Nell’era degli one-and-done, le valutazioni dei prospetti collegiali fluttuano quanto i titoli in Borsa, impennandosi per una buona partita e deprimendosi per una serata storta; lo ha scoperto anche Joshua O’Neal Jackson (per tutti Josh), ala polivalente in uscita da Kansas, e scivolata fino alla quarta chiamata assoluta.

Non male, direte voi (e con voi, tutti i giocatori che non sono nemmeno stati chiamati sul palco, e che, da undrafted, dovranno costruirsi una carriera nei modi più avventurosi) ma la reputazione con cui Josh arrivò in NCAA era tale da farne un possibile rivale di Markelle Fultz per la numero uno assoluta.

In realtà, Josh Jackson (d’accordo coi Suns, che l’hanno chiamato) ha disdetto un provino privato con i Boston Celtics all’ultimo secondo (e dopo che la dirigenza bianco-verde al gran completo era volata a Sacramento apposta per vederlo all’opera), contribuendo a convincere Danny Ainge a preferirgli l’altra quotatissima ala piccola di questo draft -quel Jayson Tatum di cui scriveremo nei prossimi episodi di Road to the NBA.

Jackson è stato molto vocale circa la propria delusione per essere sceso fino alla 4 (ha detto di voler far ricredere le squadre che l’hanno passato), ma, sinceramente, non capiamo perchè si sia arrabbiato. Se voleva essere scelto più in alto può solo rimproverare solamente sé stesso e il proprio agente, B.J. Armstrong (l’ex playmaker vincitore di tre anelli con i Chicago Bulls), perché l’unica squadra top-3 interessata a sceglierlo era proprio la snobbatissima Boston, dove però l’ex numero 11 dei Jayhawks temeva di trovarsi chiuso da Jae Crowder e Jaylen Brown.

Posto che essere scelti alla 3 o alla 4 non fa tutta questa differenza (anzi, ci sembrano capricci belli e buoni), il pari-ruolo Jayson Tatum, sollecitato da coach Mike Krzyzewski, ha sostenuto un provino che ha entusiasmato i Celtics, senza farsi spaventare dalla prospettiva di dover lottare per un posto in quintetto, e senza lasciarsi andare a piazzate da Primadonna.

Josh Jackson aveva già incrinato la propria reputazione quando, il 9 dicembre, aggredì McKenzie Calvert, sua collega della squadra femminile di Kansas, inseguita in un parcheggio e presa a male parole, prima d’avere il tempo di chiudersi dentro alla propria vettura, cui Jackson ruppe un fanale e ammaccò a calci portiera e parabrezza in un accesso d’ira che l’ha condotto dritto-dritto dinnanzi al tribunale locale, e sulle prime pagine del Kansas City Star.

Josh, che aveva già avuto problemi simili (“roba vecchia”, dice lui), è stato condannato dal tribunale a seguire lezioni di anger management per un anno, ma Bill Self ha sbrigativamente liquidato la faccenda, sospendendolo per una partita. Non sorprende più di tanto, poiché il programma è costruito attorno alle superstar, e pazienza se possono essere, come dire… bizzose. Self ha dichiarato che “Se fosse stato un singolo evento non lo avrei sospeso, ma alla luce di altre cose con cui abbiamo dovuto confrontarci, mi è sembrato necessario”.

Jackson, come si vede nel video poco sopra, non da l’impressione d’esser divorato dai rimorsi, e anzi, ha rincarato la dose, dichiarando: “Tutti fanno errori; io sono contento di me stesso, di chi sono e di come sono diventato. Se qualcuno non è soddisfatto di come sono, non so proprio che dire”.

Josh Jackson è figlio di Apple Jones, che era stata una buona giocatrice di basket alla King High School di Detroit; Apple però non s’impegnava scuola, e quindi non risultò eleggibile per una borsa di studio in un college di Division I, finendo all’Allen County Community College, in Kansas.

In seguito ottenne il trasferimento a Texas-El Paso, ma frequentando i corsi di UTEP non poteva costeggiare le lezioni e cavarsela come aveva fatto fino a quel punto, e si ritrovò con una “pagella” a base di F e D. Stava eccellendo con la squadra di basket, ma a causa dei suoi voti, non poté giocare l’anno successivo, e così si ritirò da UTEP, arruolandosi in Marina.

Apple rimase incinta di Josh nel 1996 quand’era di stanza a San Diego, in California. Lasciò la Marina nell’ottobre del 1997, facendo ritorno a Detroit. Era ancora giovane, e in quegli anni la WNBA era agli albori; ottenne un invito al camp delle Washington Mystics, ma il professionismo avrebbe significato tanto tempo lontano dal figlio e dal compagno, Clarence Jones, e rinunciò al suo sogno.

