Nell’attesa della prossima release del power ranking settimanale stilato da ESPN, che proietterà Detroit inaspettata quinta o sesta forza della lega, a Motown c’è di che essere felici.

Ad inizio campionato venivano dati alla 21. Poi 16. 15. 9. Questa la progressione da metà ottobre ad oggi nella suddetta classifica. Soggettiva, per carità, ma che reputo addirittura (giusto per mettere in chiaro quanto io sia oscenamente di parte) demeritevole rispetto al basket che i Pistons stanno giocando.

Ad oggi, in pochi si sarebbero aspettati di vedere la triste Detroit al .769 di vittorie (10-3) che vale il secondo posto ad Est, sopra i nomi illustri di Raptors, Wizards, Bucks e Cavaliers.
Oggettivamente, quest’anno sembra quanto mai particolarmente ricco di sorprese data la presenza sopra la soglia dei .500 di Orlando e New York che smorza quanto basta la magia dell’impresa dei Pistons, in possesso di un roster più completo (anche se meno futuribile) rispetto alle due franchigie sopra citate.
Ma una volta preso atto del bel lavoro che in Florida e nella Grande Mela stanno svolgendo, vorrei concentrarmi su quello che a Detroit non si vedeva da parecchio tempo: un gioco di squadra ed un progetto in miglioramento.

Ad inizio anno c’era ottimismo nell’ambiente della Motor City, principalmente per l’arrivo di Avery Bradley (nonostante questa mossa abbia comportato il mancato pareggio dell’offerta per Kentavious Caldwell-Pope) e per l’aver avuto risposte positivissime in summer league/preseason dal rookie Kennard, il sophomore Ellenson, il jolly Moreland ed in generale da tutta la second unit.

Si erano fatte molte ipotesi sul possibile quintetto iniziale, sul ruolo e i minuti che avrebbero avuto i panchinari, sulle possibili rotazioni, ma soprattutto sulla risposta che Drummond e Jackson avrebbero dato al mondo dei tifosi Pistons (siamo in una dozzina, credo) dopo un anno psicologicamente e mentalmente lacerante. C’erano tantissimi “se” e poche certezze ma indubbiamente pareva una rosa finalmente costruita con senso compiuto, che potrebbe sembrare una banalità per una lega professionistica, ma poi vai a vedere i Pelicans e si capisce che non è poi tutto così scontato.

Dre: i rimbalzi, il p&r, i tiri liberi

Causa principe dell’ottima partenza è Andre Drummond: 14.2 punti (con il 54% dal campo) e 15.5 rimbalzi in 33.2 minuti di utilizzo, con un imprevedibile 63% ai tiri liberi, massimo (facciamo stra-massimo) in carriera. Drummond è macchina da statistiche, sentenza a rimbalzo, presenza sotto canestro sui due lati del campo, ma soprattutto non più pegno da pagare nei minuti finali delle partite causa tragiche percentuali dalla linea della carità (39% in carriera).
Drummond usciva da un’annata statisticamente in linea con le precedenti ma frutto di soluzioni offensive molto differenti rispetto agli anni passati.
Storicamente, Dre ha sempre giocato tantissimi pick&roll, rollando per prendere posizione in area ed avere di conseguenza posizione a rimbalzo nel caso non fosse riuscito a ricevere. Questo fino all’estate 2016.
In quei giorni estivi infatti, in un ufficio a Detroit, persone che dovrebbero essere cestisticamente istruite hanno avuto una tragica illuminazione: in un’epoca in cui il prototipo del centro moderno deve saper tirare da 3, attaccare il ferro o gestire un contropiede coast-to-coast, un lungo monodimensionale come Drummond deve essere cambiato, migliorato. Va aggiunto qualcosa all’arsenale del ragazzone.

