FATTO: Kevin Durant è rientrato in Gara 5 delle NBA Finals 2019 dopo quasi un mese di stop per un infortunio al polpaccio destro e all’inizio del secondo quarto si è nuovamente infortunato. Dopo che la risonanza magnetica ha confermato la rottura del tendine d’Achille della gamba destra, ieri KD è stato operato e per il suo recupero completo sono previsti dai 9 ai 12 mesi di stop.

OPINIONE A: Durant non avrebbe dovuto giocare perché palesemente non era al 100% e avrebbe dovuto rifiutarsi di scendere in campo per preservare il suo fisico e il futuro della sua carriera

OPINIONE B: Durant ha fatto bene a giocare anche se non era al 100%  perché i suoi compagni avevano bisogno di lui e la possibilità di scendere in campo per vincere un altro anello valeva il rischio

Le opinioni A e B sono totalmente antitetiche, ma nelle 24 ore passate dalla fine della partita hanno entrambe avuto una robusta dose di adesioni da parte di giocatori, addetti ai lavori o semplici appassionati di basket. Prima di analizzare i motivi che possono aver portato KD (e i Warriors) a prendere la decisione di scendere in campo lunedì notte sul parquet della Scotiabank Arena di Toronto, vorrei puntualizzare tre aspetti preliminari:

  1. non esiste la certezza assoluta che i due infortuni, quello al polpaccio di un mese fa e quello al tendine d’Achille di lunedì, siano tra loro collegati da un rapporto causa-effetto. Ok, la gamba è la stessa e la zona pure, ma il tendine d’Achille è una bestia strana. Si tratta di una banda di tessuto connettivo fibroso che connette i muscoli del polpaccio al tallone: normalmente è una struttura molto forte e resistente, ma può subire lesioni totali o parziali in conseguenza di traumi o di un progressivo logoramento. I segnali di pericolo in tal senso sono però pochi (nell’85% dei casi le rotture sono causate da zone morte di tessuto all’interno del tendine che non causano sintomi dolorosi) né tantomeno esistono indagini che possano prevederne la rottura. Se era quindi idealmente preventivabile che l’infortunio al muscolo del polpaccio subito a maggio da KD potesse subire una recidiva, non è detto che fosse così scontato immaginare la lesione tendinea che si è poi invece verificata.
  2. dobbiamo e possiamo presumere che Kevin Durant fosse a conoscenza dei rischi che comportava lo scendere in campo e che non sia stato “obbligato” dalla dirigenza dei Warriors a fare alcunché. Non stiamo parlando di un giocatore e di una squadra di CSI provinciale, siamo ai massimi livelli dello sport professionistico mondiale ed è stato confermato dai media che Durant avesse consultato almeno un parere esterno (ma molto probabilmente più di uno) allo staff medico di Golden State. Quali siano state le indicazioni ricevute dai medici non ci è dato sapere, ma di certo non è credibile ipotizzare che al giocatore siano state volutamente nascoste delle informazioni sul suo stato di salute per indurlo a scendere in campo senza riguardi per il suo futuro professionale.
  3. nel caso ve lo stiate chiedendo, il futuro finanziario di Durant NON è al momento particolarmente in pericolo, né a breve né a lungo termine. Se è vero che KD avrebbe potuto uscire dal contratto questa estate per firmare un nuovo accordo a lungo termine, con i Warriors o (presumibilmente) con un’altra franchigia, è altrettanto vero che tale possibilità è ancora perfettamente percorribile. Nonostante l’infortunio è infatti praticamente certo che il nativo di Washington riceverà ugualmente proposte di max contract da parte di diverse squadre NBA, perché la possibilità di mettere sotto contratto per 4 anni (5 in caso rifirmasse con Golden State) uno dei 2-3 giocatori più forti del mondo resta estremamente appetibile anche nel probabile caso che il suo infortunio lo costringa a rimanere ai box per tutta la prossima stagione. KD ha inoltre la possibilità di non esercitare l’opzione di uscita, prendere i 31,5 milioni di dollari che gli spettano dall’attuale contratto con i Warriors per la prossima stagione e ripresentarsi guarito alla free agency 2020 con mezza NBA presumibilmente ancora ai suoi piedi

Messe da parte queste premesse mi piacerebbe cercare di analizzare nel miglior modo possibile uno scenario complessivo che reputo di raro interesse, in particolare per l’aspetto umano della vicenda.

Partiamo dall’infortunio stesso: la rottura del tendine d’Achille è uno degli infortuni peggiori che possono capitare ad un giocatore professionista e nel passato più o meno recente della NBA questo trauma è stato sostanzialmente fatale alle carriere di molti giocatori (Okur, Billups, Varejao) e in generale fonte di un drastico calo nelle prestazioni (Brand, Matthews, Bryant e per il momento lo stesso DeMarcus Cousins), mentre solo in rari casi gli atleti sono tornati a performare sugli stessi livelli del passato (Rudy Gay e soprattutto Dominique Wilkins). KD ha 31 anni, quindi non è più giovanissimo, ma ha una struttura fisica praticamente mai vista prima e la combinazione di leggerezza ed elasticità fa sperare con un ragionevole grado di ottimismo in un recupero completo, seppur sicuramente laborioso.

