Tra le tante e meravigliose città americane, se ce n’è una sottovalutata e di cui si parla raramente, quella è sicuramente Minneapolis.

Circondata da oltre ventidue laghi, The City of Lakes è un centro culturale e artistico di primissimo piano, grazie anche ai numerosi teatri che ne popolano le vie, caratteristica che le è valsa il nickname di Mini Apple, in onore alla New York di Broadway.

Insomma, a Minneapolis il talento non manca, così come le fonti a cui attingere, una su tutte: Prince Rogers Nelson, in arte, Prince. Orgoglio cittadino e motivo principale per cui Minnie è riconosciuta a livello mondiale, il cantautore Americano è stato un innovatore tanto a livello musicale quanto stilistico, portando il colore viola alla ribalta, simbolo di una comunità intera.

I Minnesota Vikings, squadra militante nella NFL, lo ha adottato sin dagli albori della propria storia, tingendolo a grandi mani su divise, caschi, end zones e seggiolini del nuovo U.S. Bank Stadium, sede del prossimo Super Bowl, quando il ribollire dell’atmosfera riuscirà, parzialmente, ad arginare il freddo pungente del Minnesota.

L’inverno, a queste latitudini, è folgorante, ragion per cui la città è attraversata dal Minneapolis Skyway System, un moderno complesso di strade sopraelevate, coperte, la cui funzione è quella di collegare i punti nevralgici del centro, costituendo un contemporaneo sistema di catacombe capovolte, un labirinto sospeso, come il destino dei Minnesota Timberwolves 2017-2018.

Se a Philadelphia il termine più in voga è sicuramente “Process”, da queste parti è ragionevolmente lecito parlare di “Project”, ambizioso e vincente sulla carta, in piena fase di sviluppo nella realtà dei fatti.

Sono ormai passate tredici lunghe stagioni da quando i T’Wolves hanno calcato per l’ultima volta i parquet dei palazzetti NBA nei mesi successivi ad aprile, quelli che contano davvero. Nel frattempo, nulla o quasi.

L’idolo di casa Kevin Garnett ha preferito sposare la causa Celtics lasciando un’eredità pesante, raccolta senza particolare successo da Kevin Love. L’ex UCLA è poi andato in Ohio, Cleveland.

La società ha investito parecchio sul Draft, pescando i pezzi più pregiati per due anni consecutivi, LaVine e Wiggins prima, Towns dopo. Sono state fatte scelte di mercato discutibili, come l’approdo di Rubio e il ritorno di The Big Ticket. Tante aspettative, pochi risultati.

Così, l’estate appena trascorsa ha rappresentato un momento di svolta nella storia recente della franchigia del Minnesota, una piccola rivoluzione nel centenario di quelle russe. Fuori il play spagnolo, Dunn e LaVine, entrambi spediti a Chicago insieme alla settima scelta assoluta dell’ultimo Draft, Lauri Markkanen, dentro Butler, Teague, Gibson e il forever 21 Crawford.

L’asse Chicago-Minneapolis ha anche visto l’arrivo di coach Thibodeau sulla panchina dei padroni del Target Center. Lo stesso Tibs, alla vigilia della stagione, aveva affermato che venti partite sarebbero state sufficienti per esprimere un giudizio sulla squadra, tirando le prime somme.

Di partite ne hanno disputate ventidue, il record di 13-9 è il più alto che sia stato registrato dal 2005-2006, ma nonostante il quarto posto ad ovest continua a mancare qualcosa. KAT e compagni sono una medaglia dal doppio volto, alcune sere Dr. Jekyll, altre Mr. Hyde. Procediamo per gradi.

La fase offensiva è pressoché priva di limiti. Wiggins, dopo aver parzialmente deluso le attese, è riuscito a scrollarsi di dosso una pressione micidiale, normale conseguenza se si viene consegnati alla lega con il nome di Maple Jordan, il Jordan canadese. Della serie “In bocca al lupo ragazzo!”.

