Ci siamo lasciati alle spalle un’estate a dir poco pulp per i colpi di scena  che hanno investito le realtà più glamour della Western Conference. Hollywood è più che mai la capitale delle stelle e il derby cittadino sarà il più affascinante mai visto, Houston ha riunito i due giocatori col maggior tasso di hatred per talento della lega, mentre Golden State per sopravvivere all’addio di Durant si lega mani e piedi ad un trio di esterni che in una stessa squadra probabilmente non ha precedenti.

Lontano dalla luce dei riflettori, una franchigia che è stata spesso sul punto di svoltare e portarsi a casa il bersaglio grosso ha aggiunto al proprio scacchiere dei giocatori che potrebbero far salire prepotentemente le sue quotazioni come contendente per le finali di conference. Stiamo ovviamente parlando dei nuovi Utah Jazz e di Mike Conley e Bojan Bogdanovic. I dubbi però rimangono: può davvero una squadra come questa, nell’era dello star power come dogma imprescindibile, ambire alle Finali di Conference?

LA CARRIERA INTERROTTA DI RICK DALTON, A.K.A. DONOVAN MITCHELL

Flashback tarantiniano a due anni fa: Gordon Hayward, la superstar della squadra, lascia la città del lago salato per accasarsi ai Celtics e con lui se ne vanno le speranze di rimanere competitivi in quella vasca di squali che è l’Ovest. Hayward era il franchise player e un riferimento per la comunità.

Era quindi impronosticabile un suo rapidissimo rimpiazzo nei cuori dei fans e nell’importanza a livello offensivo dei Jazz, a maggior ragione da parte di un rookie da Louisville che arrivava al piano di sopra con l’etichetta di specialista difensivo. La vita però è piena di sorprese e l’inaspettato breakout di Donovan Mitchell al suo primo anno tra i grandi ha permesso ai Jazz di mantenere un piazzamento ai playoff imponendo in post season la sua Bounty Law sugli Okc Thunders del duo George – Westbrook. L’uscita dalla post season, avvenuta in maniera altrettanto repentina per mano dei Rockets, non aveva intaccato minimamente gli umori mormoni grazie alla consapevolezza di aver subito trovato la star per trascinare il loro solidissimo core.

Come Rick Dalton anche Mitchell ha avuto un inizio di carriera di grande successo e sembra pronto a compiere il “grande salto” da volto televisivo a star del cinema. Nel 2018-2019 però Spida non ha avuto la crescita che ci si aspettava ed è arrivata di nuovo un’eliminazione ai playoff contro i Rockets.

Se l’esito della serie non ha sorpreso nessuno, in molti hanno storto il naso per le modalità con cui i Jazz sono stati spazzati via, senza mai dare l’impressione di poter fermare lo strapotere offensivo dei razzi nel più classico dei gentlemen sweep. Mitchell in particolare è stato messo in croce dalla difesa texana risultando ancora parecchio acerbo nelle scelte di tiro (eFG del 37.1% su 22 conclusioni a partita, con un terribile 25.6% da 3 punti su 8.6 conclusioni medie nella serie) e nella capacità di creare attacco per gli altri (4.2 palle perse a fronte di 3.2 assist di media nelle cinque partite).

Il riassunto dell’ultima serie playoff di Spida

 

La compresenza in campo di Rubio, Crowder, Favors e Gobert, tutto tranne che floor spacers, ha causato un ingorgo nell’area avversaria mettendo alla berlina i principali punti deboli di Donovan. Dal punto di vista delle conclusioni personali il nostro manca infatti di un volume ed un’efficienza nel tiro da 3 dal palleggio di un certo calibro, condizione necessaria per essere una grande point guard, e ha difficoltà nella creazione con continuità di tiri puliti, a causa della stazza ridotta.

A questo si unisce una capacità scarsamente sviluppata dei tempi di lettura per lo scarico. Nell’era delle combo-guard Mitchell rappresenta un tipo di giocatore che non è nè un tiratore micidiale alla Buddy Hield nè un creatore di gioco alla De’Aaron Fox (per fare paragoni con giocatori considerabili allo stesso livello) bensì uno slasher con la dinamite nelle gambe dalle letture istintive e abbastanza basiche, che predilige acrobatiche conclusioni nel pitturato quando potrebbe invece trovare soluzioni alternative.