Come detto, tra poche settimane ci saranno parecchie squadre disposte a scommettere sulla sua ripresa e a offrirgli tutti i soldi possibili per spingerlo a cambiare casacca, ma è indubbio (e paradossale) che le quotazioni per la sua permanenza nella Baia si siano improvvisamente impennate. KD potrebbe rimanere nel contratto oppure no, ma il suo anno di stop cambia completamente gli scenari della prossima free agency. Le squadre che fino a ieri erano in pole position per accaparrarsi i suoi servigi, New York Knicks in testa, oggi sanno che anche in caso di firma dovranno aspettare la stagione 2020/2021 per poterlo schierare sul parquet e ciò complicherà non poco le strategie di quest’estate. La free agency è una specie di gigantesco puzzle e KD sarebbe stata una delle prime tessere ad essere posizionata, generando poi l’incastro dei pezzi successivi. Tra qualche settimana vedremo cosa succederà, ma al momento la cosa mi interessa fino ad un certo punto.

Tornando a Gara 5, nella conferenza stampa post-partita ha fatto molto rumore l’intervista del General Manager dei Warriors Bob Myers, che nel rispondere alle domande dei giornalisti non ha saputo trattenere le lacrime mentre si prendeva la responsabilità della decisione di far giocare KD. A prescindere dagli stucchevoli giudizi di “merito” (sic) sulla reazione emotiva di Myers, che reputo segno di una partecipazione personale agli eventi e come tale assolutamente sincera e rispettabile, per deformazione personale ho sempre rigettato le valutazioni ex-post di una scelta basate esclusivamente sull’analisi dei risultati.

Mi sembra più opportuno (e infinitamente più ragionevole) giudicare una scelta partendo dalle informazioni disponibili al momento in cui tale scelta è stata fatta, non da quello che è successo dopo. I fatti indicano che lo staff medico, lo staff tecnico, la dirigenza Warriors e lo stesso KD sapessero tutti che il giocatore non fosse al 100% e che ci sarebbero stati dei rischi, più o meno importanti, legati alla decisione di scendere in campo. Myers ha parlato di “collaborative decision” ma è ovvio che l’ultima parola sulla decisione sia stata quella di Durant.

Provate per un attimo a mettervi nei suoi panni: sono le NBA Finals, il palcoscenico più importante della stagione, con la tua squadra sotto 3 a 1 ma ancora in corsa per la vittoria finale. I media, il pubblico, i compagni, gli appassionati: tutti per settimane hanno parlato di te e del tuo rientro, certamente la pressione esterna è alta ma in questi casi conta soprattutto quello che senti nella tua testa. Secondo diverse fonti vicine a lui e al racconto di mamma Wanda, KD era tormentato dal fatto di non poter essere in campo con i suoi compagni e appena ha avuto l’ok dei medici ha deciso che avrebbe giocato, anche se il dolore alla gamba destra (comunque descritto come “acceptable”) non era del tutto scomparso.

Ora, Durant non è sempre stato percepito dal pubblico come un personaggio positivo. Il suo fare schivo (chiedere per referenze a Linus e Nicola di Radio DeeJay), i burner account di Twitter e soprattutto la sua decisione di lasciare OKC per unirsi all’invincibile armata di Golden State, sono stati tutti elementi che hanno contribuito a far nascere una nutrita schiera di haters e in generale a creare l’immagine di un giocatore interessato solo a sé stesso.

Mamma Durant ha voluto rispondere con un appassionato post su Twitter nelle ore successive all’infortunio “For ALL of you who question my son as a Man, question his Heart, question his integrity and question his LOVE for the game of basketball, you DON’T know him. He has a heart of a True Warrior!”. Detto di Bob Myers, anche tutti gli altri Warriors si sono schierati in difesa di KD e hanno avuto parole al miele verso il suo attaccamento al gioco e alla squadra, da Curry (“KD è una persona genuina, ha dato tutto per noi”) a Thompson (“Kevin è un vero guerriero, si è sacrificato per noi ed è come un fratello”), fino a coach Kerr e al resto dello staff dei campioni in carica.

Rispetto e onori che gli sono stati tributati a 360 gradi da tutta l’NBA, avversari compresi. I Raptors, esclusa una piccola minoranza di tifosi (deficienti, ndr) che hanno salutato il suo infortunio con saluti e risa di scherno, si sono comportati da gran signori (Drake, Lowry, Ibaka e coach Nurse in testa) e hanno espresso solidarietà e dispiacere per il fatto di non potersi confrontare con lui sul campo nelle prossime gare. Ipocrisia? Non credo. Il mondo dello sport, anche quello professionistico, è come una grande famiglia dove nelle difficoltà i membri si difendono a vicenda.