Si dedicò allora ad allenare le ragazze nelle scuole locali, e a insegnare a Josh Jackson i dettami del suo basket, fatto di comprensione del gioco, più che di fondamentali puri e semplici, e di difesa; tanta, tanta difesa, che, nelle parole della signora Jones, è la chiave per rimanere sul campo.

Jackson, sassofonista nel tempo libero, diventò un nome noto a livello nazionale alla Consortium College Prep School di Detroit, viaggiando a 17 punti, 6 rimbalzi, 4 assist e altrettante stoppate da esordiente, per poi salire a 28 e 15 rimbalzi alla seconda stagione, ottenendo anche la chiamata ai Mondiali Under-17 di Dubai con la Nazionale a stelle e strisce.

La famiglia Jones-Jackson si trasferì nuovamente in riva al Pacifico, e Josh si iscrisse alla Justin-Siena High School di Napa (la famosa valle dei vigneti), giocando per la squadra di Prolific Prep, e per la formazione AAU fondata all’uopo dalla signora Apple, guadagnandosi anche la chiamata al McDonald’s All-American Game di cui fu nominato MVP (ex aequo con Frank Jackson, attualmente ai Pelicans).

Jackson era diventato l’oggetto del desiderio di tutti i reclutatori di college d’America, ma a spuntarla fu Bill Self, col suo programma sforna-stelle, che recluta talenti su talenti da spedire in dodici mesi al piano di sopra, a tutto detrimento della continuità del gruppo e della finzione dello studente-giocatore, ridicola foglia di fico cui, prima o poi, sarebbe il caso di porre rimedio.

Josh Jackson (per il quale s’era parlato anche della possibilità di andare un anno in Europa) annunciò la sua scelta con un tweet, e al campus di Lawrence ha raccolto quel che ci si attendeva in termini individuali e forse, anche di squadra (sebbene la rincorsa dei Jayhawks si sia chiusa senza l’approdo alle Final Four).

Jackson sbarcherà ai Phoenix Suns (reduci da 7 anni senza playoffs, e da un record di 24-58), dove il posto in quintetto è pressoché garantito, e potrà evoluire affianco all’altra stellina della franchigia, quel Devin Booker reduce da una stagione complessivamente inferiore alle –elevate– aspettative.

I Suns hanno un nucleo di veterani più che decoroso, che va dal centro Tyson Chandler ai due play della squadra, Brandon Knight e Eric Bledsoe, passando per alcuni role-player come Jared Dudley e Leandro Barbosa. Josh Jackson è l’ultima tessera di un puzzle di giovani che annovera il già menzionato Booker, Marquese Chriss, e Dragan Bender, rivelatosi molto più acerbo di quanto previsto da Ryan McDonough, il GM della franchigia dell’Arizona.

Jackson è un two-way player che contribuirà dal primo giorno a cambiare la mentalità di un gruppo perdente, aiutando in attacco e in difesa col suo talento e con una dote ragguardevole di atletismo, senza togliere spazio offensivo a tre giocatori dominanti sulla palla, come Bledsoe, Knight e in fondo, anche Devin Armani Booker.

Nel suo anno ai Jayhawks (31-5 il record), Jackson si è inserito con grande naturalezza all’interno del meccanismo di coach Self, senza spodestare nessuno, e lo stesso è capitato nel corso della sua esperienza in Grecia, ai Mondiali Under-19 del 2015, quando si accontentò senza problemi di un ruolo complementare ad Harry Giles, Jalen Brunson (dopo un primo anno difficile a Villanova, si è riscosso nel 2017, e resterà ancora alla corte di Jay Wright) e Jayson Tatum.

Jackson non da mai l’impressione di nascondersi nelle pieghe delle partite (come faceva ed esempio un altro ex-Kansas: Andrew Wiggins dei T-Wolves), tanto che il suo UsgRt è un ragguardevole 27.2%. Sa fare la point-forward in modo egregio, ma non gli si può affidare un attacco NBA per 48 minuti, e non è uno scorer che sa sempre come costruire i propri canestri in isolamento (il suo 20% dalla media distanza è esemplificativo).

Josh Jackson può essere veramente efficace in una pallacanestro di flusso (oggi molto in voga, ma più predicata che eseguita), nella quale può far tutto (finire nel traffico, tirare, passare la palla o aiutare in difesa) con grande costrutto, pur senza eccellere clamorosamente in niente; insomma, quest’ala cresciuta nella cittadina operaia di Southfield, in Michigan, è un all-around player fatto e finito.

