Uno dei grandi meriti dell’NBA moderna è quello d’aver liberato il Gioco dalle pastoie dei ruoli, aprendosi così a percorsi inesplorati per quanto –giusto sottolinearlo– anche in epoche passate siano esistiti grandi all-around come gli sfortunati Penny Hardaway e Grant Hill (siamo alla fine degli anni novanta) o addirittura autentici playmaker abbondantemente sopra i due metri d’altezza, come l’indimenticabile Magic Johnson, demiurgo dell’NBA anni ottanta in combinato disposto con Larry Bird, a sua volta “stretch-four” ante litteram.

Parliamo però di una pallacanestro inevitabilmente legata agli accoppiamenti individuali (i cosiddetti match-up) traboccante atleti capaci di mettersi in proprio e punire di fisico e tecnica l’eventuale “mismatch” (la situazione in cui l’accoppiamento è nettamente sfavorevole per uno dei due contendenti) in modo probabilmente più netto rispetto a quanto capiti oggidì. Stante questo contesto, gli allenatori NBA preferivano ricorrere a scelte conservative; pur trovandosi per le mani un Lamar Odom o un Anthony Mason, non li si cavalcava mai davvero fino in fondo.

Non esiste tuttavia una netta cesura tra “prima” e “dopo”, ma solo una lenta evoluzione che negli ultimi dieci anni ha subito una brusca accelerazione; tant’è che se già negli anni ottanta e novanta si tentavano i primi, timidi esperimenti, alcuni cestisti troppo avanti sui tempi, come Joe Bryant, negli anni settanta si ritrovarono appiccicata l’etichetta di “giocatori soft” proprio per la tendenza a portar palla e tirare da lontano, anziché a far legna sotto canestro come ci si aspettava da gente sopra i due metri.

Al momento di scrivere ci sono solo Russell Westbrook e il redivivo Rajon Rondo a rappresentare le point-guard tra i cinque migliori assistman NBA, tuttavia è giusto sottolineare che già nel 1985-86 il leader dei passaggi vincenti era Magic, e Clyde “The Glide” Drexler (spettacolare ala-guardia che avrebbe poi vinto l’anello coi Rockets) viaggiava a 8 assist ad allacciata, mentre Larry Bird ne piazzava 6.8, e lo stesso Michael Jordan, nel 1989, mise a referto 8 assistenze di media (accompagnate da altrettanti rimbalzi, 32.5 punti con il 53.8% dal campo).

I rapporti di forza potevano quindi benissimo invertirsi quando il backcourt era composto da Tyronn Lue e Tracy McGrady, da Derek Fisher e Kobe Bryant, o da B.J. Armstrong e MJ –quindi, in contesti con una shooting-guard dominante, abbinata ad una point-guard destinata a giocare tanti minuti lontano dalla palla– ma di regola ci si affidava ad un piccolo per la costruzione del gioco, e anzi, le caratteristiche da “combo-guard” erano guardate con estremo sospetto; per aver conferma, chiedete a Chauncey Billups, splendido MVP delle Finali 2004, che passò la prima parte della propria carriera rimbalzando da una franchigia all’altra, intrappolato com’era nell’equivoco del ruolo.

Oggi Phil Jackson passa per luddista, ma ai tempi dei Bulls non si fece scrupoli a schierare spesso Jordan affiancato da un tiratore –Paxson prima, e Kerr poi– oppure a delegare compiti di ball-handling al grandissimo Scottie Pippen e Toni Kukoc (concetti ribaditi poi ai Lakers, con The Fish vicino a Bryant e Lamarvellous in cabina di regia). Jackson era l’eccezione in una lega nella quale i New York Knicks di Jeff Van Gundy insistevano ad alternare Charlie Ward e Chris Childs affianco a Latrell Sprewell.

Con l’eliminazione della difesa illegale (avvenuta ad inizio millennio) e l’introduzione di regole più restrittive sui contatti, le difese NBA hanno gradualmente smesso di ragionare in termini di accoppiamenti individuali (sempre meno convenienti) per aprirsi a nuovi concetti “collettivi”, che hanno a loro volta costretto gli attacchi ad un ulteriore adeguamento, rendendo possibile schierare un 6’7” come Shawn Marion in ala forte, aprendo la strada all’epica dei Phoenix Suns di Mike D’Antoni.

A farla da padrone non è più il ruolo, inteso come somma di taglia fisica e qualità tecniche, quanto le caratteristiche intrinseche del singolo giocatore. Quindi oggi ha perfettamente senso lasciare che i compiti di playmaking siano svolti in toto da LeBron James, oppure da James Harden o dal promettentissimo Ben Simmons, anche se il caso più interessante è rappresentato da Draymond Green, che a differenza dei nomi illustri citati poc’anzi non rientra nel novero delle stelle capaci di mettersi in proprio e creare basket.

È molto probabile infatti che anche in epoche passate stelle del talento di LBJ, del Barba o di Simmons avrebbero gestito palla con continuità, mentre non è scontato poter dire la stessa cosa di Green, ala da Michigan State arrivata in NBA sottotraccia e senza grandi fanfare (complici anche le frasi di coach Tom Izzo sulla sua allenabilità) che con ogni probabilità fino a non molto tempo fa sarebbe stata invitata a catturare il rimbalzo e passare gentilmente la palla al proprio playmaker, pena, accomodarsi sul pino.

