena successiva per poi mostrarla ancora più bella di quanto potessi immaginare. Prima di ogni partita contro quel George Karl che lo aveva tenuto a scaldare la panchina negli ultimi 12 del suo primo All-Star Game o contro Dallas, dove era assistente allenatore Del Harris, il coach che nei suoi primi anni ai Lakers esitava a dargli ciò che lui sentiva di meritare, sapevo avrebbe tirato fuori qualcosa di speciale – perché Kobe, tra le tante cose aveva in comune con Jordan, non dimenticava mai – ma alla fine era sempre qualcosa di più sorprendente.

Ogni partita di playoffs, ogni big moment, andava oltre l’immaginazione. I tempi scenici con cui metteva in atto la sua storia erano impeccabili: gli ultimi quarti da sogno, la miriade di big shot e game winners lungo vent’anni di carriera, fino all’ultimo atto, i 60 allo Staples contro i Jazz, un’uscita di scena memorabile, troppo bella per non essere scritta.

Ma non era solo questo. C’era qualcosa che andava oltre le schiacciate e i jump shot. C’era la sua personalità unica, da my-way guy autentico. Il suo modo di stare al mondo, di concepire la vita e il basket – ammesso che per lui vi fossero dei confini tra le due cose – e la costanza con cui le affrontava a modo suo.

Tex Winter sosteneva che comprendesse il gioco persino meglio di come lo giocasse, alludendo al fatto che a volte pur sapendo quale sarebbe stata la cosa giusta preferiva fare a modo suo. Per un purista qual era lo storico assistente di Jackson ogni forzatura, ogni nota stonata nella partitura della Triangle Offense era come una coltellata.

Per me, invece, aveva ragione, sempre, anche quando forse aveva torto. Mai pensato tirasse troppo. Nulla era troppo per lui. Mai pensato dovesse passarla di più, tanto più negli anni in cui guardava alla sua destra e vedeva Kwame Brown, guardava alla sua sinistra e incontrava gli occhi di Smush.

Anche se sbagliava alla fine aveva ragione lui, lui che capiva il gioco molto meglio del giocatore medio NBA, che passava le giornate tra palestra e sala video, che non accettava di avere a fianco uomini incapaci di remare nella direzione giusta e che lo faceva capire in modo cristallino, trasparente, attraverso uno sguardo via monitor.

Era naturale ammirare una persona così dura e ferma sui propri principi tanto da tenere lontani per anni i propri genitori, capace di sopportare e trarre motivazione dall’accoglienza non proprio calorosa che gli veniva riservata a casa sua, a Philadelphia o dalle raffiche mediatiche degli anni più complicati.

Non avrei certamente potuto, in nessun modo, evitare di essere calamitato dall’uomo in missione che ignorava il parterre hollywoodiano a bordo campo, che sacrificava le relazioni al proprio scopo e non perdeva tempo a coltivare la sua immagine rendendosi più simpatico, perché l’unica immagine che perseguiva era quella del campione, del dominatore, del numero uno.

In ogni intervista o dichiarazione post-partita, a prescindere dal suo stato d’animo, c’era qualcosa da mettere da parte. Si riusciva a comprendere qualcosa in più leggendo tra le righe, afferrando il significato di ogni punzecchiatura esplicita o sottile ad un compagno, di ogni risposta a coach Jackson all’interno del surreale meraviglioso dialogo indiretto tra i due.

Kobe ha significato così tanto da farmi sentire irritato negli ultimi anni nei quali chi aveva intorno non gli ha permesso di poter competere seriamente per mettere al dito il sesto anello che gli avrebbe permesso di sedersi al tavolo con Jordan con lo stesso stack davanti. Irritato come se si trattasse di una questione personale e in parte lo era. Come se in un certo senso con lui, mai visto, mai conosciuto, a diverse migliaia di km di distanza, condividessi qualcosa, l’amore per il basket.

Da quando ha capito di avere la chance di diventare chi poi è diventato, Kobe ha santificato il suo dono, sin da ragazzino, lavorando con un’intensità e un focus oltre l’immaginabile, su ogni dettaglio per essere pronto a tutto, in ogni situazione, su ogni parquet, contro ogni avversario.

Probabilmente non è mai nato un uomo così rispettoso della pallacanestro tanto quanto lui, il ragazzino che aveva persino timore di palleggiare per non rovinare la sua prima palla a spicchi, l’uomo e il giocatore che non ha mai permesso che un infortunio lo ostacolasse nell’onorare il gioco, che non faceva infrazione passi anche se avrebbero chiuso un occhio e che ci dava dentro persino all’All-Star Game perché ne rispettava la sacralità e non avrebbe mai svilito ciò che amava.

Sapere che esisteva al mondo un uomo mosso da tanta passione era straordinario e regalava un significato ulteriore a tutto il resto, da un tiro in sospensione in giardino a una nottata insonne.

La scorsa domenica però il film si è interrotto molto prima del finale. Perché in fondo tutti noi non possiamo sfuggire al Copione con la C maiuscola, quello scritto per tutti da qualcuno più in alto di noi, persino più in alto di uno come Kobe.

E per quanto possa essere inconcepibile che un eroe, sovrumano, possa andarsene a 41 anni, in quel modo, insieme a sua figlia, interrogarsi serve a poco. Tutto ha una ragione e un significato. La sua morte ma soprattutto la sua vita.

Quello che continua a passarmi davanti agli occhi, i fadeaway, lo sguardo, la figura imponente tra una pioggia di “confetti”, a braccia aperte, spalding stretto nella sinistra mentre celebra l’ultimo titolo, “The Sweetest”, davanti ai suoi fan, mi dice che per me tutto ciò, un senso lo ha avuto per davvero e quanto mi sarebbe piaciuto potergli dire soltanto “Grazie Kobe”.

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