La notizia ha preso tutti alla sprovvista, perché nemmeno i più informati, quelli a conoscenza delle resistente di Kyrie Irving all’autorità di LeBron James, potevano immaginare un fulmine a ciel sereno come la richiesta piovuta sulla scrivania di Dan Gilbert il 7 luglio, e divenuta di pubblico dominio da venerdì 21, quando l’NBA ha appreso il desiderio dell’ex Blue Devil di cambiare squadra, possibilmente in direzione Spurs, Timberwolves, Heat o Knicks.

Era noto (e non da oggi) che Irving non fosse particolarmente innamorato dei modi e dei toni di LeBron e dell’attenzione speciale riservatagli dalla franchigia, ma nessuno si era reso conto di quanto Kyrie ritenesse compromesso il rapporto, o che il nativo di Melbourne fosse lì-lì per chiedere la cessione. Se Cleveland avesse tenuto le rituali exit-interview individuali con cui le squadre fanno il punto della situazione coi propri giocatori prima di rompere le righe in vista dell’estate, forse avrebbe potuto scoprire prima le intenzioni di Irving, ma ormai il danno è fatto.

Indipendentemente dalle miriadi d’ipotesi e ricostruzioni che in queste settimane si sono succedute vorticosamente, resta la sensazione di fondo di una profonda disfunzionalità organizzativa propria dei Cavaliers, arrivati a fine stagione con il GM in scadenza e nessun sostituto pronto, affrontando così un’estate topica con un manager ad interim, lasciato per giunta completamente al buio rispetto alle intenzioni dei propri giocatori.

Nell’NBA di oggi si fa un gran parlare di “team culture”: un obiettivo ambito da molti, almeno a parole, ma che resta prerogativa di una ristretta élite di franchigie. “Cultura di squadra” è un concetto vasto, ma in fondo riconducibile alla coerenza rispetto ad alcuni princìpi, che rimangono inalterati al mutare degli interpreti (giocatori, allenatori, dirigenti), come in ogni buona azienda che ambisca a perpetuarsi nel tempo.

I Cleveland Cavaliers sono distanti da questo modello gestionale, e forse non potrebbe essere diversamente, trattandosi di una franchigia acquistata da Gilbert in virtù della presenza di un giocatore, sia pure straordinariamente forte e determinante: LeBron James. A distanza di quindici anni, il Prescelto resta l’unico “principio tecnico” di un club che appare privo d’identità autonoma, logica e progettualità.

Daniel Gilbert è un avvocato cinquantacinquenne del Michigan che ha costruito la sua enorme fortuna vendendo su internet mutui per comprare case (un settore divenuto tristemente celebre con la bolla speculativa del 2008) grazie alla sua Rock Financial, divenuta poi Quicken Loans, e vanta un patrimonio personale stimato attorno ai 4 miliardi e 800 milioni di dollari.

Gilbert acquisì il pacchetto di maggioranza dei Cavaliers nel 2005, e sotto la sua conduzione, la squadra ha ottenuto i maggiori successi della sua storia; quattro volte in Finale e campioni NBA nel 2016, ponendo così fine alla “maledizione” sportiva che aleggiava su Cleveland, a secco di titoli sportivi per ben 52 anni. Tutto bene, quindi, si può vincere anche senza seguire una particolare filosofia di squadra?

La risposta è sì, finché resta LeBron James; Cleveland è già collassata una volta, quando il figlio della signora Gloria “portò i suoi talenti a South Beach”, e minaccia di farlo ancora, se davvero LBJ deciderà di cambiare nuovamente prefisso telefonico, magari in favore di Los Angeles, dove trascorre le estati e dove sua moglie Savannah pare vorrebbe abitare in pianta stabile, stando a Kevin Dieng di Bleacher Report.

Già nel corso del primo “regno” di LeBron (2003-2010) i Cavs non si distinsero per l’illuminata gestione del rapporto tra la stella della franchigia e ogni altro livello organizzativo, dall’allenatore, Mike Brown, al GM, Danny Ferry, tutti tenuti in scacco dal consueto atteggiamento passivo-aggressivo di LBJ, a base di significativi silenzi e occasionali attacchi, ovviamente conditi dalla classica smentita “sono stato frainteso”.

L’incapacità di gestire la personalità (debordante e complicata, va detto) di James condannò Cleveland a costruire il roster in fretta e male, sobbarcandosi contratti pesanti e scommesse. Anziché creare una cultura aperta e attiva, Gilbert promosse una cultura conservativa mirata a convincere LeBron a restare, a qualunque costo, ottenendo il risultato opposto a quello desiderato.

Tra una giornata extra a New York, un provino di “Ballando con le Stelle” durante una partita, e il libero accesso ai voli della squadra per i membri della sua “posse” familiare (com’ebbe a definirla Phil Jackson), s’ingenerò una situazione pessima, dalla quale LeBron (pur avendo le sue belle responsabilità nel crearla) fuggì in direzione Miami, lasciando l’iracondo Dan Gilbert a sbrogliare la matassa.

