Johnny, I hardly knew ya. Le note di questo vecchio motivo irlandese non suonano nuove alle orecchie di chi segue i Celtics, complice la versione punk-rock riarrangiata dai Dropkick Murphys.

Ironia della sorte, quelle parole che spesso sputano fuori a tutto volume gli altoparlanti del Boston Garden si ritorcono contro gli appassionati della franchigia – e del basket per intero.

Cinque minuti è tutto quel che vedremo di Gordon Hayward per questa stagione. Tante grazie a un’estate passata a trattenere la salivazione immaginando la versatilità dell’ex Utah al servizio del sistema egualitario di coach Stevens, con il legame interrotto ai tempi di Butler che si rinsaldava in una storia da film.

Le prospettive dei Celtics sono cambiate, ma cerchiamo di capire quanto – perché ogni incidente, in fondo, ha i suoi silver linings.

Primo punto: se c’è una squadra in grado di sopportare l’infortunio di uno dei propri giocatori migliori, si tratta proprio di Boston. Tale è stata l’abilità di Danny Ainge nell’ammonticchiare assets per monetizzare coi giusti tempi che, pur smobilitando mezzo organico nelle trattative estive, Brad Stevens si ritrova per le mani un roster completo in ogni reparto, con diverse pedine intercambiabili.

Altra peculiarità del lavoro del GM è stata quella di imbastire un progetto dal duplice obiettivo: competere subito, grazie a considerevoli upgrade rispetto alla già vincente campagna 2017, e guadagnare la pole position per il post-LeBron col giusto assortimento di stelle nel loro prime e giovani in rampa di lancio.

L’infortunio di Hayward sposta qualche numero in questa equazione: se da un lato l’idea di un successo immediato si allontana, nonostante la partenza stentata dei Cavs faccia mangiare le mani, la seconda parte del progetto resta fissata sul calendario.

Certo, sarà necessario che Gordon recuperi senza complicazioni dall’operazione chirurgica, ma non ci sono ad oggi motivi per dubitarne, specie se pensiamo ai casi simili più recenti nella memoria – Paul George, Julius Randle. Al suo rientro potrebbe trovare un contesto più compatto, maturato in sua assenza, e lì starà all’intelligenza del giocatore inserirsi in corsa negli schemi di coach Stevens.

Quando si parla di maturare, l’occhio cade su Jaylen Brown e Jayson Tatum, scelte numero 3 agli ultimi due draft – per la trade che si è concretizzata in uno scambio Fultz-Tatum, visto l’inquietante esordio del prodotto di Washington, c’è già chi attribuisce a Danny Ainge l’ennesimo colpo di genio.

Dirigenza e coaching staff hanno le idee chiare, sono loro due gli uomini su cui puntare per il futuro, che intanto si sono calati nella parte sviluppando una buona connessione durante l’estate.

Non serve una laurea per capire che Brad Stevens ha in mente il modello Warriors, e infatti i suoi quintetti sono tra i più positionless del lotto. Brown e Tatum sono ali moderne e complementari, in grado di coprire tutti gli spot esterni, e come bonus lasciano intuire le doti che servono per assolvere mansioni di playmaking secondario, il compito che sarebbe spettato a Hayward.

Brown è più atletico, coriaceo e tecnico in difesa, un agonista di primo livello che talvolta, se motivato, aggredisce la partita anche sul fronte offensivo: nell’esordio contro Cleveland suona la carica dopo l’infortunio del compagno e guida i Celtics con 25 punti.

Tra i suoi difetti un tiro che va e viene, nonostante ci lavori molto, e la tendenza ad andare fuori giri col pallone in mano. Jaylen Brown ha un cervello che funziona ad alti livelli, come raccontano tutte le storie sul suo conto: guardandolo giocare, si ha la netta impressione che la sua pallacanestro sia rallentata da dubbi e riflessioni. Deve comprendere ogni virgola di quel che accade in campo per dare il meglio.

Tatum, al contrario, ha un approccio istintivo e lo stile di uno scorer di razza. Nemmeno un mese di regular season e il rookie da Duke, promosso da subito in quintetto, ha mostrato di saper convertire senza esitazioni i tiri dalla distanza e, soprattutto, di sapersi creare canestri con un ampio repertorio di mosse.

Quando non c’è Irving e l’attacco langue, la squadra si rifugia già dal suo talento. Aggiungiamo buona presenza in difesa, bell’atteggiamento in campo e fiuto per i rimbalzi, che non guasta affatto quando con 205 centimentri l’NBA contemporanea ti inquadra nello spot di 4.

