Vent’anni fa poco più, i New York Knicks erano reduci delle Finals contro i San Antonio Spurs nella asterisk season 1999, che seppur perse rappresentavano un ulteriore elemento di continuità per una squadra che da anni era una stabile contender nella National Basketball Association.

I Knicks avevano infatti raggiunto i Playoffs per la dodicesima stagione consecutiva e con Van Gundy in panchina, Sprewell, Houston e Camby sul parquet sembravano avere il perfetto controllo della transizione rispetto all’era Ewing che si apprestava ormai a volgere al tramonto.

Insomma a New York si poteva guardare al futuro con ottimismo e ambire a colmare l’enorme vuoto lasciato da Jordan ad Est. Sarebbe stato da folli immaginare che nel nuovo millennio avrebbero raggiunto la postseason appena cinque volte, cambiato undici allenatori (esclusi i caretakers) e sei GMs.

Nella storia della NBA non mancano esempi di franchigie funestate da un destino avverso o vittime delle circostante. Non è questo il caso.
Tutte le sventure dei New York Knickerbockers derivano semplicemente da una lunga serie di cattive scelte, dall’incapacità cronica – per citare il loro fan numero uno – di fare la cosa giusta.

Proprio nel periodo attorno alle Finals del 1999, James Dolan, che negli anni si sarebbe distinto come uno degli owners più presenti e incisivi negli affari sportivi della propria squadra, comincia a seguire molto più da vicino su base quotidiana le vicende della franchigia.

Figlio del pioniere delle telecomunicazioni Charles Dolan, non sembrava destinato ad una carriera aziendale.  A sedici anni, dopo la morte di uno dei suoi idoli, il chitarrista Duane Allman degli Allman Brothers, decide di voler diventare un musicista.

Nonostante a tutt’oggi sia il leader dei “JD&The Straight Shot”, band messa su una quindicina di anni fa raggruppando una serie di turnisti con un discreto kilometraggio all’interno della scena rock e country americana, non è mai riuscito a sfondare nella musica ma allo stesso tempo è diventato una delle figure più discusse, ritratte e polarizzanti dello sport.

Dopo qualche anno di esperienza nel business di famiglia, nel 1995 diventa amministratore delegato di Cablevision, la holding tra le cui controllate vi era Madison Square Garden Company proprietaria dei New York Knicks, dei New York Rangers e del Madison Square Garden.

Un passaggio del genere non era propriamente ovvio, in quanto solo due anni prima era stato spedito in un centro del Minnesota per stroncare le dipendenze che, per sua ammissione, lo stavano portando alla morte. Il babbo ha in seguito rivelato di averlo scelto anche perché gli altri cinque rampolli non avevano il benché minimo interesse per quel ruolo.

Il momento del definitivo coinvolgimento nell’attività dei Knicks, come detto, si può datare al 1999 ma il vero salto di qualità avviene due anni dopo quando Dave Checketts, già presidente dei Knickerbockers ad inizio ’90, si dimette da CEO della MSG Company.

Nello stesso anno avvengono altri due eventi chiave per spiegare a posteriori il declino della franchigia: il famigerato contratto da 100 milioni per sei anni concesso dal GM Scott Layden alla stella Allan Houston e le improvvise dimissioni di Jeff Van Gundy.

Dopo l’addio del coach, Layden affida il team all’assistente di lungo corso Don Chaney, confermato poi a fine stagione nonostante le sole 20 W su 63 partite e la conseguente fine di una post-season streak di quattordici anni.

Nelle stagioni seguenti le cose peggiorano notevolemente e i cori “Fire Layden” diventano una costante al Garden fino a quando il GM viene licenziato ma non prima di un’altra pessima decisione, ossia la trade con cui, sacrificando il miglior rimbalzista della squadra Marcus Camby (che lascerà New York sputando veleno contro lo staff medico reo di aver gestito male il suo infortunio all’anca) viene acquisito Antonio McDyess. Risultato: il lungo, già passato sotto i ferri ai tempi di Denver, finirà per spendere decisamente molto più tempo in infermeria che in campo sempre per via dei problemi al ginocchio, giocando appena 18 partite in due stagioni.