Si poteva fare un’eccezione per “il ciccione che correva come il vento” (la definizione è di Sonny Smith) al secolo Charles Barkley, talentuosissima ala di appena due metri ma dotata di incredibile esplosività e di un deretano adoperato come arma contundente in post basso; per ogni Barkley c’era un Kevin Garnett, capostipite della generazione X di fine degli anni novanta, che sapeva condurre il gioco trattando divinamente palla, eppure non lo faceva in modo continuativo, e tantomeno come playmaker primario dei suoi Minnesota Timberwolves, che spesero anni a chiedersi se fosse meglio schierarlo da ala piccola o da ala forte.

Lo scarto culturale è stato repentino: nel giro di poco tempo, l’emblema dell’NBA moderna è diventato Giannis Antetokounmpo, freak atletico privo di un vero e proprio ruolo ma capace di coniugare qualità un tempo ritenute inconciliabili, oppure Anthony Davis, il silente Monociglio di New Orleans, che arriva ovunque e può stoppare in cielo con la stessa facilità con cui si esibisce in un arresto e tiro da guardia pura. Se un tempo gli “atipici” dovevano comunque avere un ruolo (Sir Charles era due metri ma giocava ala forte, Magic era a tutti gli effetti schierato come play) nell’NBA del 2018 ogni tendenza ad incasellare i giocatori nei cinque spot classici è stata spazzata via.

Questo cambiamento è avvenuto a scapito dei fondamentali classici, inutile nasconderlo, ma si tratta di un’evoluzione che ha velocizzato il gioco, introducendo tante novità anziché ripetere stancamente sempre gli stessi triti stilemi, ed è una rivoluzione che trova tra i suoi fautori anche Hakeem Olajuwon, spesso citato come eccellenza assoluta dai fautori del vecchio gioco in post basso, e che tuttavia segue con passione (come ha raccontato in un pezzo comparso su The Players’ Tribune) le nuove evoluzioni del gioco, lui che, titolare di un’infinità di movimenti di splendidi movimenti spalle a canestro, amava svariare per attaccare anche fronte a canestro.

È sempre pericoloso (oltre che difficile) pronosticare in che direzione andrà questo magnifico sport; sulla scia dello showtime di Magic Johnson, nel 1985 si riteneva che in futuro tutti i playmaker sarebbero stati alti più di due metri, e si è dovuto aspettare trent’anni per vederne effettivamente altri in campo. A fine anni novanta, quando i parquet NBA erano dominati dagli Utah Jazz e dai Chicago Bulls, molti osservatori teorizzarono l’impossibilità di vincere con un centro dominante, venendo clamorosamente smentiti dagli anni di Tim Duncan e Shaquille O’Neal, presenti in nove formazioni titolate tra il 1999 e il 2014.

Viviamo un momento appassionante, nel quale la porta è aperta ad ogni tipo di novità (anche a costo di alcuni inevitabili errori di percorso) e l’impossibile sembra davvero a portata di mano: squadre con cinque ali, lunghi che difendono come tali e attaccano come guardie, playmaker che dominano a rimbalzo e un’incredibile varietà di stili, inimmaginabile non più di un paio di lustri orsono. Non saranno ovviamente tutte novità vincenti, ma il bello sarà proprio scoprire cosa funziona e cosa no, senza preconcetti e preclusioni.

Se Joel Embiid e DeAndre Ayton (bahamense attualmente in forza ad Arizona) si riveleranno all’altezza delle attese, la loro forza d’urto potrebbe costringere tutte le altre 28 franchigie a dotarsi di centri potenti, mettendo fine allo small ball e al contempo chiudendo la porta al preconizzato dominio dei poliedrici Karl Anthony Towns, Porzingis (ribattezzato Unicorno non a caso) e Anthony Davis prima ancora che possa materializzarsi; nessuno può davvero dirsi sicuro di come andranno le cose, motivo per cui possiamo serenamente goderci questi anni di basket positionless senza troppe ansie classificatorie, consci che il prossimo adattamento darwiniano saprà prenderci alla sprovvista.

3 thoughts on “L’era del basket senza ruoli

  1. Quelli sopra i 2e10 possono vivere lo small-ball solo se si accontentano di carriere brevi e costellate da infortunii.
    Se viceversa vogliono seguire la strada di Duncan e Garnett devono restare sul classico e muoversi il meno possibile (con criterio).
    Il greco per ora regge perchè molto leggero… appena inizia a inquartarsi verso i 30 anni le ginocchia chiederanno pietà.
    Gli altri si sono già spaccati almeno una volta (Embiid, Simmons, Griffin, Porzingis, Cousins e via disgraziando).
    Oh, si scrive mismatch. Come mis-understood, mis-placed ecc.

    • Beh Durant, sulla carta, è vicino a 2,06 m, ma vedendolo giocare ci si accorge di come sia alto almeno 2,10 m. Adesso è al decimo anno NBA e ha avuto solo un infortunio serio al piede, non legato ai suoi movimenti. Quindi non è detto che questi giocatori debbano per forza rompersi a causa del loro gioco.

  2. durant pesa meno della sua ombra, con gran vantaggio per le sue articolazioni….

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