Stan Van Gundy ha così imposto a Drummond il gioco spalle a canestro, nella speranza che in tutti questi anni avesse tenuto segreto ai più un talento “Olajuwoniano”.
Un esperimento che lo ha portato a fermare la palla per troppi secondi, effettuare un movimento poco convinto e finire con un gancetto che avrebbe potuto entrare tanto quanto colpire ferro, tabellone o soltanto aria. Inoltre questa soluzione non gli permetteva di andare a rimbalzo d’attacco ma neppure di tornare in maniera rapida per coprire la transizione avversaria. Si è cercato insomma di far diventare Drummond quello che non era.

Nello stesso ufficio a Detroit pieno di cervelloni, un anno dopo parlando del più e del meno si sono accorti che un provetto Marc Gasol non lo diventi da un anno all’altro se sei sempre stato un mastro falegname. Così, per fortuna di Detroit, del basket e dei ferri della lega, si è tornati alla soluzione p&r, naturale conseguenza dell’aver capito che Dre rimane un atleta più vicino a DeAndre Jordan che ad Hakeem.

Oltre al miglioramento legato all’aspetto tattico di cui sopra, Drummond ha stupito tutti migliorando la percentuale ai liberi dal 38% al 64% (il dato è leggermente falsato da una serata di grazia da 14/16 contro i Bucks, ma comunque il miglioramento rimane evidente). Il merito va al lavoro estivo con l’allenatore che l’aveva seguito nel pre-draft nel 2012, che gli ha fondamentalmente detto di non pensare a niente e fare un respiro profondo prima di tirare.

Bastava poco, Andre.

Per principio non dirò mai che Reggie gioca bene, anche se gioca bene. Molto bene.

I tifosi di Detroit si dividono in due: chi pensa che avere Reggie in squadra abbia un senso e chi invece pensa che dovrebbe essere scambiato. Poi ci sono io, che lo regalerei proprio. Non sono mai stato un fan di Jackson e non ho intenzione di salire sul carrozzone nemmeno ora che sta giocando bene, perchè diciamolo: gli va dato merito di essersi riscattato dalla deludente stagione passata.
L’aver ritrovato nel playbook le pagine dei giochi a due con Drummond, strappate inopinatamente nella scorsa stagione, sicuramente ha aiutato, anche se il suo autentico valore lo sta dimostrando negli ultimi minuti delle partite punto a punto. Nonostante tutti i tatticismi e gli schemi utilizzati nella NBA, molto spesso quando la palla scotta le soluzioni si riducono al caro vecchio “palla al tuo player più cazzuto e vediamo quello che succede”. Per ora, quando Reggie ha la Spalding in mano nei finali di gara (cioè sempre) succedono cose belle. Addirittura, contro Atlanta, per un attimo mi è quasi presa la voglia di fargli un piccolo complimento a mezza-bocca. Ovviamente, non l’ho fatto.

Avery Bradley: un leader travestito da gregario

La soluzione ai problemi di Detroit andava trovata in casa. La materia prima c’era e non è variata troppo rispetto all’anno scorso. Un solo giocatore di valore è arrivato ai Pistons: quel giocatore è Avery Bradley e lo descriverei in tre parole: difesa, ordine, letture.
Bradley alterna attacchi al ferro senza paura, tiri da tre sugli scarichi, penetrazioni per un arresto e tiro e sfrutta il pick in maniera dinamica. Se a queste qualità si aggiunge un’ottima difesa, un ego da gregario ma un carattere da capitano, ecco servito il giocatore che tutti vorrebbero avere in squadra.

Harris e la crescita che avrebbe dovuto avere (ed ha avuto).

Si sapeva che l’attacco di Detroit sarebbe dovuto passare giocoforza per le sue mani e Tobias, sicuramente il giocatore offensivamente più dotato disponibile in rosa, si sta dimostrando all’altezza delle aspettative. In 33 minuti di presenza sul parquet segna 19.7 punti, con ottime percentuali da due (47%) e da tre (un irreale 49%). Non rifiuta mai un tiro aperto e legge molto bene i recuperi della difesa per mettere la palla a terra e battere l’uomo, preferendo un floater ad un attacco deciso al ferro. Questo contro un difensore della sua stazza, mentre se marcato da un giocatore più piccolo trova buoni spunti dal gioco in post basso. Insomma non scopre di certo l’acqua calda, ma sono i modi con cui legge le situazioni che lo stanno rendendo un giocatore fondamentale per i Pistons.