Finita l’era Layden, Jim Dolan qualche giorno prima del Natale 2003 opta per nominare Presidente delle Basketball Operations Isiah Thomas, che oltre ad essere stato un favoloso playmaker a Indiana prima e ai Pistons poi, è indubbiamente un uomo controverso e, nel bene e nel male, affascinante almeno quanto lui.

Tra i due si stabilirà una delle relazioni più incredibili dello sport moderno anche se c’è da dubitare sul fatto che qualche tifoso Knickerbocker possa avere qualcosa di buono da dire a riguardo.

Zeke dopo il ritiro si era dedicato con successo alla sua nuova carriera di businessman, in particolare nel real estate, ma uno come lui non poteva rimanere lontano dal parquet per molto tempo. Dopo qualche anno da dirigente per i neonati Raptors si lancia nell’avventura della CBA terminata con la bancarotta della lega nonostante alcune sue intuizioni interessanti. Dopodiché diventa Head Coach dei Pacers facendo però decisamente peggio sia del suo predecessore Larry Bird che di Rick Carlisle che ne avrebbe preso il posto.

Thomas si presenta a New York come l’uomo in grado di riportare la squadra al top. Promette che il Garden tornerà a bruciare di entusiasmo e lancia un aggressivo programma di rebuilding. Porta in panchina Lenny Wilkens al posto di Chaney e lavora al fine di rinnovare il roster a partire dall’acquisizione via trade di Stephon Marbury.

Di certo non mancava un terreno comune tra Starbury e il suo coach, entrambi newyorkesi purosangue, cresciuti sull’asfalto dei playground cittadini e tifosi dei Knicks sin da piccoli.

Nonostante ciò il loro rapporto sarà caratterizzato da una serie di up-and-down e andrà ancora peggio con un altro figlio della Grande Mela, per l’esattezza di Brooklyn, ossia Larry Brown, ingaggiato da Thomas nell’estate del 2005, la stessa segnata dall’impresa di mettere a segno nel giro di poche settimane due colpi destinati a passare alla storia, ovvero la trade per Eddy Curry (con contestuale estensione per un totale di 60 milioni in sei anni) e la firma di “Sexy James” al secolo Jerome. E qui nessun ulteriore commento è necessario.

Coach Brown, dopo aver portato i Pistons al titolo e averli piantati, as usual , in cerca di nuovi stimoli, sognava di essere l’uomo che avrebbe guidato la rinascita della franchigia.

In realtà la sua unica annata da HC di New York verrà ricordata soprattutto per gli scontri con Marbury – mai celati da nessuna delle due parti in causa – e i problemi con gli altri membri di un roster in tutta onestà complesso da gestire.

Con la squadra e il coach mai sulla stessa pagina, i Knicks chiudono il 2006 con il primo monte salari della lega (oltre 70 milioni al di sopra del cap) ma con il penultimo record assoluto, 23 W a fronte di 59 sconfitte.

I limiti manageriali di Thomas erano ormai manifesti. In poco più di due anni al comando era riuscito a firmare alcuni tra i peggiori contratti ogni epoca arrivando a zavorrare il cap di anno in anno senza alcuna corrispondenza positiva in termini di risultati.

In questa situazione, col GM bersagliato da giornalisti e fanbase, Dolan decide che è necessario assicurare un po’ di stabilità alla gestione tecnica della squadra. Thomas ha licenziato tre allenatori in tre stagioni per cui la scelta di JD è…. permettergli di assumere sé stesso.

Manterrà il doppio ruolo per due stagioni, entrambe tragiche, fino a quando non viene assunto Donnie Walsh. Dolan prova persino a convincere il nuovo GM a mantenere Isiah in panchina ma alla fine IT e i Knicks si separano e da Phoenix arriva, fresco dell’ennesima randellata subita per mano degli Spurs, Mike D’Antoni.

