Il 25 Giugno sarà il giorno del secondo appuntamento con la serata dedicata agli NBA Awards, appuntamento introdotto l’anno scorso nel quale vengono consegnati i premi ai migliori giocatori della stagione appena conclusa. Le nomination sono ufficiali da qualche settimana, se non avete voglia di aspettare i vincitori ufficiali potete consolarvi con i premi assegnati dalla nostra redazione.

COACH OF THE YEAR

Nominations: Dwane Casey (Toronto Raptors) / Brad Stevens (Boston Celtics) / Quin Snyder (Utah Jazz)

Francesco Arrighi: Quin Snyder

La scelta d’assegnare i premi a stagione completata anziché a Playoffs appena iniziati, porta naturalmente ad includere nel computo della valutazione anche quel che succede ad aprile-giugno, magari invertendo le sensazioni trasmesse durante la Regular Season. È il caso di coach Dwane Casey, già nominato miglior allenatore dalla comunità dei coach NBA e giubilato come capro espiatorio in quel di Toronto. Alla luce dello 0-4 rimediato dai Raptors, risulta difficile ritenerlo il più bravo con la lavagnetta in mano, motivo per cui voto Quin Snyder, eterno sottovalutato che sa allenare attacco e difesa, coprendo magistralmente i limiti dei propri giocatori e magnificarne i pregi, anche ai Playoffs.

Andrea Cassini: Brad Stevens

Dobbiamo ignorare il misero tracollo dei Raptors nei playoff? Secondo chi scrive no, anche se la regular season dei Toronto Raptors è stata eccezionale sotto molti aspetti. Non è impresa da tutti i giorni rimodellare lo stile di gioco di una squadra senza alterarne il roster, come ha fatto coach Dwane Casey, ma ai miei occhi è più meritevole il lavoro di Quin Snyder, che ha perso Gordon Hayward e ha inserito ottimamente un giocatore difficile come Ricky Rubio, e soprattutto quello di Brad Stevens. I suoi colleghi, nelle votazioni interne alla categoria, non gli hanno conferito nemmeno un voto, ma probabilmente erano sotto l’effetto di un potente acido o credevano di vivere in un film di fantascienza. Roster rinnovato e gerarchie da rifare, infortuni gravi a tuoi due star player e rotazioni condizionate da altri infortuni minori (Morris, Smart, Theis, Brown), un rookie e un sophomore con in mano le chiavi della squadra. Con queste condizioni Brad Stevens è stato capace di far esplodere dal nulla Terry Rozier e riproporre ad altissimi livelli Al Horford, giungendo a una partita dalla conquista della Eastern Conference.

Giorgio Barbareschi: Brad Stevens

Sei alla guida di una formazione forte che però è molto giovane e completamente da ricostruire, visto che i reduci dell’annata precedente erano solo 4. Una delle tue due stelle si rompe dopo 30 secondi delle prima partita stagionale. L’altra stella da forfait poco prima dei playoff e il tuo leader diventa un rookie. Nonostante tutto porti la squadra ad una vittoria dalla finale NBA, fermato solo da una prestazione leggendaria di uno dei migliori giocatori della storia. Scusate, ma esattamente cos’altro serve per dare questo benedetto premio a Brad Stevens?

SIXTH MAN OF THE YEAR

Nominations: Lou Williams (Los Angeles Clippers) / Fred VanVleet (Toronto Raptors) / Eric Gordon (Houston Rockets)

Francesco Arrighi: Eric Gordon

L’interessante VanVleet di Toronto si inserisce un po’ a sorpresa nell’eterna contesa tra i due giocatori istant-offense degli ultimi anni, Gordon e Williams. L’anno scorso ritenevo meritasse un pochino di più Williams, perché capace di mantenere un alto rendimento in due situazioni quasi opposte, come Lakers e Rockets. Quest’anno invece vado convintamente con Eric Gordon, capace di interpretare al meglio (18 punti di media col 42% dal campo) il ruolo di “primo panchinaro” in una formazione ambiziosissima come Houston.