Se errare è umano, perseverare è autem diabolicum, e i Cavaliers non ci misero molto a ricostruire lo stesso meccanismo a base di favoritismi attorno alla nuova star della franchigia: Kyrie Irving da Duke University, prima scelta assoluta del draft 2011. In seno alla squadra (nuovamente affidata a Mike Brown, dopo la disastrosa parentesi di Byron Scott) nacquero dissidi tra Irving e Dion Waiters, testa calda che mal tollerava questo modo di gestire la squadra, e ci si ritrovò a tenere un “players-only meeting” già a novembre.

Intanto in Florida LeBron conosceva un grado di successo mai assaporato prima, con Dwyane Wade, Chris Bosh, e tante, tante vittorie. Gli Heat costituiscono un animale completamente diverso rispetto ai Cavs; sono un’organizzazione spregiudicata, capace di cavalcare le stelle del momento (Shaq nel 2004, e i Tres Amigos sei anni più tardi) ma salda nei propri principi, aspri e forti come il carattere di Pat Riley, autentico demiurgo della franchigia di South Beach.

L’ex allenatore di Lakers e Knicks provò a costruire un rapporto forte con la sua nuova stella, e James per un po’ apparve sensibile all’allure dell’uomo più incredibilmente anni ottanta ad aver mai calcato la superficie del pianeta. Alla lunga però, LBJ si rese conto di aver poco potere negoziale nei confronti di un allenatore mai amato –Erik Spoelstra– e che le gentili concessioni di Gilbert e Ferry non sarebbero state possibili nella franchigia del vecchio leone Riley.

Quando, dopo il secondo titolo, LeBron arrivò con la lista dei nomi da prendere, Riley e il proprietario, Micky Arison (armatore di navi da crociera con la sua Carnival), fecero spallucce, mandando James su tutte le furie. Ne beneficiarono i Cavs, che, dopo la sconfitta subita da Miami per mano degli Spurs, riaccolsero il figliol prodigo alla corte del nuovo allenatore, David Blatt, e soprattutto di Irving, che aveva appena inchiostrato un prolungamento da 94 milioni in cinque anni, e che undici giorni dopo si trovò degradato al ruolo di secondo in comando.

Ritornato in Ohio, LeBron riprese il filo del discorso dove lo aveva lasciato, aggiungendoci il tono paternalista e prometeico di chi ha vinto e vuole condividere il fuoco sacro del successo con i compagni di avventura. Prese sotto la propria ala protettrice un recalcitrante Kyrie Irving, e ingaggiò una guerra silenziosa con Gilbert, che non voleva licenziare David Blatt in favore di Mark Jackson, più gradito al prescelto e vicino alla scuderia di Klutch Sports, agenzia di proprietà di Rich Paul, Maverick Carter e di LeBron James.

Tra spintoni, insubordinazioni e frecciatine, il Prescelto minò l’autorità di Blatt in tutti i modi, salvo poi negare ogni accredito una volta licenziato il coach, sostituito dallo schieratissimo Tyronn Lue, che si trovò nella bizzarra posizione di subentrare il 22 gennaio in una squadra col miglior record della Eastern Conference, allenando l’All-Star Game e vincendo il titolo a giugno, nel rocambolesco 4-3 che ha interrotto la “secca sportiva” di Cleveland dopo oltre mezzo secolo.

Già perché in tutta questa storia, si rischia di dimenticare che James è un fuoriclasse di quelli che, come diceva Gary Payton, passano una volta ogni vent’anni, un incredibile concentrato di doti atletiche e di talento, una locomotiva-vincente con tre anelli e quattro MVP. Un giocatore del genere troverà sempre un trattamento di riguardo ad attenderlo, ovunque decida di giocare; non tutti però, sono pronti a lasciargli fare l’allenatore e il GM ombra, com’è accaduto a Cleveland.

Gilbert per la verità, ha anche provato a fare il duro in un paio d’occasioni, ma si è solo tirato la zappa sui piedi; forse esistono General Manager migliori di David Griffin su piazza, ma che senso ha lasciar scadere il suo contratto, senza aver pronto un sostituto (se non Chauncey Billups, che non ha mai ricoperto incarichi dirigenziali, e infatti ha declinato l’offerta), lasciando a Koby Altman (GM ad interim successivamente confermato in pianta stabile) la gestione di cosucce di poco conto, come il possibile arruolamento di Jimmy Butler e Paul George?

Forse Gilbert stava tenendosi aperta la possibilità di una riconferma di Griffin in caso di titolo, ma ricordate cosa dicevamo all’inizio? Conta avere una “team culture”, e il licenziamento di un GM non può dipendere da una Finale NBA vinta oppure persa.

