Dove li avevamo lasciati prima di addentrarci nella noia generata dall’assenza di pallacanestro giocata, cancellata momentaneamente dalle sole gite su hoopshype per guardare gli ultimi rumors su Carmelo Anthony? Ah, eccoli là i Celtics, fermi alla conclusione di una stagione che per molti lati è stata da ritenersi soddisfacente, e che per molti altri ha comunque messo in luce i limiti di una squadra che alla fine dei conti ha dimostrato di non aver così fortemente a che fare con quel seed numero uno conquistato più per merito di qualche inopportuna inciampata dei Cavs di fine regular season che non per altro, questo perlomeno a giudicare dal pesante esito della più recente delle edizioni di finale della Eastern Conference.

Di positivo c’è l’aver potuto testimoniare con una determinata concretezza la risultanza di tutto il lavoro di ricostruzione operato da Danny Ainge negli ultimi quattro anni, una serie di mosse che non ha fatto soffrire troppo a lungo gli affezionati del team del quadrifoglio in attesa di rimettere in sesto i pezzi per una nuova corsa verso i piani alti della Nba, luogo cui questa franchigia appartiene oramai di diritto dopo numerosi decenni di inimitabile argenteria.

Dai successi dell’epoca Doc Rivers e del triumvirato Pierce/Garnett/Allen, difatti, non è poi passato così tantissimo tempo, e l’insediamento di Brad Stevens quale head coach del nuovo corso è maturato con il poco scotto di sole due stagioni dal record perdente, la seconda delle quali in ogni caso sufficiente per promuovere Boston ai playoff 2015 quale ottava forza di un debole schieramento ad Est.

Dalle 25 vittorie della prima annata dell’ex-Butler in panchina si è difatti passati alle 53 affermazioni della stagione appena conclusa, gettando delle premesse completamente differenti in ottica di prospettive, facendo rientrare i Celtics nel giro delle possibili contender per il titolo, pur dovendosi ricordare pressoché costantemente che, per giungere ove desiderato, si debbono quanto prima accorciare le distanze nei confronti di King James.

La questione sta esattamente qui. Nessuno toglie ad Ainge i meriti di un operato rapido ed efficace – in particolar modo dopo aver turlupinato Brooklyn ed essersi costruito un futuro immediato a spese dei malcapitati Nets – ma ora qual è il passo che dall’ottimo porta all’eccellente? L’aver aggiunto una terza superstar può essere considerata una mossa sufficiente ad avvicinare le notevoli distanze nei confronti di Cleveland ed, eventualmente, Golden State?

In termini di situazione tecnica, l’arrivo di Gordon Hayward porta a roster un pezzo molto importante del puzzle, dato che la parola d’ordine del sistema di pallacanestro di Stevens è una sola: versatilità. La pluri-annunciata acquisizione risolve difatti un problema importantissimo, croce e delizia di una squadra che nei momenti caldi usava affidarsi quasi esclusivamente alle capacità funamboliche di Isaiah Thomas, noto risolutore di palloni scottanti nei quarti periodi ma pure giocatore evidentemente svantaggiato dalla stazza fisica, che faceva pagare notevole dazio dall’altra parte del campo attraverso appositi switch di marcatura opportunamente messi in atto dall’attacco avversario di turno, creando uno scompenso che non sempre si riusciva a risolvere a favore di Boston come la serie contro Cleveland è poi andata a dimostrare.

Hayward garantisce una più equa distribuzione dei possessi ed un più ampio recupero delle forze per il terribile piccoletto, il cui usage rating è passato dal 34% generale al 46% in situazioni clutch, ed aggiunge al sistema un elemento in grado di finalizzare positivamente le situazioni di contropiede, circostanze nelle quali Gordon ha portato a casa 1.38 punti per ciascun gioco condotto in transizione (secondo di tutta la Nba dietro a Jimmy Butler) pur trovandosi in un contesto offensivo dai ritmi assai più ridotti rispetto a quello che utilizzano i Celtics.