Andrea Cassini: Eric Gordon

Chi segue 7for7 saprà già della nostra simpatia per Fred VanVleet, che con quel cognome da passista fiammingo sembrerebbe trovarsi più a suo agio in sella a una bicicletta nella Liegi-Bastogne-Liegi e invece si è reso protagonista – a sorpresa – di una grande stagione coi Toronto Raptors. E’ stata proprio la panchina a risolvere tante partite per coach Casey, con VanVleet ad agire da trascinatore del gruppo. Le sue cifre, però, sono un po’ basse al confronto con Lou Williams (ma i suoi exploit di metà stagione contano fino a un certo punto, data la pochezza del contesto dei Clippers) e con Eric Gordon, lanciatissimo a confermare il trofeo del 2017 in qualità di bersaglio preferito degli assist di Harden e Paul, autentico punto di riferimento (lo si è visto anche nei playoff) dell’esplosivo attacco Rockets. Parte dalla panchina, è vero, ma Eric Gordon è a tutti gli effetti un titolare mascherato.

Giorgio Barbareschi: Eric Gordon

Back to back in arrivo per Eric Gordon, che ha ulteriormente dimostrato il proprio valore durante una serie finale della Western Conference nella quale è stato l’ultimo dei suoi ad arrendersi. Ok che il sistema di D’Antoni aiuta a tirar fuori numeri roboanti, ma è impossibile ignorare l’impatto che la guardia ex Hornets ha portato alla causa dei Rockets (sia in attacco che, insospettabilmente, in difesa). Note di merito anche per Lou Williams, quest’anno sembrato molto più sotto controllo rispetto al passato, e Fred VanVleet, leader di una second unit dei Raptors che è stata la migliore dell’intera NBA.

ROOKIE OF THE YEAR

Nominations: Ben Simmons (Philadelphia 76ers) / Donovan Mitchell (Utah Jazz) / Jayson Tatum (Boston Celtics)

Francesco Arrighi: Donovan Mitchell

Vale qui lo stesso discorso fatto per gli allenatori: la postseason di Tatum cambia radicalmente le prospettive rispetto alla stagione regolare; si è dimostrato più pronto e maturo rispetto all’australiano Ben Simmons, che pure aveva stupito per 81 partite di stagione regolare (e che probabilmente vincerà il ROY). Al netto di questi due giocatori, che ci terranno compagnia per tanti anni a venire, sarebbe bello venisse premiato il giocatore titolare della stagione migliore, ossia Donovan Mitchell. Anche Phila e Boston hanno vinto tanto, ma Mitchell ha vestito sin dal primo giorno i panni del giocatore franchigia, impressionando per maturità e classe.

Andrea Cassini: Ben Simmons

Dovessimo concentrare l’attenzione sui playoff, nella diatriba tra Donovan Mitchell e Ben Simmons (che ha assunto i toni ironici e un po’ grotteschi del dissing) a godere sarebbe il terzo, Jayson Tatum, graziato dalla benedizione di LeBron James in una serie di sette partite coi Cavaliers che è già un turning point della sua giovanissima carriera. Per quanto visto da ottobre a oggi, tuttavia, è giusto che il premio vada a Ben Simmons. Cifre da capogiro per un rookie, con una collezione di triple doppie già invidiabile, tanta personalità sul parquet e un raro talento da leader e assistman modellato a immagine e somiglianza di LeBron. Al di là delle prestazioni individuali, talvolta limitate da difese capaci di sfruttarne i difetti come quella dei Celtics, Simmons è stato il principale responsabile dell’impennata nel livello di gioco e nel record dei Sixers, finalizzata col brillantissimo ultimo mese di stagione regolare. Donovan Mitchell, similmente, è stato il catalizzatore dei sorprendenti successi dei Jazz, ma in tono leggermente minore rispetto al collega.

