Per la generazione che ha iniziato a seguire l’Nba nella prima metà del decennio scorso gli ultimi tre anni sono stati la fine di un’epoca con i ritiri di Kobe, KG, Tim Duncan e Paul Pierce. Rimarranno come unici testimoni illustri Vince Carter e Dirk Nowitzki ora che anche Manu Ginobili ha detto stop.

L’argentino infatti, prossimo a festeggiare il proprio quarantunesimo compleanno, pochi giorni fa ha dichiarato ufficialmente il suo ritiro dal basket giocato nonostante il contratto gli permettesse di disputare un’altra stagione ancora con la maglia neroargento dei San Antonio Spurs, la sola indossata nelle sedici stagioni oltreoceano.

Difficile dire se in tutti questi anni abbia dato più lui agli Spurs o viceversa, come è difficile sapere se in un altro contesto avrebbe potuto raggiungere ciò che ha raggiunto con la franchigia texana costruendosi negli anni lo status indiscusso di uno dei migliori international di sempre della lega.

Di certo la scelta di San Antonio, farina del sacco di Buford, di prenderlo con la 57° al draft del 1999 (subito dopo Melvin Levett, Kris Clack e Tim Young per dire) è stata una delle più colossali steal of the draft della storia della National Basketball League, determinante per il futuro della franchigia e di quel ragazzo che allora giocava per Reggio Calabria.

Dopo un’eccellente Summer League post draft e una serie di annate strepitose e vincenti in Italia, Ginobili ha saputo inserirsi gradualmente e con calma nel contesto cestistico a stelle e strisce, aiutato dalla sapiente gestione di coach Pop, il quale, e sembra assurdo dirlo oggi, ha faticato inizialmente a digerire l’anarchia e le giocate estemporanee dell’allora rookie argentino.

Dopo una prima stagione regolare interlocutoria, il figlio di Bahia Blanca ha saputo essere un utilissimo membro del supporting cast nelle finals del 2003 vinte contro gli allora New Jersey Nets di Kidd e Kenyon Martin, mentre solo due anni dopo era indiscusso protagonista dell’ultimo atto dei playoff.

Quella memorabile post season ha rappresentato il turning point della sua carriera. In quei playoff abbiamo visto probabilmente il miglior Ginobili di sempre, lì Manu è riuscito ad affermarsi ad un livello superiore e a guadagnarsi insieme a Parker i gradi di superstar.

I due europei con Tim Duncan erano oramai i Big Three e l’intera Nba aveva imparato a rispettarli come tali. E importa relativamente che il titolo di Mvp delle splendide finali contro Detroit che avrebbe ampiamente meritato sia andato invece a Duncan.

Negli anni successivi, anche quando era ormai venuta meno la chioma fluente che spiegava in aria quando andava su ad attaccare il ferro, Ginobili ha continuato insieme a coach Popovich e agli altri due cavalieri ad essere protagonista di una dinastia irripetibile fino al sorprendente titolo del 2014, contro gli Heat, vendicando la sconfitta devastante della stagione precedente.

A quel punto la transizione degli Spurs da squadra dei Big Three a franchigia sempre più imperniata su Kawhi Leonard era pressochè conclusa e l’argentino era prossimo ai trentasette, ma per amore e dipendenza per il basket e per gli Spurs, piuttosto che ritirarsi con l’anello al dito ha deciso di andare avanti ancora per quattro anni, nonostante per ovvie ragioni non fosse più il giocatore degli anni migliori.

E qui c’è poco da fare, la disputa tra le due scuole di pensiero, tra chi difende il principio che un campione debba ritirarsi quando è ancora tale e chi sostiene invece il contrario, è insanabile. L’unica cosa certa ed indiscutibile è l’affetto che tifosi è appassionati hanno avuto per il 20. Il pubblico americano lo ha sempre amato nonostante la sculacciata rifilata a Team Usa insieme ad Oberto (che sarebbe stato poi suo compagno anche a San Antonio), al “Chapu” Nocioni, a Luis Scola e agli altri membri dell’Albiceleste, la seconda pelle di Manu, ad Atene 2004.

Da quel debutto agghiacciante in Eurolega contro l’Aek, con 12 palle perse e i giudizi duri di chi lo riteneva un bluff, “El Narigòn” ne ha fatta di strada e il suo palmares lo testimonia: quattro titoli Nba, un’Eurolega, uno scudetto e due Coppe Italia e poi l’oro ad Atene e il bronzo alle Olimpiadi di Pechino quattro anni dopo.

Come spesso capita ai grandi, lascia un’eredità importante, degna di un vero innovatore, di uno che giocava un basket istintivo e cerebrale, ipertecnico, aggressivo, fatto di finte sorprendenti e passaggi immaginifici. Se il pick ‘n roll è parte integrante (oggi fin troppo) del gioco di qualsiasi franchigia Nba, se vediamo eseguire un eurostep, se oggi si da tanta fiducia ai prospetti europei in sede di draft, beh un po’ è anche merito suo.

Avendolo visto più volte fare le veci di Popovich durante i time out è facile immaginarlo in piedi a bordocampo, magari ad allenare proprio qui in Italia dove tutto ha avuto inizio, ciò che è certo è che fra qualche anno lo rivedremo a Springfield, quando il suo nome sarà iscritto nella Hall of Fame, dove merita di stare, insieme a quello degli altri grandi della palla a spicchi.

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