A dispetto del punteggio finale e dell’andamento, con Cleveland sempre in vantaggio e la vittoria quasi mai in discussione, gara 4 alla Quicken Loans Arena non è una semplice scossa di assestamento dopo il terremoto che ha sconquassato i Celtics nella partita precedente: è un microcosmo con tante storie da raccontare.

Di una, quella di LeBron James, conosciamo già premessa, svolgimento e finale – eppure non per questo è meno avvincente, segno che la qualità dell’esecuzione è spesso più importante del plot twist. Per rimanere in ambito narrativo, ammetto candidamente che ogni volta che lo vedo giocare cado in una sorta di sindrome di Stendhal, non tanto per la pulizia delle giocate (anche se il jumper in fade away perfezionato di recente sta toccando picchi altissimi) quanto per il controllo che esercita sulla partita. L’ennesima serata da 44 punti, col 60% al tiro, non fa quasi più notizia, e quelle dichiarazioni dopo gara 1 e 2, che sembravano esibizioni di spacconeria (“stiamo studiando l’avversario”) acquistano sempre più senso per come i Cavs hanno riorganizzato l’approccio tattico intorno al proprio leader. Aggiorniamo la lista dei suoi record ai playoff: dopo gara 4 LeBron è primo per punti segnati e per canestri realizzati (superato Kareem), nonché per minuti giocati e palle rubate. E’ terzo negli assist, settimo nei rimbalzi, sedicesimo nelle stoppate. Mica male per un giocatore che qualcuno ha definito “un Iguodala a cui non fischiano i passi” (sic).

L’altra grande linea narrativa, comune alle due partite giocate a Cleveland, è quella del supporting cast dei Cavs che, come motivato da un JR Smith particolarmente improduttivo al Garden, doveva fare un passo avanti e aiutare il Re. Missione compiuta, sia grazie a un maggiore impegno dei singoli (Cleveland è squadra singolarmente schizofrenica, che perde e riguadagna fiducia in un attimo) che a rotazioni ridisegnate e compiti assegnati all’uomo giusto. L’avevamo già apprezzato nelle partite finali della serie coi Pacers: le figure chiave nella rosa di questi Cavs sono George Hill e Tristan Thompson. Quando il primo riesce a giocare 38 minuti di ordine e qualità, come stanotte – 13 punti col 6-9 dal campo – Cleveland guadagna un playmaker aggiuntivo e un difensore efficace su Terry Rozier, che a parte qualche fiammata (16+11 stanotte) non sta disputando la sua serie migliore. Il copioso impiego di Double T, 38 minuti anche per lui con un nobilissimo 13+12, è fondamentale per contrastare Al Horford e rallentare sul nascere l’iniziativa dei Celtics, grazie alla sua iperattività a rimbalzo d’attacco. LeBron sa bene come funziona la faccenda. Tristan Thompson è tornato uno dei suoi bersagli preferiti nel pick ‘n roll, se servito con continuità (talvolta anche in situazioni di alto-basso) i suoi tagli creano spazi per lo stesso LeBron e per i tiratori sul perimetro. Il risultato è che Horford non spadroneggia più nel pitturato e Brad Stevens deve ricorrere all’aiuto di Baynes alterando il suo quintetto da corsa.

Dicevamo: fiducia. Quando i Cavs cambiano marcia le cose vanno per il verso giusto e i dubbi si dileguano. Le disattenzioni difensive sono in netto calo, i cambi più puntuali, la comunicazione vocale è precisa. Prendiamo Kyle Korver, che segna 14 punti con un ottimo ruolino al tiro e si sporca le mani in difesa collezionando tre stoppate su altrettante incursioni 1 vs 1 di Jaylen Brown. JR Smith continua a tirare senza paura nonostante i pessimi presagi del Garden, e subito torna a orbitare intorno al 50% dall’arco. Ma il case study migliore è forse Kevin Love. E’ una serie severissima per lui, con coach Stevens che lo prende spesso di mira sul pick ‘n roll per sfruttarne i limiti difensivi, senza contare che Boston dispone di una gamma di ali fisiche – come Brown – capaci di contenerlo in post (solo 2-8 da due punti) per poi batterlo in velocità. Nonostante questo, LeBron e Lue lo chiamano spesso all’azione quando Love è in campo, e lui risponde con una prova di grande sacrificio. Spesso è in ritardo, ma prova sempre la rotazione dal lato debole, poi lotta a rimbalzo e impensierisce la difesa Celtics col tiro da tre.