Giorgio Barbareschi: Donovan Mitchell

Per una volta premio stagionale diventa talmente combattuto da scatenare vere e proprie baruffe tra gli appassionati. Se mai c’è stata una stagione in cui un triplice ex-aequo sarebbe stato legittimo è stata questa: Simmons ha dimostrato un impatto lebronesco su un gruppo carico di hype come quello dei Sixers, Tatum ha guidato i Celtics fin quasi fino al ballo finale con il piglio di un veteranissimo e Mitchell ha fatto poco meno con i suoi Jazz, chiudendo la stagione oltre i 20 di media. Se bisogna per forza sceglierne uno allora vado con #spidamitchell, non foss’altro per il fatto che se gli altri due sono stati scelti alla 1 e alla 3 dei rispettivi draft significa che erano giocatori attesi ad un certo livello (anche se non così alto), mentre Mitchell alla 13 rischia di passare alla storia come una delle più grandi steals nella storia recente della NBA.

MOST IMPROVED PLAYER

Nominations: Victor Oladipo (Indiana Pacers) / Clint Capela (Houston Rockets) / Spencer Dinwiddie (Brooklyn Nets)

Francesco Arrighi: Victor Oladipo

Tutti premi sono opinabili, ma il MIP lo è di più, perché come si misurano i miglioramenti? In senso statistico? In termini di impatto (auguri a chi vuole misurarlo)? Se un giocatore da 15 minuti di media si trova all’improvviso titolare, è “migliorato”, o ha semplicemente trovato spazio? Capela, Dinwiddie e Oladipo sono tutti eccellenti candidati; Dinwiddie ha semplicemente trovato un proprio spazio a Brooklyn però, Capela è un giovane di prospettiva, e non stupisce sia migliorato, mentre Victor Oladipo era stato bollato come un gregario di lusso (e nemmeno tanto di lusso, per la verità) motivo per cui la sua esplosione ad Indianapolis ha sorpreso tantissimi addetti ai lavori. Chi sia più migliorato non lo sappiamo, ma quello che ha aumentato maggiormente il proprio impatto, anche in rapporto al contesto, è la guardia da Silver Spring, Maryland.

Andrea Cassini: Victor Oladipo

Victor Oladipo mi sembra una scommessa sicura. Due anni fa i Magic lo scaricavano con poche cerimonie: in breve tempo la sua reputazione era passata da giocatore più promettente di una draft class poco felice a specialista difensivo con poca comprensione del gioco. L’anno scorso, ai Thunder, la responsabilità di “sostituire” Kevin Durant oscurata dalla stagione da asso pigliatutto di Russell Westbrook, ma forse, proprio da Westbrook Oladipo ha appreso quale doveva essere il suo atteggiamento in campo. Appena atterrato a Indianapolis, Oladipo prende possesso dei Pacers. In campo è accentratore, ma con criterio, grande sicurezza e ancora maggiore aggressività. Un gioco totale, alla maniera delle migliori guardie della lega, e dal nulla Oladipo s’inventa pure solista in attacco. Dinwiddie e Capela non sono sullo stesso pianeta; per quanto fuori dal terzetto dei nominati, spenderei un pensiero anche per i miglioramenti di Jaylen Brown e Terry Rozier in casa Celtics, nonché per quelli di Ricky Rubio nei Jazz – anche se poco evidenti dalle cifre.

Giorgio Barbareschi: Victor Oladipo

Come sempre il premio più complesso da assegnare. Dico Oladipo perchè dopo la delusione dell’annata ai Thunder non avrei scommesso un dollaro su una stagione come quella disputata dalla guardia dei Pacers. 23.1 punti, 5.2 rimbalzi e 4.3 assist sono numeri di assoluta eccellenza, ma ancora non rendono l’idea dell’impatto che Oladipo ha avuto su una franchigia come Indiana, che dopo la partenza di Paul George sembrava essere avviata ad anni di mediocrità e invece ha impegnato LeBron James e compagni (vabbè, facciamo LeBron James e basta) fino a Gara 7. Piazza d’onore per Dinwiddie, che fino all’anno scorso faceva fatica a stare in campo mentre quest’anno ha stupito tutti per maturità e cojones.