Durant forse non sarà l’individuo più simpatico della terra, ma è un grande professionista che ama il Gioco e per tale passione ha deciso di scendere in campo semplicemente perché non poteva sopportare di rimanere fuori a guardare i suoi compagni lottare fino all’ultimo prima di abdicare il trono dei campioni. Fossi stato al suo posto, per tenermi fuori da una partita di Finale NBA avrei dovuto avere una gamba amputata e anche allora avrei probabilmente cercato una stampella o un arto artificiale con cui scendere comunque in campo.

Non vuol dire che tutti debbano per forza pensarla in questo modo, ma KD non è né il primo (Willis Reed, Isaiah Thomas, Rajon Rondo, Dwyane Wade, Michael Jordan e lo stesso Kevon Looney, solo per citare alcuni esempi tra le centinaia disponibili) né sarà l’ultimo giocatore NBA ad aver deciso di scendere in campo pur sapendo di non essere al 100% e di rischiare di peggiorare un infortunio. Può essere stato in qualche modo forzato dall’idea di passare alla storia come il vigliacco che si era tirato indietro nel momento più importante della stagione? Forse, ma non credo.

Kawhi Leonard è stato perseguitato per un anno intero dalle voci che definivano “fantasma” l’infortunio al quadricipite che lo ha tenuto ai box praticamente per tutta la passata stagione, ma non mi pare che questo gli abbia impedito di rimanere fermo fin quando non si è sentito pronto a rientrare e nei playoff di quest’anno ha continuato a giocare sul dolore del tendine che lo perseguita dalla serie contro i Philadelphia 76ers.

Lo stesso ha fatto Durant. Fino a Gara 4 è rimasto ai box, poi ha ritenuto di essere sufficientemente pronto per scendere in campo e così ha fatto. Giudicare la bontà della sua scelta dal fatto che si sia ri-infortunato è quantomeno miope, così come lo sarebbe dire che Leonard ha fatto bene a non fermarsi soltanto perché al momento è in campo a dominare. Ora KD si è operato e dovrà cominciare il suo percorso di riabilitazione tanto quanto i Warriors e le altre squadre dovranno riorganizzare i propri piani futuri, gli infortuni e le delusioni fanno parte del gioco tanto quanto i trionfi e le vittorie: questa è la bellezza dello sport.

Avremo tempo di parlarne più avanti, ma nel frattempo abbiamo ancora 1-2 gare di Finale NBA da goderci, che si preannunciano entusiasmanti e incerte come non mai. Il cuore dei campioni contro la squadra del destino. Gli Splash Brothers e Draymond Green contro Kawhi “MJ” Leonard, Lowry e Siakam. Warriors contro Raptors. Mi pare sia abbastanza… Buon divertimento!

3 thoughts on “La scelta di Kevin Durant

  1. E se l’infortunio al polpaccio fosse stata una copertura per proteggere una lesione al tendine? Io per fortuna non mi sono mai lesionato il tendine, ma ho avuto lo stesso identico infortunio al polpaccio che avrebbe avuto Durant, e devo dire che i movimenti che ho visto mi sono sembrati innaturali. Anche Pessina, che di infortuni ne ha visti e subiti tanti, durante il commento italiano della partita con Houston, ha subito detto “Tendine d’Achille”. Poi la diagnosi ha detto polpaccio, e non se ne è più parlato. Ma chi ha avuto quel genere di infortunio sa che è molto fastidioso, ma con una buona fisioterapia e un tutore, dopo due settimane si torna in campo (esperienza personale).
    Infatti il suo rientro era dato day by day, perché un polpaccio non tiene fuori un mese neanche un giocatore sovrappeso del CSI.
    Poi rientra e guarda caso la sfortuna… si recide proprio quel tendine che non centrava nulla nell’infortunio precedente…
    Ma la mia domanda è: perché nascondere che si trattava del tendine fin da subito? E perché tornare in campo se sapeva che giocare avrebbe potuto compromettere la sua carriera (una cosa è riacutizzarsi del polpaccio, altro livello è il tendine)?
    Tutto molto strano… per me l’unica cosa sicura in tutta questa storia è che il polpaccio stava bene…

    • Hai ragione, ovviamente. O negli USA i dottori sono tutti laureati al CEPU di Tirana o hanno tenuto nascosta la cosa per motivi psicologici (non deprimere la truppa favorendo i Raptors? chissĂ ).
      Ma dal punto di vista sportivo le dietrologie non servono a una mazza, sicchè lasciamo il gossip ai professionisti.
      Notiamo quante storie interessanti si susseguono nei playoff senza la mefitica presenza del lebbroso di Akron.

      A tale proposito: con Davis i Lakers andranno di sicuro ai playoff, che il lungo non giocherĂ  per il solito infortunio (ne ha almeno uno ogni stagione) = uscita al primo turno.

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