La classe del draft 2018 sta lasciando il segno e la corsa al Rookie of the year sarà più competitiva del solito, ma i Celtics e Tatum guardano oltre, più interessati a premi di altro genere. Se Jaylen Brown non sarà mai uno Stephen Curry, più simile semmai a Draymond Green per duttilità, col numero 0 l’idea è coltivarsi in casa un Klay Thompson.

Senza Hayward con cui dividere gli oneri di frontman, un altro giocatore che si ritrova più spazio per operare è Kyrie Irving. Uncle Drew è un oggetto misterioso, dal carattere poco affine alle logiche del Celtic Pride, accasatosi a Boston come risultato di una trade troppo vantaggiosa per non andare fino in fondo. Inserire un cavallo pazzo in un progetto così minuziosamente calcolato, però, comporta dei rischi.

Per quanto giustamente lodato, Brad Stevens ha finora dato il meglio di sé lavorando nei pressi della sua comfort zone, con giocatori malleabili e con poco da perdere. Irving ha lasciato Cleveland col proposito di diventare protagonista altrove: ha indossato la maglia verde con ampi sorrisi, ma potrebbe immusonirsi nel sistema corale del suo nuovo allenatore.

Complice l’infortunio di Hayward a Boston c’è subito la prova del nove; se il matrimonio non funziona, lo capiremo in pochi mesi. Per il momento le impressioni sono positive.

Ci sono sprazzi di partita in cui la hero ball di Irving nuoce alla squadra, come accade con qualsiasi realizzatore di talento, ma il suo ruolo in campo si è incasellato senza frizioni in quello di Isaiah Thomas lo scorso anno. Alto usage, ma anche tante dinamiche di gioco che favoriscono i compagni, più quelle soluzioni personali che tolgono le castagne dal fuoco: poche sere fa, al termine di una partita storta contro Miami, è proprio Kyrie a guadagnare la W segnando gli ultimi tre canestri dal campo.

L’intesa coi compagni è già buona, specialmente con Al Horford: il dominicano è autore di un brillante inizio stagione (15 punti, 9 rimbalzi, 4 assist di media), dove si conferma il facilitatore ufficiale della squadra

Insomma, sul caso Irving il verdetto resta sospeso, perché i Celtics si aspettano che l’ex Cleveland si confermi giocatore di qualità superiore rispetto a Thomas, in modo da farne la testa d’ariete per il futuro assalto ai Warriors: il destino di due innamorati, si sa, si vede col tempo, ma per ora la relazione non traballa.

Poi c’è il solito tocco magico di Brad Stevens, che in dieci partite ha già rialzato le quotazioni del modesto Aron Baynes, in attesa di Marcus Morris per rinfoltire il reparto lunghi.

Sotto la guida dell’ex coach di Butler anche Marcus Smart sembra aver intrapreso la stagione della consacrazione, che non a caso coincide con quella in cui scadrà il contratto. Tirato a lucido, dimagrito, con un taglio di capelli finalmente sobrio e una meccanica di tiro rinnovata e più efficace, sopperisce con successo alla partenza di Avery Bradley coadiuvato da Terry Rozier, altra creazione di Stevens, ormai più che maturo come point-guard della second unit.

Dopo lo shock iniziale i Celtics hanno recuperato l’assetto e hanno cominciato a vincere. Sembra proprio che le squadre di Brad Stevens non ce la facciano a perdere, nemmeno in circostanze sfavorevoli, e il gruppo sta mostrando una forza d’animo notevole dopo quanto accaduto a Gordon Hayward: un infortunio che atterrisce il morale sia per la brutalità dell’evento che per le sue ramificazioni.

Commentando la recentissima sfida coi San Antonio Spurs, vinta dai Celtics, il guru Gregg Popovich non ha risparmiato complimenti per il collega sulla panchina di Boston, onorandolo peraltro della sua ironia. Sarà tra i più grandi di questo sport, un giorno – ha detto.

Difficile trovare una collocazione temporale per quel giorno, col dominio di LeBron James sulla Eastern Conference e la corazzata Warriors dall’altra parte del Mississippi, mentre il mercato estivo ci mostra una volta di più che con le superstar che migrano da una squadra all’altra, le dinamiche si evolvono rapidamente.

A Boston non c’è fretta, ma non si alza nemmeno il piede dall’acceleratore. Gordon Hayward tornerà in piena forma, perché ha molto di più da offrire alla pallacanestro di quei miseri cinque minuti. E chissà che il suo infortunio non avveri una serendipità: perché a volte ti affanni per cercare qualcosa, e va a finire che ti imbatti in un tesoro altrettanto prezioso.

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