Stanley Johnson, lo specialista difensivo.

Stanley Johnson è al terzo anno ed è il prospetto più promettente di Detroit. Ricordatevi queste parole perchè più avanti ci torneremo, ma per il momento quello che dovete sapere è che anche per lui come per Drummond l’anno scorso è stato transitorio, in quanto gli si chiedeva di crearsi il tiro, caratteristica che si è scoperto non essere nella sua natura.
Quest’anno Johnson ha migliorato l’arresto e tiro ma rimane comunque uno shooter modesto, mentre le soluzioni migliori le trova in contropiede o rubando palla leggendo le linee di passaggio avversarie e concludendo uno contro zero. E’ infatti un ottimo difensore sulla palla e la vicinanza con Bradley non può che giovargli nel migliorare ulteriormente questo fondamentale. A differenza di Bradley, più propenso a difendere su guardie tiratrici, Stanley ha il fisico adatto per difendere su ali come James, Antetokounmpo e Durant, che grazie al loro talento immenso rimangono immarcabili ma che possono essere limitate da giocatori come Stan.

Tutto il resto, è noia? No, anzi.

Nonostante l’anno di grazia dei giocatori più rappresentativi, il miglior basket espresso da Detroit è paradossalmente quello della second unit, soprattutto giocando col quintetto basso con Tolliver o Leuer da 5. L’assenza di Reggie Palleggiatore (uscirà il modello tipo Barbie a breve) e delle ricezioni in post alto di Drummond rendono il gioco più fluido e meno prevedibile. Le soluzioni migliori arrivano dalla girandola di blocchi, portati un passo dentro la linea dei tre punti, combinati da una serie di passaggi hand-off aspettando l’occasione giusta per una penetrazione, meglio se centrale.
Tolliver è un fattore e qualcuno farebbe meglio ad eleggerlo capitano e a regalarmi la canotta #43 per Natale. Galloway sta dimostrando che dovrei smetterla di partire prevenuto verso giocatori ex New York. Kennard è più pronto del previsto e possiede un’intelligenza cestistica da top 3 della sua rookie class. Leuer, Ellenson, Smith e Bullock sono gregari che sanno muoversi e leggere le dinamiche di gioco. Moreland deve tornare affidabile come nelle prime partite, Marjanovic risulta anacronistico nella NBA odierna, ma con lui in campo e giocando palla sotto, ha un’efficienza elevatissima (#freeboban).
In generale piace molto la voglia dimostrata in campo da tutti i giocatori, deciso cambiamento di rotta rispetto a passate stagioni fatte di impegno rivedibile e scarsa voglia di lottare. Quest’anno Detroit si è trovata ad inseguire in più di una partita, ma anche sotto di 10-15 è rimasta sempre mentalmente in gara, rimontando e vincendo partite iniziate malissimo come quella di Atlanta. Tutti segnali che qualcosa si sta muovendo e, da queste parti, ce n’era proprio bisogno.

Quindi? Record 60-22 e finale NBA contro i Warriors?

Magari, amici miei, magari.
Tanto per cominciare manca un filino di partecipazione da parte del pubblico. Abbandonato il Palace of Auburn Hills, spettatore di mille battaglie e dei 3 titoli vinti dalla franchigia, la squadra ha inaugurato a settembre la Little Caesars Arena.

Che è vuota.

