L’idea che non ci siano certezze è piuttosto diffusa, specialmente nel mondo dello sport, dove tutto è soggetto a continui scossoni difficilmente pronosticabili. Eppure, per nostra fortuna, ne esiste una.

Per tanti febbraio è il mese del carnevale, per altri quello del Super Bowl, per tutti, o quasi, quello dell’amore, San Valentino docet. Poi, c’è una minoranza sognatrice che riconduce il successore di gennaio a una e una sola cosa: l’All-Star Game.

Per quanto possa aver perso parte del fascino dei tempi d’oro, quelli in cui Bird e Magic erano i simboli di est ed ovest, quelli di Jordan, Barkley, Shaq, Iverson, Doctor “J”, Jabbar e Kobe, quelli in cui contava solo la vittoria, anteposta allo spettacolo fine a sé stesso, l’All-Star Game rimane l’All-Star Game, il sogno che si tramuta in solida realtà.

E’ innegabile, da qualche stagione a questa parte il primo pensiero corre a far strabuzzare gli occhi agli spettatori, lasciando in disparte difesa, agonismo e, in generale, la partita. I punteggi sono sempre più alti, spesso sopra i 150 punti abbondanti per squadra, i numeri da circo, le giocate esaltanti. Insomma, avrà anche i suoi “difetti”, ma il weekend più stellare dell’anno era, è e sarà sempre la più alta espressione della magia sotto forma di pallacanestro.

A pochi giorni dal 18 febbraio, cosa dobbiamo aspettarci dal fine settimana angeleno?

La novità più grande, come noto, è la formula di composizione dei superteam che si affronteranno sul parquet dello Staples Center. Niente più est contro ovest, bensì Team LeBron vs Team Steph. Prima di rivelare i titolari del match, i tifosi hanno votato per scegliere il capitano delle rispettive squadre, King James e Curry, per l’appunto.

Successivamente si è passati ad un mini draft. Curioso, intrigante, efficace. Senza distinzione di conference, i nativi di Akron hanno creato i propri roster pescando dal calderone contente i giocatori prediletti dal grande pubblico. I risultati? James, Irving, Durant, Davis e Cousins( infortunato e sostituito da Paul George) da un lato, Curry, DeRozan, Harden, Antetokounmpo ed Embiid dall’altro.

Le riserve, selezionate dai coach D’Antoni e Casey, presentano tante, piacevoli novità, accanto alle quali figurano i soliti noti. La guardia proveniente da Davidson sarà affiancata da Green, Thompson, Butler, Lowry, Horford, Lillard e Towns, alla sua prima convocazione, mentre LBJ avrebbe dovuto contare su Westbrook, Love, Aldridge, Wall, Beal, Porzingis e Oladipo ( anche loro, come KAT, alla prima chiamata), a patto che gli infortuni non avessero fatto capolino, come effettivamente è stato. A sostituire l’unicorno lettone, la point guard di Washington e l’ex UCLA toccherà a Drummond, Walker e Dragic , primo sloveno ad essere insignito del titolo di All-Star.

Non deciderà le sorti di questo sport, tantomeno potrà dare indicazioni concrete ed effettive circa il prosieguo degli ultimi mesi di regular season e conseguenti playoff, tuttavia è necessario godere a pieno del regalo che la NBA distribuisce ogni anno a milioni di persone.

In quante e quali altre occasioni capiterà di assistere ad un alley-hoop prodotto dalla strana coppia LBJ-KD o ad una stoppata di Antetokounmpo seguita da una tripla in transizione di Curry? Forse, mai, lasciando il beneficio del dubbio perchè fantasticare con la mente è lecito, anzi, obbligatorio.

Soffermarsi solo sull’evento di domenica sarebbe, però, un peccato mortale, significherebbe privarsi di gran parte dello show, a partire da venerdì notte, quando andrà in scena il Rising Star Challenge, con i giovani più talentuosi del pianeta in bella mostra.

Se credete che la Friday Night Exposition sia solo l’antipasto del gustoso banchetto domenicale, vi sbagliate di grosso. Dell’ultima classe di draft si è iniziato a parlare ben prima che fosse effettivamente catapultata sul pianeta NBA, a riprova dell’attesa e della curiosità nel vederla all’opera.

A 24 anni dalla prima volta, quando si trattava di Phenoms versus Sensations e di “Penny” Hardaway MVP, lo sport più pazzo del mondo apre le porte del paradiso nella città degli angeli, regalando quattro quarti spaziali, l’arco di tempo in cui Kuzma duetterà con Mitchell, Tatum con Ball, Smith Jr. con Jaylen Brown, in un ballo dei debuttanti che sull’altra sponda della sala vedrà danzare Simmons, Embiid, Murray, Ntilikina e Bogdanovic, tutti insieme appassionatamente.

Un detto recita “chi s’accontenta gode”. Volere di più, tutto sommato, non è sinonimo di egoismo, soprattutto se il gioco che dovrebbe valere la candela è l’All-Star Saturday, quando l’attrazione prende il sopravvento su qualsiasi altro aspetto dell’universo sportivo, trasportando chiunque ami la palla a spicchi in una dimensione atemporale, aspaziale ed incantata, dove tutto è possibile.

Tre parole, non una di più, bastano a farci battere il cuore: Slam Dunk Contest. Ok, per chi ha vissuto sulla propria pelle le prestazioni memorabili e storiche di Michael Jordan e Vince Carter non deve essere facile fare i conti con l’assenza di figure top all’evento più spettacolare della festa di metà stagione. Dopo “Air” Canada, la penuria di nomi altisonanti è stata sempre più abbondante, con tutto il rispetto per i vari Dwight Howard, Jason Richardson, Gerald Green, Zach Lavine e Nate Robinson, il piccolo grande uomo capace di trionfare per ben tre volte, unico nella storia della competizione.

La tendenza non subirà grandi cambiamenti nemmeno quest’anno, eppure i quattro supereroi che voleranno above the rim esercitano un fascino che non può lasciare indifferenti, a aprtire da Donovan Mitchell e Dennis Smith Jr., due tra i rookie che più hanno meravigliato , prenotando un posto per un futuro da oscar. Non sono da meno Victor Oladipo, maestro in materia, e Larry Nance Jr., figlio di quel Larry Nance che nel lontano 1984 vinse la prima edizione della gara delle schiacciate.

Last but not least, la sfida da oltre l’arco. Larry Bird, Stephen Curry, Ray Allen, Paul Pierce, Steve Kerr, Kyrie Irving, Dirk Novitzki e Marco Belinelli. Tanti sono i campioni che hanno partecipato e vinto il 3-Point Shootout, a dimostrazione di quanto sia gratificante sollevare il trofeo di Cecchino di razza, in una lega che sta facendo del deep three un marchio di fabbrica.

I protagonisti più attesi sono Klay Thompson e Bradley Beal, ovverosia i migliori tiratori pianeta dal punto di vista tecnico ed estetico, paladini dell’eleganza travestita da tiro in sospensione. Subito dietro Eric Gordon, detentore del titolo, e Devin Booker. Infine, Paul George, Tobias Harris, Kyle Lowry e Wayne Ellington.

Non riavremo più un All-Star Game paragonabile a quello di Orlando 1992, con Magic Johnson vincente e sorridente nonostante tutto e tutti, non ci sarà più una schiacciata come quella tramandata ai posteri da MJ trent’anni fa, nessuno più urlerà in telecamera “It’s over!”, difficilmente un italiano salirà nuovamente sul trono di re delle triple, eppure l’All-Star Game rimane l’All-Star Game, comunque vada, per sempre.

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