Non occorre essere particolarmente addentro alle vicende NBA per notare i problemi arbitrali della lega più bella del mondo: le rimostranze degli atleti nei confronti delle “zebre” sono infatti tali e tanto insistenti, da risultare lampanti anche al più distratto e inesperto degli spettatori.

Da sempre sensibilissima alla propria immagine, la NBA ha provato a rimediare richiamando arbitri e giocatori al buon senso; sentendosi abbandonati al loro destino, i fischietti (per mezzo della NBRA) hanno ritenuto opportuno organizzare un incontro chiarificatore con l’Associazione Giocatori durante la pausa per l’All-Star Game.

Il 17 febbraio le delegazioni di NBPA (Andre Iguodala e Spencer Dinwiddie) e NBRA (tra gli altri, Brian Forte) si sono incontrate in un hotel di downtown Los Angeles, producendo l’ennesimo manifesto programmatico di buone intenzioni sul cui esito sarà il tempo a dare delle risposte.

In fondo, persino il piĂą significativo convegno politico dopo Yalta –l’incontro faccia a faccia a ReykjavĂ­k tra Reagan e GorbaÄŤĂ«v– venne inizialmente derubricato come un mezzo fallimento dalla stampa mondiale, che giudicò l’evento sulla base delle carte, ma nulla sapeva dell’incontro tra i due uomini.

Nel nostro caso, la posta in gioco era decisamente meno impegnativa, motivo in piĂą per pensare (sperare?) che sedersi attorno ad un tavolo e ragionare della faccenda con serenitĂ , sia stato il primo passo per una felice soluzione di un problema da non sottovalutare.

La progressiva erosione del rapporto fiduciario arbitri-giocatori è testimoniata da scontri aspri, culminati con il testa a testa (letteralmente) tra Shaun Livingston e il fischietto Courtney Kirkland, protagonisti di un duello rusticano che offre la misura della tensione tra players e referees.

Richiesto di un’opinione sugli arbitri, Damian Lillard ha affermato che “Ci dimentichiamo che non sono robot in maglia a strisce; sono persone anche loro, e dovremmo capire che se qualche giocatore va da loro urlando ogni tre azioni, potranno reagire, ciascuno a modo proprio”. Parole di buon senso che però si perdono tra le continue lamentele dei giocatori anche per fischi corretti, o perlomeno legittimi.

Jeff Van Gundy rimarca spesso nelle proprie ottime telecronache l’atteggiamento isterico (spesso ingiustificato) tenuto da molti giocatori in circostanze che un tempo li avrebbero visti alzare il braccio per accusarsi del fallo (perorando semmai la propria causa con più discrezione).

Quella era una NBA più matura, con tanti giocatori formati da quattro anni di college e passati per un rigido apprendistato durante l’anno da rookie, quando si imparava a rispettare l’arbitro, pena, essere presi di mira ad ogni occasione. Può non piacere, ma era un contesto chiaro; chi sapeva tenere la lingua a freno, come Manu Ginobili, in pochi mesi si guadagnava i galloni e la relativa credibilità, gli altri (come Rasheed Wallace o Isaiah Rider) in caso di dubbio si vedevano fischiare contro.

Crollato questo sistema, la NBA (allora guidata da Stern) provò a limitare la montante sfrontatezza dei giocatori con un brusco giro di vite, consentendo solo una prima reazione al colpevole del fallo. In realtà la regola è applicata in ordine sparso, tanto che LeBron James continua imperterrito a urlare agli arbitri senza pagare il dazio del fallo tecnico (l’anno scorso 4 in 74 partite) e ha dovuto sbroccare completamente per guadagnarsi la prima espulsione in carriera.

I giocatori protestano troppo ma al contempo la qualità degli arbitraggi è andata scemando rispetto a quando la competenza di Danny Crawford o Monty McCutchen comandava deferenza e calmava i facinorosi, consapevoli d’avere dinnanzi autentiche enciclopedie ambulanti delle regole del Gioco oltre che persone dotate di naturale carisma e ineffabile buonsenso.

Viceversa Lauren Holtkamp fa dell’indisponenza la propria cifra stilistica e persino veterani come Ken Mauer e Tony Brothers non brillano per polso e precisione. I giocatori potrebbero risparmiarsi molte delle loro scenate, certo; parte del loro nervosismo va però attribuito ad un livello arbitrale scadente, e in questo senso, tacitare le proteste è un’operazione di cosmesi che nasconde le magagne senza intervenire alla radice del problema.

L’NBA (nella persona dell’ex supervisore Bob Delaney) ha dormito sugli allori, facendosi trovare impreparata ad un cambio generazionale che, come tale, era largamente preventivabile. La scelta di togliere McCutchen dal parquet per affidargli la guida del gruppo arbitrale è una soluzione di lungo termine, ma nel frattempo una generazione di arbitri formata approssimativamente è stata data in pasto ad una lega che non ha pietà per l’impreparazione.

Non avendo piĂą di fronte Steve Javie o Dick Bavetta (dialoganti ma capacissimi di spedire anzitempo sotto la doccia chi proferiva una parola di troppo) i giocatori hanno iniziato ad approfittarsene sfacciatamente, sgranando gli occhi per qualsiasi chiamata e salendo di livello quando i famigerati tecnici per comportamenti dimostrativi stentavano ad arrivare.