Questo tipo di conclusioni è del tutto incompatibile con un’efficienza dignitosa.

Entrambi i giocatori in angolo erano smarcati.

 

Un giocatore quindi che al momento attuale dovrebbe fungere da finisher piuttosto che da playmaker, ma che è costretto dalla cronica mancanza di creatori di gioco a roster a fungere da palleggiatore primario con un usage rate estremamente elevato. Ci vorrebbe qualcuno che facesse il lavoro sporco di muovere le difese per permettergli di attaccare il ferro in quella maniera bestiale che ci fa luccicare gli occhi, e qualcun altro che gli allarghi il campo per evitare che qualche difensore non amante del bello interrompa i suoi monologhi col ferro. Ci vorrebbero dei tuttofare di fiducia, dei Cliff Booth…

Taglio in back door e attacco dei close-out a difesa mossa, questo dovrebbe essere il suo pane quotidiano

 

I dirigenti di Utah quest’estate avevano di fronte un compito affatto semplice: accertate l’inconsistenza di Rubio e Crowder ad alti livelli e la difficile convivenza di Favors e Gobert dovevano sostituire questi giocatori, possibilmente con creatori dal palleggio in grado anche di tirare da 3.

Questo tipo di giocatori viene pagato a peso d’oro e dovevano attirarne almeno due senza però poter contare sull’attrattività di un big market. Inoltre questi due potenziali titolari dovevano sposarsi il meglio possibile con l’identità della squadra che era e rimane prettamente difensiva. Tutto sommato quindi era impossibile trovare fit migliori del Bogdanovic croato e di Conley.

SONO BOJAN, RISOLVO PROBLEMI

Bojan Bogdanovic viene da diverse solide stagioni con dignitose apparizioni ai playoff anche da titolare dove ha ampiamente dimostrato di poter essere un ottimo starter in una squadra di vertice. La sua capacità di essere un tiratore d’elite da 3 sia on che soprattutto off the ball costituisce un grande upgrade rispetto a Favors e Crowder, che verosimilmente rimpiazzerà in posizione di 4.

La shot chart di Bojan recita 55.1% dall’angolo sinistro. Preparate gli ombrelli che in Utah pioverà forte quest’anno

 

Dal punto vista difensivo avrà di fronte un anno molto impegnativo visti i Leviatani che infestano le acque della Western Conference: LBJ, Davis, Leonard, George,… però c’è pur sempre un Gobert pronto a chiudere le falle difensive ben conscio di poter aver maggior respiro nell’altra metà campo.

Fun fact: Bogdanovic costituisce la maggior acquisizione della storia dei Jazz sul mercato dei free agent. Scusate se è poco.

BE LIKE MIKE (CONLEY)

Il pezzo da 90 del mercato mormone è invece giunto via trade: trattasi di Mike Conley, 31enne play dei Memphis Grizzlies che in un anno hanno salutato gli ultimi due testimoni del grit&grind. Conley costituisce il fit perfetto sia dal punto di vista caratteriale che tecnico: ha condiviso con Marc Gasol la leadership di una franchigia che, come Utah, ha fatto della difesa e dell’essere underdog un marchio di fabbrica con numerose vittime ai playoff negli anni. Inoltre il suo ruolo sulla crescita di Mitchell sarà sicuramente importante visto che è un giocatore eccellente proprio negli aspetti che il giovane Jazz dovrà per forza di cosa migliorare.

Dal punto di vista tattico Mike probabilmente diventerà il portatore di palla principale, togliendo possessi e responsabilità a Donovan, che ha tenuto un usage rate l’anno scorso incompatibile con un’efficienza decente. L’ex Ohio State eccelle infatti nella gestione dei possessi post pick&roll “in the middle”, appannaggio dei veri professori del gioco, permettendo quindi a Mitchell di capitalizzare  un vantaggio preso con il Pick & Roll Colley- Gobert, un ambito nel gioco in cui sono richieste capacità di finalizzazione piuttosto che playmaking. Inutile aggiungere che anche Gobert beneficierà moltissimo della presenza di Conley, la point guard più forte con cui abbia mai giocato.