Se l’epoca Thomas aveva fatto sprofondare la franchigia nel ridicolo ciò che è successo nel decennio successivo, per certi versi è persino peggiore.

Dopo due anni di transizione in cui Walsh lavora per rendere più sostenibile la situazione salariale della squadra, arrivano a New York Carmelo Anthony e Amar’e Stoudemire affiancati nel tempo da una serie di veterani abbondantemente washed-up come Baron Davis, Bibby, Kidd e Kenyon Martin. Anno dopo anno la stagione si apre tra i proclami di un nuovo rinascimento con la squadra, costruita con criteri per così dire da Fantasy Basketball, pompata da quella stessa stampa newyorkese pronta un momento a suonare la marcia funebre.

Melo si conferma un realizzatore micidiale ma non un franchise player di un team da titolo, la schiena e le ginocchia ridimensionano pesantemente Stadt, i risultati non arrivano e  Walsh abbandona senza che Dolan faccia molto per trattenerlo (probabilmente consigliato da Isiah Thomas che continuava e continua  ad avere un forte ascendente su di lui e a cui Stern aveva sostanzialmente impedito di essere riassunto in veste di consulente).

Arriva Woodson per D’Antoni ma la bottom line dice che in sei anni i Knicks riescono a passare un solo turno di Playoffs e probabilmente, il che è tutto dire, il punto più alto di quella fase storica è la Linsanity.

La successiva epoca marchiata da Phil Jackson, nominato Presidente nel marzo del 2014, trascina i due volte campioni NBA ulteriormente verso il fondo.

L’undici volte campione NBA, interpreta la sua funzione in maniera per così dire disinvolta ridimensionando il GM Mills e invadendo di prepotenza il lato più strettamente tecnico della gestione della squadra con Fisher prima e Hornacek poi, costretti a basare l’attacco sulla Triple Post Offense anche se gli uomini a disposizione non sono particolarmente adatti né bendisposti a giocare in quel sistema. Ciò che ne è conseguito è l’ovvio ennesimo disastro.

Ma non è finita. Dal momento in cui Jackson e i Knicks hanno preso strade separate, l’obiettivo del front office diventa quello di condurre attraverso il nuovo coach David Fizdale una transizione volta a sviluppare i giovani a roster guardando con fiducia ad una free agency, quella scorsa, ricca di elementi di altissimo profilo. E qui anche i più smemorati ricorderanno com’è andata.

Con una serie di operazioni mirate Mills e Perry avevano preparato il terreno creando uno spazio di 74 milioni nel monte ingaggi per l’arrivo di almeno un grande nome, con lo stesso Jim Dolan che qualche settimana prima della fine della stagione passata aveva dichiarato ai microfoni di Michael Kay di ESPN (uno dei rarissimi giornalisti a cui è disposto a parlare) che c’era da aspettarsi una offseason di grande successo.

La realtà ha presto presentato il conto e con Kawhi, Durant, Butler, Irving e Kemba Walker sistematisi altrove il massimo che i Knicks sono riusciti ad ottenere è stato Julius Randle.

Quella che secondo il proprietario era la squadra  dove tutti i grandi campioni vogliono giocare e la Mecca del basket era diventata la Chernobyl del gioco, un luogo da cui tenersi a distanza, un contesto talmente disfunzionale da repellere tutti i migliori talenti del gioco.

Chiunque segua la NBA ha dunque preso definitivamente atto del fatto che la franchigia più valuable al mondo e il primo big market della lega (Lakers permettendo) non è più capace di attrarre campioni che qualche anno fa avrebbero fatto carte false pur di essere il volto della pallacanestro newyorkese con tutto ciò che ne consegue.

Non è neppure necessario spendere troppe parole riguardo al pessimo inizio di stagione e al licenziamento di Fizdale. Il punto è che ad oggi siamo di fronte ad una squadra spinta in fondo all’abisso da un ventennio di decisioni sbagliate, contemporaneamente ultima per ciò che concerne il record nel nuovo millennio e prima per luxury tax versata.