Allo stesso tempo, i giovani arbitri si sono resi conto che dalla Olympic Tower facevano spallucce anche di fronte alle contumelie messe nero su bianco nei report, sentendosi invitare per tutta risposta a gestire la situazione “sul campo”, quando, palesemente, sarebbe stata necessaria una regia terza e autorevole (alla David Stern) che però non sembra nelle corde del conciliante Adam Silver.

Quest’ultimo ha dichiarato che “abbiamo controllato i dati che abbiamo raccolto nel corso degli anni, e non è aumentato il numero delle espulsioni, e tantomeno quello dei falli tecnici” ma Silver è troppo intelligente per non sapere che le continue proteste avrebbero giustificato un’impennata nel numero di tecnici ed espulsioni!

Gli arbitri hanno provato ad arrangiarsi, irrigidendosi sulle loro posizioni e negando ogni forma di dialogo, ma era una strategia perdente, che anziché comandare rispetto ha offerto il destro alla replica degli atleti: “gli arbitri non ci rispettano, ci fanno innervosire” emblematica di una NBA in mano a cestisti immaturi, dall’ego smisurato e fragile.

Arbitrare ad altissimo livello è un’arte che non si impara dalla sera alla mattina, e la regia di McCutchen potrĂ  forse aiutare i colleghi piĂą verdi, ma servono tanto tempo ed esperienza maturata sul campo; per giunta, non è facile migliorare se nel frattempo c’è qualcuno che ti urla nelle orecchie ad ogni fischio, giusto o sbagliato che sia.

La NBRA tiene a sottolineare come il 90% delle chiamate arbitrali sia corretta, ma ci sono molti fischi che potrebbero andare in entrambe le direzioni, e sui quali non c’è un metro chiaro e inequivoco che consenta ai giocatori di regolarsi di conseguenza. Sono chiamate che rientrano in quel 90%, ma che contribuiscono con la loro erraticità a creare incertezza, acuita dalle “status calls”.

La chiamata per status è utile se l’arbitro vi ricorre quando non sa che pesci pigliare; già ai tempi di coach Giustiniano si diceva in dubio pro reo, che in NBA è stato a lungo tradotto “in caso di dubbio, fischia per la star o il veterano”. Se però significa dar ragione ai campioni anche quando la dinamica non giustifica il fischio, la status call è solo un (odioso) privilegio.

Oltre ad aver adottato un metro incerto in situazioni fifty-fifty, l’NBA ha isolato alcune situazioni di gioco, inseguendo i vari trucchetti messi in atto dai giocatori (attaccanti e difensori). Regole particolari come five-seconds-back-to-the-basket oppure hooking funzionano perché il beneficiario del fischio non può indurre l’arbitro alla chiamata.

Regole più recenti hanno invece creato delle zone franche nelle quali capita di premiare chi smette di giocare a basket pur di lucrare un fischio con mezzi e mezzucci indegni del talento, per fare l’esempio più ovvio, di James Harden, probabile e meritatissimo MVP della stagione 2017-18.

Anche la “legal guarding position” viene estremizzata a favore del difensore quando si tratta di sfondamenti, ma diventa irrilevante quando l’attaccante uncina il braccio di un difensore che è in regolare posizione difensiva! In ambedue i casi, non si premiano i fondamentali, quanto la furberia.

Il metro arbitrale “giusto” è ovviamente un’utopia; possiamo però essere tutti d’accordo sull’esigenza di una direzione quantomeno coerente e rispettosa dei fondamentali del Gioco. Quando le situazioni di campo sono codificate (anche in modo informale) i giocatori accettano più facilmente il fischio contro, perché ha un sapore oggettivo, non personale.

La nostra sensazione è che si sia pasticciato col regolamento, badando troppo agli alberi e perdendo di vista la foresta; se aggiungiamo l’impreparazione dell’attuale classe arbitrale e l’immaturità dei giocatori, ecco confezionata la ricetta per una NBA in cui ogni fischio è una miccia esplosiva.

In questo senso, potrebbe essere utile fare chiarezza su cos’è un fallo. Troviamo i dettagli della definizione al punto 12 del Regolamento NBA, lettera B, ed estremizzando l’assunto, un attaccante subisce un personal foul quando viene danneggiato dal difensore che non ha posizione (sia in senso orizzontale che verticale).

http://www.nba.com/analysis/rules_12.html

Alla stessa stregua, un difensore dovrebbe portare a casa un fischio favorevole quando occupa una autentica posizione “difensiva” e viene danneggiato dall’attaccante (che sbraccia, lo carica, e via dicendo).

Secondo questa filosofia, un difensore in aiuto che si butta sulla traiettoria di un penetratore non ha diritto ad alcuna protezione (non sta “aiutando” e non sta mantenendo una posizione consolidata), così come il calcetto dell’attaccante e il rip-through sono dei “non fischi”, visto che è l’attaccante a danneggiarsi da solo.

Un metro arbitrale di questo genere sarebbe più pulito e semplice (in puro stile anglosassone) ed eviterebbe aberrazioni come i fischi contro il difensore che salta sulla finta ma resta nel proprio cilindro; diminuirebbe inoltre il numero complessivo di chiamate, aumentando la fluidità dell’azione, e si consentirebbe agli arbitri di tornare a concentrarsi sul Gioco.

3 thoughts on “Gli arbitraggi NBA, tra falli tecnici e proteste

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