Per chiudere definitivamente i rapporti con la recentemente terminata stagione Nba, a Houston non resta che l’azione di raccolta dei cocci di una gara 7 ancora dolorosa se rapportata al suo ipotetico significato per la franchigia e per la città in caso di affermazione sul nemico giurato. Oggi, mentre i Golden State Warriors si godono la terza parata cittadina degli ultimi quattro anni a seguito della nuova delusione recapitata ai LeBroners, la sensazione di amarezza non può che aumentare la sua portata, in particolar modo analizzando svolgimento e conclusione di una serie finale sostanzialmente direzionata in senso univoco, confermando l’evidente gap persistente tra i padroni/predoni dell’attualità Nba ed i comunque onorevoli Cavaliers.

Impossibile non leggere i Warriors come i Bulls di quest’epoca (con un Kerr in comune, peraltro), un agglomerato di mostri già semi-imbattibile prima della letale aggiunta di un Kevin Durant nel pieno della sua maturazione cestistica, non bastasse la già notevole esposizione di merce che la squadra di Oakland poteva già esibire durante gli ottantadue mercatini girati tra fine ottobre e metà aprile, più tutti i consueti appuntamenti tra maggio e giugno.

Il mortifero 4-0 che ha schiacciato per l’ennesima volta LBJ ed il resto della sua compagnia improvvisata in quel di febbraio ha sancito l’ennesima mancata opposizione a questi grandi talenti talenti offensivi e difensivi, un’impresa che Houston ha rischiato invece di compiere molto più da vicino rispetto a tutte le altre componenti della Lega, Cavs compresi.

E’ esattamente da qui che deve ripartire la costruzione della prossima edizione dei Rockets, dalla consapevolezza delle proprie possibilità con l’obiettivo fermo alla riproduzione – o al miglioramento – dei bilanci ottenuti durante una cavalcata che ha aumentato a dismisura il battito cardiaco cittadino per la prima volta in più di vent’anni, ricordando la doppia corsa all’oro consecutiva firmata dall’eleganza tecnica di Hakeem Olajuwon in un’epoca dove il centro dominante faceva ancora la differenza, e contraddistinta dal ritorno nella confraternita houstoniana di Clyde Drexler, dalla puntualità di Horry, Smith, Elie e Cassell quando la palla scottava sul serio, dalla pazzia di Vernon Maxwell e dalla solidità sotto i tabelloni di Otis Thorpe.

’94 e ’95, due numeri magici sotto i quali la Choke City, quella che mancava sempre agli appuntamenti più importanti tanto nel basket quanto nel football Nfl, andava a trasformarsi nel cigno chiamato Clutch City, un apice che non sarebbe più stato raggiunto né in occasione prima incarnazione dei big three (Olajuwon, Drexler, Barkley), né durante la rapida apparizione di uno Scottie Pippen ceduto ai Blazers dopo un campionato non soddisfacente per entrambe le parti, tanto meno dopo la demolizione delle aspettative causata dalle numerose tegole cadute sui fisici di T-Mac e di quella che si supponeva divenisse la dinastia Ming.

Impossibile, per chi ha riservato a tempo debito un posto nella propria anima a Rudy Tomjanovic ed al suo sottostimato cuore di campione, rimanere insensibili davanti alle 65 vittorie di regular season, primo bilancio in assoluto per il campionato appena trascorso e soprattutto il migliore mai scritto nella storia della franchigia originariamente fondata a San Diego, record che aveva consentito – grazie ai numerosi infortuni occorsi ai Warriors, va detto – di accaparrarsi il seed numero uno ad Ovest, già un primo passo significativo nel tentare di contrastare Steph e soci, nonché nel puntellare una maturazione al successo cominciata dal precedente raggiungimento delle Conference Finals del 2015, certamente molto più casuale rispetto a quanto accaduto quest’anno, ma in ogni caso utile per cominciare a far annusare a Harden e compagni le tensioni della posta che si alza esponenzialmente, qualcosa che a Houston non accadeva da ben 18 anni.

L’ennesima operazione/ossessione di Daryl Morey nella rincorsa dello status di anti-Golden State, l’acquisizione di un franchise player seppur avanti con l’età cestistica come CP3, è andata esattamente come da progetto fino all’infortunio del medesimo, affiancando a quella meravigliosa macchina da regular season chiamata Barba un vero leader naturale centrando completamente la progressione programmata sulla carta, abbinando i pezzi grossi ad un gruppo capace di praticare con piena efficienza la filosofia offensiva di Mike D’Antoni aggiungendovi quel pizzico di difesa in più durante la postseason, per evidenti meriti del rim-protector Clint Capela, del sempre pronto al sacrifico Trevor Ariza, e del mastino P.J. Tucker.

Chris Paul, a conti fatti, ha effettivamente apportato alla squadra quell’esperienza e quel carattere degni di una squadra campione seppure egli stesso il titolo lo abbia solo sognato finora, peraltro togliendosi un peso che lo vedeva ancora vergine in carriera nel calpestare il territorio della finale di Conference. E’ stato lui a legittimare le aspirazioni dei Rockets, giocando eroicamente fino al disgraziato momento dell’ennesimo personale infortunio di postseason, duellando mostrando notevoli attributi sotto quintali di pressione, mettendo al sicuro Harden dal dover rispondere in prima persona a situazioni a lui caratterialmente non congeniali.