A ciò si aggiungono le note doti di tiratore da fuori, migliorate fino a farne un realizzatore appena sotto il 40% da oltre l’arco, una versatilità offensiva che gli permette di segnare con continuità sia con il jumper, sia partendo dal pick’n’roll, che a seguito della ricezione dopo il taglio, e di viaggiare con soddisfacente frequenza in lunetta, dove il suo 84% abbondante è una sostanziale sicurezza per tutti i liberi aggiuntivi che riesce a procurarsi. A conti fatti, sembra proprio l’addizione che serviva a Boston per togliere le attenzioni da Thomas, costringendo le difese a scegliere.

Difensivamente Hayward arricchisce un roster già attrezzato con diversi giocatori in grado di tenere a bada più posizioni, seguendo la logica tecnica di uno Stevens che mira ad annullare i vantaggi generati dagli switch di marcatura predisposti dagli allenatori avversari, cercando di evitare il più possibile che ciò accada quando Thomas è in campo, dati i letali risultati subìti durante i playoff.

Con Hayward in campo Boston potrà allestire, a seconda delle esigenze, sia un quintetto più fisico che uno schieramento più leggero e rapido, spostandolo a guardia tiratrice mettendo in difficoltà il difensore di turno data la stazza e l’altezza da cui rilascia le sue conclusioni, oppure posizionandolo da 3 in un contesto dove Al Horford va a schierarsi da centro, con tutte le conseguenze che ciò comporta a livello di squilibri di marcatura considerando il 35% con cui l’atleta dominicano centra il bersaglio quando scaglia le sue conclusioni da oltre l’arco, il che potrebbe rappresentare una significativa chiave di volta contro la versatilità che a loro volta le altre contender riescono a mettere in campo.

Ciò che Hayward non potrà risolvere è invece un problema che Boston si è trascinata per tutta la stagione scorsa, quand’è andata sotto a rimbalzo in numerose occasioni mettendo a rischio il prosieguo del suo percorso ai playoff proprio per l’anormale giganteggiare di avversari rientranti nella media e nulla più, confermando tutti i difetti che avevano portato la squadra a classificarsi solo ventiseiesima nel computo dei rimbalzi conquistati in regular season.

Sotto questa ottica non aiutano certo le rinunce ad Amir Johnson e Kelly Olynyk, con quest’ultimo lasciato andare per mere questioni di spazio salariale, ma se non altro un sostanzioso aiuto giungerà dal contributo di Marcus Morris – arrivato dalla trade sacrificale di Avery Bradley – un giocatore in grado di far valere le oltre 230 libbre di peso sotto le plance schierandosi in più posizioni, anch’egli dotato di un raggio di tiro in grado di allargare il campo.

Vero che Morris, che curiosamente si troverà invischiato nella faida per eccellenza della Eastern Conference ed avrà contro il gemello Markieff, non ha scritto statistiche rilevanti sotto i tabelloni, vero anche che a Detroit giocava al fianco di un’autentica macchina da rimbalzi come Andre Drummond, e nella sua nuova destinazione avrà certamente maggiori opportunità di tirare giù palloni. Sempre dai Pistons arriva poi una delle firme più recenti dei Celtics, Aaron Baynes, preso con la mid-level exception e firmato con un accordo annuale, centro che non dovrebbe patire grossi problemi nel diventare uno dei rimbalzisti più efficaci della squadra, dato il resto della dotazione a roster.

Sulla carta la costruzione architettata da Danny Ainge sta proseguendo verso la direzione giusta, pur dovendo risolvere alcuni punti di domanda come quello appena citato e tenendo sempre presente che le mosse del general manager potrebbero non essere terminate.