L’attendance ufficiale oscilla tra i 13.000 e i 16.000 paganti, ma a guardare le partite scende la lacrimuccia: tanti posti liberi, perfino gli show negli intermezzi sono tristi. Ieri hanno inquadrato due cheerleaders con un primo piano: brutte pure loro. Le vittorie per far tornare la gente ad affezionarsi ci sono, non sono aggiornato sulla situazione economica popolare dopo la crisi del 2013 che ha devastato la città, ma su quello i Pistons non possono fare molto se non offrire il miglior spettacolo possibile.
Tatticamente le cose da migliorare sono difensive, con Detroit che ruota poco convinta se l’uomo si fa battere sul perimetro: sull’eventuale scarico spesso si trova con due uomini sul tiratore, che eseguendo un extra pass per l’uomo libero fa completamente saltare le rotazioni. Bradley in questo può e deve essere d’esempio per i compagni, mentre Harris sotto questo aspetto fa ancora parecchio fatica.

Quale futuro (a breve e lungo termine)?

A breve termine si punta nella migliore delle proiezioni alle 52 vittorie, nella peggiore alle 38, realisticamente alle 45. I playoff rimangono l’obiettivo principale da raggiungere e sembrano abbastanza fattibili, mentre nel medio/lungo termine ci sono tante nubi all’orizzonte.
“Stanley Johnson è il prospetto più promettente di Detroit” è una frase che deve spaventare, se le teoriche dirette concorrenti ad Est per i prossimi anni sono i Philadelphia di Simmons/Embiid ed i Bucks di Giannis.
Bradley è in contract year e l’anno prossimo chiederà molto, sempre che sia rimasto stregato dalla frenetica vita notturna di Detroit (non credo) o che nessun’altra squadra sia interessata a richiedere i suoi servigi (ancora più difficile). Kennard, nel migliore dei casi, potrebbe diventare un JJ Redick più simpatico, mentre Drummond ha oggettivamente dimostrato di non avere margini di crescita. Scambiare Jackson dopo una stagione al top potrebbe avere senso, ma con i super team che popolano le intricate classifiche ad Ovest, la costruzione di una squadra che possa essere una credibile contender pare ancora troppo lontana.

Insomma, il futuro non è particolarmente promettente, ma alle scure nuvole all’orizzonte ci penseremo in un secondo momento, sempre se siete d’accordo.

Perché ora – dopo tanti anni bui – sarebbe stupido non godersi il timido sole apparso in cielo che sta cominciando a riscaldare i tifosi della nostra città, coricata sulla sponda del fiume Detroit.

5 thoughts on “C’è un cuore che batte a Detroit

  1. Bravo cicciaBosk, ti sei quasi rifatto di un’umiliante prestazione berlinese che di tutto sapeva tranne di quell’ardore che un fan dei Bad Boys dovrebbe avere scritto nel suo DNA, e se non lì, almeno sui denti scheggiati dalle gomitate prese giocando come un Bill Laimbeer o un Rodman qualunque.
    Disamina fin troppo disamina, ma puntuale e rigorosa. Sempre forza Detroit!

  2. Gran bell’articolo… Finalmente si torna a parlare dei Pistons! Stagione finora largamente sopra le attese… Molto nasce dalla difesa e dall’impatto di Bradley…Mi piacerebbe vedere di più Ellenson mentre ho grande fiducia nel rookie… Con quei fondamentali e quell’intelligenza cestistica andrà lontano… Quanto al futuro al momento non ci voglio pensare…. Voglio solamente godermi questo periodo dopo tante…Troppe amarezze….

    • Grazie!
      Ho notato anche io la carenza di articoli su Detroit: per tornare a leggere un pezzo sulla mia squadra…me lo sono dovuto scrivere io!
      Ellenson mi piace, ha saltato qualche partita per un leggero guaio fisico e spero torni presto soprattutto ora che anche Leuer è fuori (anche se stanotte, contro Indiana, dovrebbe rientrare).
      La stagione per ora è sopra le attese, dici bene, sarà parlante il tour appena iniziato. Al primo di Dicembre, dopo Indiana appunto stanotte, Minnesota, Cleveland, OKC, Boston e Phoenix, sapremo di che pasta siamo fatti. Io ci credo!

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