Scrivo live dalla Oracle: GSW vs OKC (!).
Grande onore concesso da Play.it USA: poter mettere i piedi su questo parquet, così vicino ai giocatori da poterli annusare e studiare dal riscaldamento fino alla post-game conference, è una robetta che ancora fatico a mettere in parole.

È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che sono stato da queste parti e in quei giorni il clima era “leggermente” diverso: NBA finals, gara 2, internet straripava di meme di JR Smith, avevo Stephen A. di ESPN seduto vicino con il suo Ipad pro (segno inequivocabile di enorme importanza dell’evento) e tutti parlavano solo della supremazia dei gialloblù.

Le previsioni, come ben sapete, si sono avverate praticamente tutte: lo sweep, Durant che iconicamente distrugge LBJ per il secondo anno di seguito, il secondo Larry O’Brien trophy di fila (terzo in quattro anni) e le nuvole gialloblu che si estendono inesorabilmente verso il futuro, vista l’età anagrafica dei suoi componenti e visto l’assurdo talento ammassato negli anni, completato nel mercato estivo -giusto per non farsi mancare nulla- con il tocco dello chef: DeMarcus Cousins in maglia Warriors.

Quindi, che giochiamo a fa’?
Diamogli il titolo e issiamo un altro banner alla Oracle. O forse…

Mentre Steph tira (non giocherà nemmeno oggi contro OKC) prendo poche righe per provare a snodare un nodino che avevo dal finale di gara 2 dell’anno scorso e che risento adesso: la Oracle Arena ha perso un po’ della sua magia, anno dopo anno la cosa peggiora e ti fa riscoprire quanto sono belli gli stadi ed i palazzetti, quelli veri.

Ci sono stato da poco (a vedere i 49ers dico, non proprio un clasico tipo Boca-River) e, credetemi, l’atmosfera è un’altra cosa. La gente ti abbraccia quando negano un touch down all’avversario, i suoni sono forti, veri, feroci, meno cellulari in mano per il selfie e tutti sono lì a fare casino per la squadra.

Della Oracle Arena, l’ultimo ricordo che ho della scorsa stagione è aver visto -a risultato assicurato a fine quarto quarto- mezzo palazzetto andare via prima della fine della partita. Andare via in pace, come fosse finita la messa, senza festeggiare, senza mezzo coro, senza esultare per una dannata finale NBA vinta (dove tra l’altro i biglietti costavano porzioni intere di organi interni) per non rimanere bloccati 20 minuti ai parcheggi.

Ho raffinato questo senso di fastidio scoprendo che il turismo asiatico in California (cinese in particolare, ma fosse stato vietnamita, russo o australiano non avrebbe fatto differenza), riesce a piazzare tramite pacchetti di viaggio all-inclusive anche il 20/30% dei biglietti del primo anello della Oracle. Potete ben capire che ad un pubblico così composto, al massimo puoi chiedere un tremolante “defense” quando la partita è in bilico, nulla di più.

Ho poi capito quanto era seria la situazione e grande il distacco dalla base, quando di recente gli stessi Warriors hanno iniziato ad offrire per 100 (miseri…) dollari il posto alla Oracle arena senza guardare la gara, una cosa che sembra un titolo di lercio, o una gag fantozziana, più che realtà.

Lo scollamento dai tifosi storici, quelli più autentici e rumorosi, tagliati fuori dai prezzi assurdi dei biglietti, è un side effect, uno dei pochi di questo show bellissimo che è la NBA, che peggiorerà in maniera definitiva con la migrazione nella nuova Chase Arena di San Francisco e di cui mi dispiaccio.

Spettacolo sicuramente più adatto alle famiglie (solo quelle che hanno i figli con 10/10 di vista per sedersi in piccionaia o che possono pagare 2000 dollari a gara, ovviamente) e sicuramente più vicino ad una rappresentazione teatrale che ad un derby Roma-Lazio o un superclasico spagnolo o argentino ed è un peccato.

Lungi da me difendere in toto lo stadio all’italiana, ma anche barattare quella energia, quell’intensità con truppe di turisti di passaggio che sanno appena le regole, in missione “likes sui social”, non mi sembra poi un affarone. Fine della polemica (e fine anche della shooting session di Curry che si mette a scherzare con allenatori e personale della Oracle).

Affrontiamo il nocciolo della questione: lo spogliatoio degli Warriors, che fino a 10 giorni fa sembrava il giardino dell’Eden, sembra essersi fratturato e ancora non si capisce dove possa arrivare questo effetto domino.