Per Boston, nonostante la sconfitta gara 4 rappresenta una prova di maturità sotto mentite spoglie. Vista la partenza lampo di Cleveland, che veleggia verso i 20 punti di vantaggio, aver ricucito lo strappo fino al -7 e aver contenuto il gap fino al -9 alla sirena significa aver compiuto un passo avanti rispetto alla Caporetto di gara 3. Non sono questi i migliori Celtics, già abbiamo notato come lontano dal Garden la qualità del gioco cali drasticamente: Horford meno coinvolto, Rozier meno aggressivo, troppe iniziative personali di Brown e Morris col pallone che rimane fermo. Eppure, nonostante le pessime premesse Brown e Jayson Tatum guidano il tentativo di rimonta e alla sirena totalizzano 25 e 17 punti: per Stevens c’è veramente poco di cui preoccuparsi, quando i tuoi giocatori più giovani mostrano tali doti di leadership sotto pressione. Paradossalmente, sono i motivi tattici – quelli in cui l’ex coach di Butler è il secchione della classe – che dovrebbero tenerlo sveglio la notte. Nelle partite al Garden la difesa dei Celtics svolgeva un lavoro egregio negli switch, impostando una formazione “a maglie larghe” che approfittava della lentezza in fase di regia dei Cavs e negava i mismatch anticipando i cambi. Un Rozier lasciato in single coverage su James, ad esempio, tornava subito sul proprio uomo grazie al tempestivo aiuto di Horford che eseguiva uno show nei paraggi. In gara 4, invece, James ha vivisezionato la difesa dei Celtics sfruttando a proprio vantaggio la tendenza al cambio automatico sui blocchi e comandando i mismatch a proprio piacimento – spesso proprio su Rozier. Come ci è riuscito? Prima di tutto velocizzando l’azione, mentre Lue proponeva a Stevens quintetti più pericolosi e attivi sui tagli in modo da punire quel cuscinetto lasciato dai Celtics, con una zingarata di Thompson al ferro o un extra pass sul perimetro – dove adesso c’è molto più spazio per far girare la palla. La risposta di Boston è arrivata in ritardo, e non è stata sufficiente. Stringere le maglie della difesa intorno al supporting cast è utile per limitare LeBron a soli 3 assist, ma serve a poco se né Brown, né Smart né tantomeno Marcus Morris riescono a contenerlo nell’1 vs 1.

Questo per quanto riguarda gli incroci scacchistici disegnati sul parquet, ma alla viglia un sempre interessante Jaylen Brown postulava come, in questa serie, il 90% di ciò che accade si decida a livello mentale. Sarà importante quindi vedere quanta inerzia i Cavs si porteranno con loro in Massachussets, tra due giorni, e quanto audace sarà la risposta dei Celtics tra le mura amiche. Per superare i limiti di un roster vessato dagli infortuni è stato necessario un surplus di energia, evidentissimo in gara 1: con quattro sfide sulle gambe, e affrontare i Cavs non è mai una passeggiata, serve un’altra spinta per dimenticare l’acido lattico – sia nei muscoli che nel cervello.

2 thoughts on “Eastern Conference Finals: il recap di gara 4

  1. Eeeeh … questa sicuramente più equilibrata con una differenza… diversi momenti del match di Cleveland sono girati bene grazie a conclusioni da tre in piena “fortuna” eseguite dai comprimari… direi che sono due squadre che in casa si esprimono molto meglio che in trasferta!

  2. Re delle statistiche, Lebbros James.
    Intanto è match-point Boston.
    E se è per quello non gli fischiano nemmeno gli sfondamenti.
    La regola dei passi l’han cambiata apposta per lui, tra parentesi…

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