In questi anni a New York hanno fallito tutti: D’Antoni, Wilkens, Thomas, Phil Jackson, Woodson, Fisher. Progetti inappropriati, personalità inadeguate, errori di gestione, costante disfunzionalità nelle dinamiche di governance.

È molto probabile che un qualunque supporter direbbe che non c’è possibilità di invertire la rotta con l’odiato Dolan al vertice. È abbastanza semplice puntare il dito sul riccioluto proprietario seduto a bordo campo a braccia conserte e nutrire il flusso di rancore e frustrazione nei suoi confronti.

D’altronde JD è l’uomo costantemente ossessionato dall’allontanare ogni commento negativo nei suoi confronti e verso il modo in cui dirige la franchigia e che a tale scopo ha implementato una politica di controllo quasi sovietico su ogni tipo di interazione tra i suoi dipendenti e i media, è uso bannare dal Garden giornalisti e tifosi, è arrivato a maltrattare Charles Oakley o perdere del tempo per rispondere ad una mail ingiuriosa di un anziano tifoso da lui definito “un ubriacone”, senza dimenticare le voci per cui più volte negli anni si sarebbe esibito alla chitarra sull’aereo della squadra magari dopo una sconfitta, gli sfoghi in pubblico ad ogni torto percepito o il fatto di aver coperto le spalle sempre e comunque ad Isiah Thomas, ecc.

Allo stesso tempo sarebbe ingiusto far sì che tutto ciò sovrasti l’evidenza che è un provato businessman che nella sua carriera ha avuto grandi intuizioni nell’ambito degli affari di MSG Company, particolarmente attivo nel no profit, attento ai problemi dei suoi dipendenti, benvoluto dalla maggior parte dei giocatori passati da New York e spesso e disposto ad aiutarli attivamente.

Ogni uomo ha più sfaccettature e Dolan non fa eccezione. Se parliamo di pallacanestro spesso ha mostrato quella peggiore  ma continuare a biasimarlo per i suoi errori e sperare che arrivi qualchedun’ altro a rilevare la proprietà non serve a nulla.

Sono le professionalità all’interno di una franchigia a far sì che possa nascere una cultura capace di stimolare un processo positivo e in tal senso, presumibilmente  non ci saranno grossi cambiamenti da qui a fine stagione. I

l coach ad interim Mike Miller dovrebbe arrivare fino ad Aprile mentre da qualche settimana è stato dato l’annuncio dell’assunzione quale consulente di David Blatt. Le due scelte fondamentali per il futuro, ossia il prossimo GM e il prossimo allenatore, saranno in linea di massima rinviate a fine stagione.

A tal proposito la stima di Dolan per Masai Ujiri è risaputa e certamente a New York faranno un tentativo per ingaggiare la mente dietro ai successi dei Raptors.

Ancora più interessanti i nomi riportati dagli addetti ai lavori per quanto riguarda la panchina: Jeff Van Gundy, Tom Thibodeau e Mark Jackson. I tre hanno in comune, oltre ad aver già lavorato per i Knicks (anche contestualmente per un breve periodo) una serie di caratteristiche che li rendono un fit ideale per provare a tirare su dal baratro la franchigia.

Conoscono il basket come pochi altri, sono portati – la loro storia parla per loro – a stabilire confini rigidi tra il front office e l’ambito di loro competenza, la loro cultura di pallacanestro e la loro formazione li porta ad avere un approccio poco orientato alle analytics e un modo di gestire e motivare i propri giocatori che non contempla i guanti bianchi al fine di non turbare eccessivamente qualche soggetto troppo sensibile.

Assumere uno dei tre non comporterebbe di per sé una svolta ma significherebbe che dopo anni e anni di errori, qualcuno in quel di New York sta iniziando a fare la cosa giusta.

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