Per capire meglio che sta succedendo è un po’ inutile parlare di basket giocato ed in particolare della sconfitta di oggi (quarta di fila per la precisione, record in epoca Kerr), perché appena riavranno la loro lineup con Green e Curry ridiventeranno i favoriti, ma soprattutto perché il terreno della battaglia non è un campo da pallacanestro.

Long story short: Durant sta flirtando con un po’ di squadre per la sua prossima free agency, minacciando di modificare decisamente un gruppo che navigava a vele spiegate verso un altro paio di titoli. Dopo che tutti negli anni passati hanno rinunciato ad un po’ di soldi sul piatto per far funzionare il giochino, adesso uno di loro alza la testa per far capire che non c’è più tutta quell’urgenza di giocare in California, specialmente se le condizioni non dovessero essere ideali.

L’arma finale che ha permesso agli Warriors di annientare tutti i rivali negli ultimi due anni (ma anche di cambiare completamente la legacy di KD) sembra volersene andare per un non precisato mix che include denaro, sviluppi personali, ego e nuove sfide cestistiche.

Che questo sia vero o meno, che le indiscrezioni quotidiane su social e media siano fondate o no, il tema “Cosa farà KD?” è in ogni trasmissione sportiva degna di nota qui negli States e sicuramente ascoltato anche dallo spogliatoio Warriors.

Quelle cose che a un gruppo bene bene non fanno. Specialmente se quel gruppo è fondato sui valori cardine del flow e dello strength in numbers.

Il casus belli ce l’ha offerto Draymond Green (e chi se no) negli ultimi secondi dei regolamentari della partita poi persa contro i Clippers. Se ve lo siete persi, ve lo posto qui sotto:

Ovviamente, l’affare era più serio e rilanciava un malessere generale che sta aleggiando da un po’ in quello stesso spogliatoio che ha aperto le porte a KD due anni fa. Una cosa non scontata nel mondo NBA dove i locker-room sono dominati da ego e machismo e dove per fare entrare un’altra star -anche se poi ti fa vincere dei titoli- c’è da rinunciare ad un po’ di soldini e luci dei riflettori. Chiedete a Kobe e Shaq, tanto per dire…

Le voci “interne” al circolo dei due atleti e degli Warriors dicono quella palla a Durant non sia arrivata perché Green aveva le palle girate dal riscaldamento, dove KD pare abbia dedicato molto più tempo a fare teatrino con Steve Balmer (presidente dei Clippers, ex vicepresidente Microsoft e uno fra gli uomini più ricchi del globo terraqueo e strainteressato a portare Durant ad LA, sponda Clippers) piuttosto che dedicarsi alla gara imminente.

Quindi: palla persa, overtime, B***h urlati e esposizione mediatica della ferita che almeno per ora pare ancora sanguinolenta.

Io sulla tematica, quella generale, non riesco a farmi una idea ferma.

Ha ragione KD, che dopo 2 (possibilmente 3) titoli di fila ha poco da dimostrare nella baia e magari vuole trovare nuove avventure o prendersi una “sua” franchigia da portare nell’Olimpo. Qui con Steph e Klay, ma soprattutto con Steph, di mezzo la squadra non sarà mai la “sua” anche se di titoli ne vincesse altri 4, anche se è già considerato il miglior giocatore della baia ed ha vinto gli ultimi due MVP delle finali. Non una robetta da poco, ma questo a volte, per alcuni, non basta.

E poi, perché stare in una squadra insofferente a questa tua situazione?
Dove quello che ti ha reclutato ti prende a colpi di mignotta (anche se la traduzione giusta dovrebbe essere mercenario) urlandoti chiaramente che “abbiamo vinto prima di te, vinceremo dopo di te, vattene via adesso” davanti a migliaia, forse milioni, di persone?

Quello, Draymond Green, è l’anima combattente degli Warriors dal giorno uno. Quello che ti ha invitato al party in casa Warriors reclutandoti il giorno stesso della finale persa con Lebron alla Oracle, facendo anche da garante, vista la vostra amicizia, per il fatto che sei “cool” e che (nonostante l’eccezionalità delle doti di Durant) ti ha permesso di risplendere in quel modo così assoluto che abbiamo visto nelle ultime due stagioni.

Ad uno così, che il motto dei gialloblù “strength in numbers” sembra avercelo tatuato in fronte, che (ma non è il solo) ha rimodulato il suo contratto per permettere di far funzionare il giocattolo con una stella in più, io, in fondo, un po’ di incazzo extra glielo concedo.

Glielo concedo, ma allo stesso tempo non lo assolvo perché non riesco a dimenticare che Green con il suo temperamento, energia e aggressività ha commesso più di una cazzata in questi anni ed è già costato a Golden State un titolo e svariate rogne. Molti fra stampa e giocatori non simpatizzano per Draymond e sono dell’idea che ogni tanto dovrebbe tenere la sua dannatissima bocca chiusa (sono d’accordissimo), insinuando spesso che gli effetti collaterali potrebbero essere più dei benefici offerti dal 23 (sono meno d’accordissimo).