Con i Warriors sopra nella serie per 2-1 sembrava fatta, era praticamente certo che i Monstars avevano brutalmente riportato a loro il picco della forma dopo aver assorbito gli acciacchi delle loro superstar, ma è stato proprio il floor general con il numero 3, senza per questo dimenticare gli strepitosi momenti difensivi prodotti da Tucker, Ariza e Capela, l’importanza delle giocate offensive di Harden e Gordon, a produrre giocate sul filo del rasoio nelle successive gare 3 e 4, creando i presupposti non solo per un’inattesa sopravvivenza ma pure per un clamoroso vantaggio nella serie, mostrando al mondo che la bestia poteva essere rinchiusa in gabbia e restare lì, inoffensiva, almeno fino al prossimo autunno, e che la numericamente spettacolare regular season dei Rockets poteva effettivamente avere un senso anche nel momento della verità.

Per questo l’arrendevolezza dei Cavs nel secondo tempo di gara 4 provoca forse ancor più dolori sportivi del ricordo stesso di quella gara 7 al Toyota Center, rimasta lì, in qualche modo sospesa nel tempo a dettare un punto comunque importante nella storia della franchigia texana macchiando l’eccellente primo tempo con tutte quelle triple a vuoto, un punto dal quale Daryl Morey dovrà far ripartire le sue tradizionali magie ginniche nella flessione dello spazio salariale a disposizione, passando nuove notti insonni incastrando le mosse per il nuovo tentativo di sorpasso del bolide targato San Francisco in un’estate che verrà irrimediabilmente dominata da ogni micro-movimento effettuato da Sua Maestà, che Houston pare addirittura già averla snobbata.

Morey cercherà soprattutto di mantenere semi-intatto il nucleo portante della squadra, un’operazione tutt’altro che agevole considerando la free agency di Paul e Ariza, nonché la necessità di arricchire le casse del restricted free agent Clint Capela, un giocatore che ha mostrato enormi progressi tecnici ed atleta sopraffino, che deve obbligatoriamente rientrare nei piani a lungo termine della franchigia per l’intimidazione che può dare sotto i tabelloni e per tutte le giocate atletiche che ha dimostrato di poter realizzare, un ragazzo al servizio dei compagni che dà tutto quello che ha senza chiedere in cambio lo straccio di uno schema offensivo chiamato appositamente per lui.

Il quadro è assai complesso. L’operazione-Paul è stata condotta con approccio aggressivo sperando di spremere un titolo dalla situazione già quest’anno, senza preoccuparsi nell’immediato del suo contratto in scadenza e del fatto che, come già dichiarato dal giocatore, non saranno previsti sconti rispetto a quanto dovuto.

C’è da corteggiare qualcuno per cercare di far fuori il contrattone di Ryan Anderson, e liberare fondamentali risorse monetarie. Ariza potrebbe essere attratto dalle sirene di Golden State, per la quale sarebbe di determinante importanza per allungare la rotazione portando difesa, soluzioni da oltre l’arco, ed esperienza ad altissimi livelli. Semmai si dovesse arrivare a James lo si dovrebbe fare con un sign & trade che potrebbe comportare grossi sacrifici, perché per indorare la pillola-Anderson sarebbe obbligatorio legarci pure Eric Gordon.

Le primissime indicazioni di questa tarda primavera danno Morey quasi certamente pronto a tornare alla carica con un obiettivo già perseguito un anno fa e più realistico di LBJ, quel Paul George cui sarebbe possibile giungere facendogli attivare la player option per il prossimo anno ed orchestrando un sign & trade del tutto simile all’operazione CP3 allestita con i Clippers l’anno passato.

Si parla insistentemente anche di DeAndre Jordan, che vorrebbe giocare nella sua Houston e sarebbe molto interessante per la rotazione portando nel Texas ricordi della Lob City e fornendo ulteriore protezione a canestro.

I Rockets hanno dimostrato di poter competere con i Warriors ad armi pari, di essere l’antidoto più vicino alla dinastia, ma si sono fatti cadere a terra la boccetta proprio quando non ci voleva, lasciando che il parquet del Toyota Center ne divorasse i positivi effetti. Non sapremo mai come sarebbe andata gara 7 con Chris Paul in campo, ma in caso di accesso alle Finals lo scontro con i Cavs, seppure con un LeBron in formato Hall Of Fame, sarebbe quantomeno risultato fattibile.

Così, l’estate passerà coltivando nuovi sogni, nella speranza di scacciare quella nottata texana andata ancora una volta a sancire la grandezza dei pistoleri della Baia, nella speranza che, tra un anno esatto, le mosse di Morey possano riuscire a spostare la pioggia di confetti nella Downtown di Houston, rispolverando i vecchi camion dei pompieri utilizzati per le parate di metà anni novanta, quando The Glyde conobbe per la prima ed unica volta quel sapore dolce e particolare, ed Hakeem, presente ad ogni gara di playoff di questa stagione in veste di ambasciatore, godeva del suo momento di maggior notorietà mondiale.

La Clutch City attende quell’esplosione di gioia da tanto, ed ora, dopo aver toccato il cielo con un dito, la voglia di coccolare di nuovo il massimo trofeo del basket professionistico e riprovare quelle sensazioni è semplicemente troppa per essere facilmente sopita.

Poteva essere ma non è stato. Forse, un domani, potrà essere ancora.

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