Per giunta, se vorrà andarsene, tra dodici mesi, la modalità della cacciata di Griffin offrirà a James una scusa perfetta; i più attenti hanno notato che LBJ ha trascorso l’estate senza reclutare nessuno per i Cavs, in apparente polemica con la direzione societaria.

In questa matassa assai ingarbugliata, s’innesta l’affaire-Irving. Kyrie è cresciuto tantissimo rispetto ai primi anni di professionismo, quando le sue sfuriate realizzative erano più episodiche, e la sua capacità d’incidere con teatrale maestria ad altissimo livello era concetto assai vago.

Complice anche la tutela del suo mentore Kobe Bryant, Irving è migliorato esponenzialmente, trasformandosi in un closer d’altissimo livello; Kyrie ha innestato sul suo ball-handling celestiale una tale varietà di soluzioni da renderlo virtualmente immarcabile.

Nonostante i plausi pressoché unanimi e le stagioni vincenti (prima dell’arrivo di James, ne lui ne Kevin Love avevano disputato una singola partita di Playoffs), Irving covava però risentimento verso la franchigia per quel ruolo da superstar assoluta che aveva sfiorato nell’estate del 2014, prima del ritorno di LeBron James e del circo che lo circonda, che lo hanno relegato in un ruolo avvertito (a torto) come marginale.

La situazione dei Cavs è l’esatto opposto di quella vissuta dai Warriors l’estate scorsa, quando caricarono a bordo Kevin Durant, ansioso di far parte di una cultura sportiva in cui non si contassero i possessi, improntata a una maggior condivisione del pallone e delle responsabilità.

Irving era viceversa geloso del trattamento di favore riservato a LeBron, conclamato uomo franchigia, e così, non potendo togliere il timone dalle mani di James, ha deciso di guadare il suo personale Rubicone, chiedendo una cessione inattesa e per certi versi assurda, nell’epoca dei super-team.

La domanda di cessione di Irving è diventata di dominio pubblico con una tempistica pessima, perché i principali “pezzi” pronti a spostarsi sullo scacchiere NBA sono già accasati, e delle destinazioni predilette, solo Minnesota avrebbe articoli pregiati da offrire. Rimane New York con Carmelo Anthony, la cui reputazione però ha toccato il punto più basso della carriera, e per giunta sarebbe la terza ala in un roster che ha già James e Love, e che abbisogna di talento tra le guardie, anche al netto della firma dell’enigmatico Derrick Rose.

Koby Altman vorrebbe un pacchetto completo, con scelte, una stella e un giocatore futuribile; in astratto è una richiesta perfettamente ragionevole, poiché parliamo di una superstar venticinquenne, già campione NBA, che ha segnato 25.4 punti di media in stagione e regolare e 29 in Finale, ma tutti sanno che Cleveland ha una pistola puntata alla tempia, e quindi difficilmente Altman troverà franchigie disposte a svenarsi per ottenere Kyrie Irving, che pure, ha una reputazione molto salda tra i front-office NBA.

Il ragazzo convinto che la terra sia piatta ha movimentato molto l’estate e la geografia della National Basketball Association, in un momento in cui i valori in campo parevano abbastanza assestati, con una Cleveland padrona assoluta dell’Est, e i Golden State Warriors a dominare l’Ovest. Washington e Toronto fanno all’improvviso un po’ più paura, ma restano ancora un paio di gradini sotto ai Cavs. I Boston Celtics sono invece un caso a parte, perché si sono rinforzati, e se Cleveland dovesse fare un passo falso, saranno lì, pronti ad approfittarne.

Qualcuno pensa che Danny Ainge potrebbe anche mettere le mani su Kyrie Irving, ma ci sembra fantascienza; Boston ha giocatori e scelte da offrire, ma non crediamo che Cleveland (già esposta allo sberleffo) vorrà rischiare di rinforzare una diretta rivale.

Detto di New York con Melo Anthony (lui vorrebbe andare ai Rockets), resta Miami, che però non ha grandi asset pronto-uso adeguati alle esigenze di Cleveland. Si è parlato molto anche della possibile trade con i Phoenix Suns (che lavorerebbero ad un pacchetto imperniato su Bledsoe e non vogliono privarsi del rookie Josh Jackson), ma al momento ogni scenario è probabile nella medesima misura, inclusa la possibilità di ritrovare Irving ancora in maglia color vinaccia, come se nulla fosse successo.

A pensarci bene, potrebbe non essere un’esito così sorprendente. Irving ha mandato un messaggio molto chiaro a tutti, incluso LeBron, e la sua uscita ha fatto onde che non hanno lasciato indifferente nemmeno King James. Missione compiuta?

2 thoughts on “Kyrie Irving, Cleveland e l’ombra di LeBron

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