Ha accettato di scendere di un gradino, lasciando lo scettro di uomo franchigia a Towns, trovando la sua dimensione nella figura del comprimario, un po’ come Sancho Panza con Don Chisciotte. Il tiro da tre è nettamente migliorato, l’aggressività al ferro anche.

Lo stesso discorso vale per l’ex Wildcats. La mano è sempre più morbida, la poliedricità in attacco ogni anno più evidente, a dimostrazione della continua evoluzione della categoria dei lunghi moderni, dove a fargli compagnia ci sono i vari Porzingis, Jokic ed Embiid, per citarne alcuni. È leader di squadra per punti segnati, 20.4 a partita, e per rimbalzi strappati agli avversari, 11.7.

Jimmy Butler non si discute, Taj Gibson fa il suo, Teague è sempre stato efficace, Bjelica e Crawford sono una garanzia, particolarmente dal perimetro. Dati alla mano, il quintetto base è tutto in doppia cifra.

Ecco, questa era l’analisi dei T’Wolves versione Dr. Jekyll, ora tocca esaminare il suo alter ego malvagio, Mr. Hyde, in termini cestistici, la difesa.

Partire dalle statistiche potrebbe risultare tedioso e scontato, tuttavia è propedeutico per capire fino in fondo i problemi difensivi di Minnie. La più preoccupante è quella inerente alla media punti concessi: 107.5 e 22° posto generale.

Dando un rapido sguardo a questa particolare classifica è sconcertante notare come i Dallas Mavericks ne abbiano subiti mediamente meno, nonostante l’ultimo posto a ovest e la 27° piazza totale. Più che logico se la percentuale di tiri concessi agli avversari è la più alta di tutta la lega, equivalente a un poco confortante 48,4 %.

La difesa sui tiri da 3 non è buona, molto spazio, l’attenzione è rara, il movimento scarso. Quanto ai singoli, Wiggins sembra un pesce fuor d’acqua, è lento, spesso in ritardo e a volte ingenuo.

Non è da meno KAT, fenomeno con pochi eguali davanti, spaesato dietro. Le scelte sono quasi sempre sbagliate, non riesce a rimanere con i piedi a terra, nel vero senso del concetto. La tentazione di saltare è forte, sia da un lato del parquet che dall’altro.

Il problema è che gli avversari lo hanno capito e sanno come comportarsi. Emblema ne è la partita, persa, contro i Suns, in cui il fenomeno degli Happy Feet è stato una costante durante i 48 minuti dell’incontro, lasciando il centro di origini domenicane in preda alle finte di Booker e colleghi. Jimmy Butler non è riuscito ad esimersi dall’esprimere la propria opinione al riguardo, definendo la fase difensiva di squadra “ridicola”, parole che non devono aver fatto piacere al resto del roster, visto e considerato che, secondo quanto trapelato da voci interne, l’ex Bulls pare essere privilegiato da coach Tibs.

Lo spogliatoio dei Timberwolves è diventato la sua seconda casa, accanto al suo armadietto ce ne sono due vuoti, comodità di cui può godere lui solamente, la palla è spesso di sua proprietà, oggetto di culto da affidare agli altri se strettamente necessario, specie quando si entra nella clutch zone con un risultato che rischia di essere inopportuno e avverso.

A differenza di quanto accadeva in Illinois, all’interno delle mura dello United Center, Butler deve capire che la filosofia del Jimmy “G” Buckets, dove “G” sta per gets, non è più attuale. Al suo fianco ha possibili future superstar della lega su cui è chiamato a fare affidamento.

Insomma, per il momento Tom Thibodeau è lontano dal trovare la quadratura del cerchio, impresa che non sarà facile.

Serve tempo, questo è evidente, più che comprensibile, è necessario costruire una chimica di spogliatoio, prima, e di gioco, poi, affinché questi Minnesota Timberwolves 2017-2018 non rimangano un grosso rammarico, per i tifosi e per chiunque ami la pallacanestro.

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