DEFENSIVE PLAYER OF THE YEAR

Nominations: Joel Embiid (Philadelphia 76ers) / Rudy Gobert (Utah Jazz) / Anthony Davis (New Orleans Pelicans)

Francesco Arrighi: Anthony Davis

Da sempre appannaggio dei lunghi, il DPY torna alle proprie radici, in contumacia-Leonard; tre candidati tutti centri, uno dei quali forse prematuramente incluso nella lista (Embiid) quando ci sarebbero giocatori come Iguodala o Chris Paul meritevoli di considerazione. Tant’è, dei tre nomi indicati dall’NBA, quello più convincente (non solo e non tanto per rimbalzi e stoppate) è Anthony Davis, capace di condizionare gli attacchi avversari anche più di Gobert (che non è un atleta dello stesso livello, e forse anche per questo da l’impressione di capire meno rapidamente cosa avviene in campo).

Andrea Cassini: Rudy Gobert

Non trovo un netto favorito per questo trofeo, motivo per cui il DPOY potrebbe essere speso come “contentino” per un giocatore snobbato su altri riconoscimenti oppure come premio alla stagione di una franchigia. La candidatura di Embiid non mi sembra la più convincente; il camerunense ha dovuto limitare la sua energia sotto canestro per tenere sotto controllo gli infortuni e gioca ora con più malizia, sfruttando la posizione, e insistendo di più sull’attacco e sulla difesa di squadra. Anthony Davis e Rudy Gobert sono due protettori del canestro superiori. Andrei con il secondo, che è un vero specialista del settore, e la difesa di Utah ha fatto tutta la differenza del mondo in una stagione che si è spinta fino alle semifinali di conference. Per Davis, che ha diviso per molti mesi parte del merito con Demarcus Cousins, ci sarà tempo per rifarsi.

Giorgio Barbareschi: Rudy Gobert

Lasciate stare le statistiche relative a rimbalzi e stoppate, totalmente fuorvianti ma spesso impropriamente utilizzati come metro di giudizio per assegnare questo premio (cfr. i tre DPOY consecutivi assegnati a Dwight Howard). Se volete dei numeri davvero contingenti guardate questi.
– Utah’s Defense When Gobert is ON the Floor: DefRtg 97.7 – Opp eFG% 49.0 – Opp OReb% 19.6
– Utah’s Defense When Gobert is OFF the Floor: DefRtg 105.0 – Opp eFG% 52.1 – Opp OReb% 20.7
Gobert è il segreto di Pulcinella (oltre a Quin Snyder) che sta dietro alla grande stagione dei Jazz ed è ora di riconoscergliene il merito.

MOST VALUABLE PLAYER

Nominations: Anthony Davis (New Orleans Pelicans) / James Harden (Houston Rockets) / LeBron James (Cleveland Cavaliers)

Francesco Arrighi: Anthony Davis

La scelta “ufficiale” cadrà ragionevolmente sul Barba, e ci mancherebbe, perché è stato l’uomo copertina di questa splendida cavalcata dei Rockets; lo spirito del premio è questo, anche se, a complicare l’assunto, ragionando sul giocatore tatticamente più “valuable” di Houston è difficile non pensare a Chris Paul. Se insomma teniamo presente ambedue le metà campo di gioco, il candidato che più di tutti ha elevato il rendimento dei compagni è stato forse il silenzioso Anthony Davis, oltretutto abilissimo a non pestare i piedi di DeMarcus Cousins.

Andrea Cassini: James Harden

James Harden è in credito di un MVP. Quello del 2017 doveva andare a Westbrook e al suo record di triple doppie, ma il Barba fu un escluso di lusso, motivo per cui il premio di quest’anno non può scappargli. Ha ripetuto cifre simili alla stagione precedente con migliori risultati di squadra e un’intesa, non facile, azzeccata da subito con Chris Paul. Si potrà obiettare che il suo impatto sulla squadra è diminuito, ora che ha la fortuna di spartirsi le responsabilità con CP3, ma a questo dubbio risponde il record totalizzato dai Rockets, il migliore della lega. In questo gioco delle sedie, ora è LeBron James a ritrovarsi scippato di un MVP che, verosimilmente e posto che gli interessi l’ennesimo pezzo di hardware inviduale da aggiungere in bacheca, gli verrà restituito alla prima finestra utile nella sua carriera. La stagione 2018 di James è stata qualcosa di difficilmente inscrivibile in una categoria.