A conti fatti il roster presenta tre All-Star in grado di non calpestarsi i piedi reciprocamente, e va tenuto in forte considerazione il fatto che Ainge è riuscito a prendere Hayward creando successivamente lo spazio salariale idoneo al suo max contract rinunciando solamente a Bradley (d’accordo, non una rinuncia da poco, tanta difesa di qualità e secondo scorer di squadra…) riuscendo se non altro a mantenere in bianco-verde altri forti candidati alla partenza come Jae Crowder, preziosissimo per grinta e versatilità, e Marcus Smart, il mastino dei Celtics. Per il momento, chiaro.

Se ai già citati nuovi arrivi aggiungiamo le ulteriori potenziali crescite di Jaylen Brown, che bei segnali li ha già forniti durante gli scorsi playoff, e Terry Rozier, il quale è destinato ad un aumento di minutaggio, e completiamo il quadro con le belle prospettive fornite da un rookie versatile, maturo e fisicamente intrigante come Jayson Tatum (ennesimo tesoro ricavato dall’accordo con Brooklyn) ci pare proprio che i Celtics possiedano tutte le carte in regola per confermarsi tra le prime due potenze ad Est, a maggior ragione se includiamo nel ragionamento la dipartita di alcune stelle verso la costa opposta (George, Millsap), mossa che ha ulteriormente indebolito una Conference già in precedenza depressa dall’ovvia supremazia dei Cavs.

Infine, le motivazioni. Prima di tutte quel 1-4 con cui si è concluso l’impietoso confronto con la corazzata Cleveland, capace di guidare il punteggio in quella serie per 16 o più lunghezze per il 46% dei minuti totali disputati, segno che molti hanno interpretato alla stregua di una mancanza di merito di Boston di trovarsi in quella posizione a quel punto della stagione.

In secondo luogo non dimentichiamo l’unfinished business che Hayward e Stevens saranno determinati a portare a compimento, che risale a quell’annata collegiale in cui i due stravolsero il mondo della pallacanestro Ncaa arrivando ad un ferro dall’impresa più leggendaria di ogni epoca, lasciando un senso di vuoto che si spera venga colmato a Boston, luogo più adatto di tutti altri quando si tratta di mettere in campo la magia dei folletti ed il fondoschiena degli irlandesi.

5 thoughts on “I nuovi Celtics ed i conti in sospeso

  1. Mercato difficile da giudicare quello dei Celtics, inizialmente faceva pensare a grossi fuochi d’artificio, poi, col passare dei giorni, si è ridotto ad una corsa a ciò che era rimasto. H.è forte, conosce il coach di Boston ed è versatile, si tratta di ottima addizione, ma consentirà ai Celtics di sfidare veramente CLE? Personalmente credo di no, sul campo le distanze mi sembrano ancora forti, ma molti altri fattori potrebbero giocare a favore dei Celtics nella primavera 2018, fattori oggi lontani, ma tutto cambia al solito velocemente. Personalmente l’idea di cedere la pick 1 per la 3 non mi è sembrata una mossa ben riuscita: se cedi una scelta così in alto fallo almeno per un giocatore forte pronto subito di un team che ha deciso di ricostruire, scambiare la 1 per la 3 così non ha avuto senso a mio giudizio, tanto valeva prendersi il prodotto da Washington e vedere se è un vero campione. Perdere Bradley avrà ripercussioni negative sulla difesa e leadership, ma possibile che Ainge a campionato in corso faccia ancora mosse per rafforzare il team.

  2. Se i celtics prendo un mastino sotto canestro cattivo, grintoso, uno tipo Tristan Thompsons o Farried, per tutto il lavoro sporco difesa, rimbalzi palle recuperate e stoppate accorcerebbero di non poco il gap con i Cavaliers

  3. Ed invece arriva Kyrie Irving … cedendo Thomas, Jae Crowder, Ante Zizic e prossima scelta Nets’ 2018 1st pick… il tempo dirà se il rischio di questa trade porterà al titolo!
    Forse Boston ha ceduto troppo… ma ho qualche dubbio invece che possa essere la mossa giusta con Brown e Tatum in panchina…
    Vedremo!

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