Quindi KD sulla famosa rimessa non ottiene la palla, Draymond la perde, screzi in panchina con Cousins paciere (lo riscrivo: DMC a calmare le acque in una rissa fa capire la gravità della cosa) e tutti i discorsi successivi in cui si riesce più a mettere una linea fra realtà e fantasy basket.

La società al momento non ha preso ufficialmente le parti, ma ha sospeso Green senza paga per una partita (facendogli mettere li una cifra imprecisata fra i 100 e i 200 mila dollari) dando l’idea di voler tutelare Durant ed il suo possibile futuro nella bay area.

La società stessa, specialmente di fronte all’apertura della Chase Arena prevista per l’anno prossimo, non ha troppa voglia di scherzare sui destini di questo gruppo, visto che l’impianto privato da 1 billion dollar (si, non ho sbagliato a scrivere: 1 billion, ‘na miliardata) va ripagato e l’idea di perdere la pedina più pregiata sulla scacchiera non affascina il proprietario Joe Lacob.

Ma Durant, portato recentemente (con un abbigliamento discutibilissimo) a visitare la nuova facility, non ha ancora sciolto neppure un dubbio in merito alla spinosa questione.

Ad oggi, Thanksgiving week, Durant afferma che lo screzio non avrà conseguenze sulla stagione e sulla  sua decisione in free agency. Ma schivare il naso da pinocchio che gli è partito dal viso dopo aver rilasciato queste affermazioni è stata una impresa ardua per tutti i presenti.

Specialmente difficile crederci da uno che ha dimostrato di avere la pelle sottilissima ai commenti e alle critiche e che spende tempo con dei burner account sui social, per bisticciare con hater più o meno sconosciuti intorno al globo (e regalandomi le meme più belle degli ultimi mesi come quella qui sotto, apparsa dopo la rissa fra Lakers e Rockets).

Se volete una ulteriore conferma del fatto che KD non sia supercool in questi giorni  basta prendere la reazione, completamente sconsiderata, contro un tifoso reo di averlo chiamato “cupcake” (modo per definire uno fragile, soffice o cagasotto, diciamo) nella recente sfida persa contro i non imbattibili Mavs.

Accettare la partenza di KD o mandare via Green con una trade per sistemare il cap-space e le tensioni interne, sperando che Durant apprezzi il gesto e riconsideri con più interesse la franchigia della baia? Ancora non si sa molto.

Ad oggi sembrano entrambe due armi nucleari definitive per questo gruppo anche se, usando la logica fredda della ragione, la seconda opzione sembrerebbe la più vantaggiosa nel lungo periodo (avendo il benestare di KD per almeno una o due stagioni extra).

Nonostante alcuni calcoli di spazio salariale siano tosti da affrontare adesso non bisogna mai dimenticare che Green è in un momento non troppo felice della sua carriera: anche se è innegabile il suo apporto difensivo e le sue abilità di playmaking, offensivamente sta diventando una “tassa”. Tira male e con poca fiducia e oramai lasciargli 5 metri di spazio è il punto fermo iniziale di tutti i playbook difensivi degli avversari dei Warriors.

C’è un qualcosa di assolutamente giusto nel pensare che a livello di qualità e quantità il rientro di Cousins possa eguagliarne il fatturato, se non superarlo di gran lunga, facendo diventare Green una pedina “sacrificabile”.

Ma… ma noi sappiamo anche che lo sport non è solo numeri e che Green è un collante prezioso per un gruppo non elogiato abbastanza per il lavoro difensivo clamoroso che riescono a fare giocando con i 5 “piccoli”.

Come finirà la storia? Credo bene in ogni caso. Mi spiego meglio: Golden State è non una, ma almeno due o tre spanne sopra le contender e a meno che la situazione non precipiti ben peggio di quello che abbiamo visto finora, al rientro di Curry e Green e poi con l’inserimento di DMC, quelli di Oakland avranno tutte le carte sul tavolo per riaccaparrarsi il primato della conference e il titolo anche quest’anno. A mani basse.

Ma… le dinastie di questa lega, come  Kobe e Shaq insegnano, si spezzano sempre dall’interno. Lo sa bene anche Klay Thompson che nell’aftermath dello scontro, provando da subito a tenere insieme lo spogliatoio, ha sintetizzato:

“We’re the only team that can beat us”

E voi? Riuscite a capire meglio di me dove sta la ragione?

A presto dalla Oracle!

 

 

 

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