Giorgio Barbareschi: James Harden

L’anno scorso il titolo di MVP di Russell Westbrook era stato assegnato a furor di popolo dopo la prima tripla doppia di media dai tempi di Oscar Robertson. Quest’anno un’altra tripla doppia di merdia non basta nemmeno per finire in nomination. Motivo? Le regular season (in un caso non solo quella) straordinarie messe in fila dai tre candidati per il premio 2017/18. Anthony Davis ha retto sulle sue spalle un’intera franchigia dopo l’infortunio a DMC, portandola fino al secondo turno dei playoff contro ogni previsione di esperti e non. Su LeBron James mi rifiuto di spendere troppe parole: se dopo questa stagione (e questi playoff) in giro ci sono ancora degli hater, allora questi hater si meritano di finire in un girone infernale ad assistere in loop a partite 1vs1 tra J.R. Smith e Nick Young da qui all’eternità. Harden sarà però l’MVP di quest’anno: come ha ricordato Andrea, il Barba è “in credito” dall’anno scorso e ha ulteriormente alzato il suo livello di gioco, conducendo i Rockets a 65 vittorie stagionali (record di franchigia) e, featuring Chris Paul, ad una sola gara di distanza da detronizzare l’invicibile armata dei Warriors. 

BONUS TRACK – EXECUTIVE OF THE YEAR

Francesco Arrighi: Danny Ainge

Ci sono davvero tante candidature tutte meritevoli di considerazione, da Kevin Pritchard dei Pacers a Dennis Lindsey dei Jazz, ma Danny Ainge è probabilmente il migliore della pista, e il suo 2017-18 è da incorniciare: ha ottenuto Kyrie Irving in cambio di una contropartita modesta, ha fatto trade-down turlupinando i Sixiers e portando a Boston una futura superstar come Jayson Tatum, e se non basta, è riuscito a portare in Massachusetts lo sfortunato Gordon Hayward. Ainge ha conservato in tutto appena 4 giocatori dalla scorsa stagione, trasformando i Celtics in una formazione più forte nell’immediato e più futuribile nel lungo periodo. Se gli infortuni non avessero falcidiato la squadra, forse Boston sarebbe andata ancor più lontano nei Playoffs.

Andrea Cassini: Danny Ainge

Se, come suggeriscono alcuni, la corsa per l’MVP è in realtà una gara per chi si piazza secondo alle spalle di LeBron James, allo stesso modo il premio di Executive of the Year dovrebbe aggiungere la postilla: “miglior dirigente che non si chiami Danny Ainge”. I risultati di Pacers e Jazz non sono assolutamente da sottovalutare, costruiti con una gestione oculata e senza i favori del pronostico, così come i giusti meriti vanno dati a Daryl Morey per l’affare che ha portato Chris Paul a Houston: il 2018 però è l’anno in cui Boston inizia a pensare in grande e raccoglie quanto seminato da Ainge nelle ultime offseason. Nell’estate poi, le tre firme sul capolavoro: l’acquisto di Gordon Hayward dai free agent, la trade per Kyrie Irving (un furto con scasso) e quella per Jayson Tatum (una rapina a mano armata). Detto questo, consideriamo che i Celtics hanno ancora spazio salariale e pezzi da scambio, tra scelte al draft e contratti, per mettere le mani su un altro big. Delitto perfetto?

Barbareschi Giorgio: Daryl Morey

Mi sono reso conto che fino a qui ho sono stato un po’ troppo d’accordo con i miei colleghi, quindi stavolta vado controcorrente. Per me il premio lo meriterebbe Daryl Morey, perchè con l’arrivo di Chris Paul ha costruito la squadra che più di tutte è stata in grado di mettere alle corde la dinastia degli Warriors. E non solo negli uomini del roster, ma anche nel sistema di gioco grazie alle strategie matematiche che ne sono alla base. Vero pionere della sabermetrica applicata al basket, Morey è un vero genio che prima o poi meriterebbe di poter mettere nel palmares un titolo NBA.

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