Quando nell’estate del 2018 LeBron James ha scelto di portare i suoi talenti a Southland si è realizzato quello che sulla carta era il matrimonio perfetto: la più grande superstar della pallacanestro contemporanea nella franchigia più iconica e riconosciuta nella National Basketball Association.

All’epoca i Los Angeles Lakers che dal ’48 al 2012 avevano saltato la postseason appena cinque volte, venivano da un pokerissimo di annate chiuse anticipatamente in aprile mentre LeBron era reduce da due sconfitte nette back-to-back nelle Finals.

Il fatto che LBJ avesse scelto di vestirsi in gialloviola per la caccia al suo quarto anello ha certamente entusiasmato la L.A. baskettara tanto da distogliere l’attenzione dal fatto che la mossa del 23 poggiava su basi che, cestisticamente parlando, la rendevano perlomeno controintuitiva.

Sappiamo tutti che James, come spesso peraltro ama ricordare, è e si sente “more than an athlete”. James è un businessman, è un attivista, è un uomo di comunicazione, un filantropo e uno straordinario promotore della sua figura e della sua reputazione.

Andare a giocare per i Los Angeles Lakers nel 2018 significava prendere il timone di una squadra giovane, con una guida tecnica traballante e un front office formato da persone la cui carica spesso non corrisponde al concreto agire mentre figure esterne si ritrovano ad avere un’ingiustificata influenza, dove regnava e regna tuttora il caos e dove si fa fatica a capire con certezza chi fa cosa.
King James ha scelto i Lakers ma prima di tutto ha scelto Los Angeles.

La sua SpringHill Entertainment, la casa di produzione che prende il nome dal complesso di edilizia popolare di Akron dove lui ha vissuto buona parte della sua gioventù, negli ultimi anni ha visto crescere il proprio volume d’affari e di attività, dai film ai documentari alle serie, che in alcuni casi vedono James impegnato in prima persona.

È il caso ad esempio di “The Shop” ossia le barbershop conversations del Chosen One e del suo sodale e socio Maverick Carter con personaggi dello sport e dello spettacolo e soprattutto Space Jam 2, remake – anche se LBJ e company hanno rifiutato questa definizione – dell’iconico film con “sua maestà” Michael Jordan le cui riprese sono iniziate questa estate ovviamente negli studios angeleni.

Stabilirsi a Los Angeles gli ha reso dunque possibile poter seguire più compiutamente e potersi dedicare a queste attività off-the-court per imprimere uno slancio al suo percorso all’interno dell’entertainment hollywoodiano, cosa che ragionevolmente fa pensare ad una sua possibile seconda carriera quando, si spera fra molti anni, deciderà di chiudere con la pallacanestro giocata.

Senza ignorare il fatto che ricercare una collocazione del genere è stata una scelta volta ad incanalare meglio le proprie energie in tutti i suoi impegni collaterali: gli investimenti, la filantropia e perché no, la politica, che non mi sentirei di poter escludere da un suo futuro più o meno lontano.

LeBron voleva lasciarsi tutte le opzioni aperte e andare ad L.A. glielo consentiva. Dopo essere andato a Miami per vincere ed essere tornato a Cleveland per farlo a casa propria, ha preso quella che è una chiara business-first decision, diretta conseguenza di quindici anni in cui ha imparato, forse come nessun altro atleta ha mai fatto, a comprendere e sfruttare le opportunità che la sua fama e il suo talento gli hanno consentito di avere.

Ovviamente in tutto ciò nessuno può pensare che la componente sportiva, per quanto secondaria, sia di poco conto.

La sua prima stagione ad Ovest è stata abbastanza difficile, non tanto per lui quanto per la squadra nel suo complesso, e ha rappresentato una fase di transizione verso l’ultima offseason in cui la franchigia si è mossa per cercare di tornare al livello a cui è abituata, cioè al vertice della lega, sacrificando una serie di giovani prospetti (garantendo nel contempo la permanenza di un uomo chiave come Kyle Kuzma) per portare alla corte del Re una superstar come Anthony Davis e firmando una serie di giocatori, Bradley e Green in primis, abituati e adatti a contesti in cui l’unico obiettivo accettabile è la vittoria. Ed è così per la franchigia come per LeBron, nessun’altra opzione può essere contemplata.

Tutte le grandi superstar che hanno vissuto i loro anni migliori in gialloviola legando il proprio nome alla squadra di Los Angeles, oltre all’abbondante talento fornitogli dall’Onnipotente, hanno in comune una cosa ossia aver vinto. Jerry West, Chamberlain, Magic, Kareem, Kobe, Shaq, tutti loro, chi più chi meno, hanno trionfato da Lakers e lo hanno fatto ovviamente da protagonisti.

Qualora James non vi riuscisse ciò rappresenterebbe una grossa macchia sulla sua carriera e siamo certi che un uomo così strutturato, in tutti i sensi, non ci abbia pensato e non utilizzi questa potenziale spada di Damocle come ulteriore motivazione per arrivare fino in fondo.

Tanto più se si considera che tra i principali candidati a rovinargli la festa c’è proprio lui, il classico fratellastro sfigato e perennemente lontano da ogni considerazione che in questo caso si chiama Clippers, che ha tanta voglia di vendicare i decenni di pressoché totale oscurità e che, per aggiungere ulteriore carne al fuoco, si è personificato nel peggior incubo di King James, Kawhi Leonard.

L’uomo che lo ha battuto nel 2014 e che da fresco campione NBA nonché MVP delle Finals ha rifiutato di andare a giocare con lui (o forse sarebbe meglio dire per lui) preferendo sbarcare sull’altra sponda della città, quella perdente, poco (o per nulla) glam, e da sempre ignorata dai riflettori, e che nel frattempo ha guidato i suoi alla vittoria del “derby” alla prima stagionale pur in mancanza dell’altro All-Star Paul George.

Trionfare a L.A. da superstar e evitare di vedere i Clippers e Kawhi in finale o peggio ancora Campioni NBA danno un significato enorme alla stagione di LeBron. Perché una business-first decision rimane una business-first decision ma per chi porta sulle spalle il nome James e il 23, per citare Vince Lombardi, vincere è l’unica cosa che conta.

 

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