Infine Conley è comunque in grado di agire off the ball ed è un ottimo tiratore sugli scarichi con il 36% su circa 6 conclusioni per gara negli ultimi tre anni.

Capacità di stare nel mezzo e servire il rollante coi giusti tempi 

Kick out con mano destra, lui che è mancino naturale.

Conley ha una facilità di passaggio con la mano debole da stropicciarsi gli occhi

Pazienza nel giostrarsi con il bloccante, attacco fulmineo del closeout, scarico puntuale,

lettura della difesa con posizionamento rapido in angolo che gli consente una comoda tripla.

Il confronto con Rubio è abbastanza impietoso

 

Infine dal punto di vista difensivo Conley è uno degli ultimi testimoni del famigerato “grit&grind” di Memphis e sebbene il fisico sia stato provato dai numerosi infortuni rimane un pessimo cliente per chiunque, sicuramente un difensore sopra la media, con l’unico punto debole della stazza cui ovvia con ottima capacità di lettura e di concentrazione.

ECOSISTEMA OSTILE

Se dal punto di vista della vita cittadina lo Utah non ha molto da offrire, il discorso cambia parecchio dal punto di vista dei paesaggi: si passa dagli orizzonti desolanti del deserto del Mojave alle fredde distese boschive dei monti Wasatch con l’unico tratto comune di essere aree non favorevoli all’insediamento umano. La stessa situazione verrà replicata sul campo del Delta Center dove gli avversari dovranno guadagnarsi col sangue ogni singolo canestro vista la qualità difensiva generale della squadra, già miglior difesa della lega in diversi ambiti statistici l’anno scorso.

Detto dei titolari, dalla panca sono pronti ad uscire dei veri e propri cagnacci come l’ulteriore acquisto estivo Ed Davis, il solido veterano Jeff Green e l’autoinvestitosi “Harden Stopper” Dante Exum, tutti e tre giocatori dalla fisicità importante in grado di difendere più ruoli. Royce O’Neale chiuderà probabilmente le rotazioni per garantire un contributo offensivo adeguato alla second unit.

In conclusione Utah presenta una rotazione di 9 solidi giocatori con cui si candida ad essere la difesa più forte della lega e in attacco si adegua agli standard NBA attuali circondando Gobert di buoni tiratori. Questo di sicuro pagherà moltissimi dividendi durante la regular season come e più degli anni precedenti, con obbiettivo minimo il fattore campo ai playoff.

Grossa fonte di dubbio rimangono gli scontri diretti, tallone d’Achille delle precedenti annate con i Jazz perdenti in quasi tutte le serie di confronto con le squadre sopra di loro in classifica. Il sospetto che Utah rimanga vittima della “Sindrome di Atlanta” è alto. Numerosi sono infatti i casi di squadre non talentuosissime ma molto organizzate che rendono bene in regular season e poi si squagliano ai playoff, quando l’intensità difensiva fa saltare anche i meccanismi più consolidati e diventa indispensabile avere talento nei singoli.

Sebbene i Jazz siano molto migliorati in questo aspetto gli ottimismi non possono che essere frenati dal mercato delle avversarie ad Ovest. Inoltre su Conley gravano dubbi sull’integrità fisica e una sua eventuale defaillance in post season precluderebbe le migliori prospettive.

I Raptors hanno dimostrato che, con il necessario aiuto della sorte, una squadra dal talento non eccelso ma con una forte dose di attributi e motivazioni, se si fa trovare pronta, può avere la sua chance e guardando le contender dal lato del Pacifico si può notare come quasi tutte abbiano una star injury prone.

Pensare che un evento abbastanza raro come la vittoria di un titolo NBA da parte di una squadra underdog avvenga per due anni di fila rimane altamente improbabile e il passato ci ha spesso mostrato efficienti squadre operaie spazzate via allo scoccare della mezzanotte con la violenza di una strage a Cielo Drive. Esiste però sicuramente un universo parallelo in cui la furia omicida delle “family” californiane si inceppa di fronte a degli improbabili eroi e si passa rapidamente da una tragedia annunciata ad un finale da “C’era una volta…”

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