Un altro elemeno che rende Jackson particolarmente adatto all’NBA contemporanea è la sua capacità di interpretare due ruoli (2-3, più che 3-4) in modo fluido su due lati del campo, usando la rapidità per difendere contro gli esterni avversari e per aggredire le ali nei close-out.

Jackson ha un offensive rating di 122.3, cattura il 17.4% dei rimbalzi difensivi e trasforma in assist il 18.2% dei suoi innumerevoli possessi, ma non si è dimostrato abile palleggiatore in situazione di pick-and-roll e andrà forse peggio in NBA, dove il blocco in movimento è semi-legale, e i difensori che escono per fare “show forte” hanno più taglia e atletismo. La sua produttività in questo tipo di situazioni lascia perplessi: parliamo del 28% al tiro in p&r e in isolamento!

Josh chiude il suo anno di NCAA con medie ottime ma non straordinarie: 16.3 punti a partita, 7.4 rimbalzi, 3 assist e un buon 51% dal campo (37.8% da tre, con una meccanica perfettibile), ha però un impatto che trascende le classiche cifre; anche il suo più grande difetto (il carattere, diciamo così, levantino) può diventare suo alleato se incanalato nel senso di una sana competitività sportiva, alla Tony Allen.

A volte invece, l’abbiamo visto scomporsi in atteggiamenti à-la-DeMarcus Cousins che possono portare un giocatore a deragliare, travolto dalle sue stesse emozioni, e dalla pressione, diventando troppo aggressivo e incorrendo in problemi di falli che l’hanno limitato contro Oregon all’Elite Eight (mettendo comunque a segno 12 rimbalzi, 5 assist e 10 punti, con, certo, 4 falli e 5 palle perse).

È un dato da non sottovalutare, perché in NBA occorre sapersi far scorrere certe cose addosso (un fischio sbagliato, un arbitro che non premia una difesa “onesta”, un avversario fin troppo garrulo) ed evitare di provocare gli arbitri; se Josh Jackson non riuscirà a controllarsi, rischierà di iscriversi alla robusta schiera di giocatori eternamente sull’orlo di una crisi di nervi, cui le zebre non vedono l’ora di appioppare un bel fallo tecnico.

Un altro difetto di Josh è il suo tiro, dalla meccanica discontinua e talvolta inefficace; a febbraio, quando tirava da 3 col 48%, le sue quotazioni si impennarono, sulla scorta di una serie di prestazioni folgoranti, ma quando non segna, la sua pericolosità offensiva si limita al contropiede (situazione nella quale sa peraltro scoccare dei gran passaggi).

Non avendo un grande controllo del palleggio, si potrebbe concludere che le sue percentuali scarse nascano dal modo in cui raccoglie il pallone, ma non è così, come conferma un terrificante 56.6% dalla linea della carità. Peraltro, nonostante la tendenza ad attaccare dritto per dritto, palleggia sempre a testa alta, il che è positivo, e gli consente di vedere bene i piazzamenti in campo.

Sarà un eccellente atleta anche in NBA (al netto di un torace un po’ gracile, e di braccia non troppo lunghe) grazie al primo passo esplosivo, alle doti da saltatore e alla velocità, utile specialmente in campo aperto, dove eccelle anche grazie a piedi più che discreti, ma qualcuno ha notato le mani, un po’ piccole, che non gli consentono d’avere un controllo jordanesco dell’attrezzo (Michael teneva il pallone come un’arancia!).

Anche a causa della presa men che perfetta, Jackson non è sempre preciso quando si tratta di finire nel traffico, situazione in cui sconta la struttura fisica poco imponente. In compenso ha buoni istinti cestistici e non si ferma mai, taglia e sa andare aggressivamente a rimbalzo (anche se non soprattutto in attacco), caratteristiche tipiche del giocatore dinamico, che trova sempre un modo per rendersi utile alla sua squadra anche quando il tiro non entra.

Per questi motivi Josh Jackson da l’impressione –in prospettiva futura– di poter essere al suo meglio in un ruolo da role-player d’alto bordo, nel quale non gli sia chiesto imperativamente di mettere 20 punti sul tabellone, quanto piuttosto di contribuire diffusamente, difendendo forte, catturando il rimbalzo e conducendo il contropiede, o fungendo da playmaker secondario, tutte cose che può fare benissimo ai massimi livelli.

Pur essendo un cestista discretamente sviluppato, Josh può ancora migliorare molto sia tecnicamente (si è detto del tiro e del controllo di palla) sia sotto l’aspetto mentale, anche in difesa, dove è in grado di “schienare” gli attaccanti, ma a volte esagera con le scommesse e si fa trovare fuori posizione per cercare l’intercetto, o caccia troppo la palla e incorre in falli evitabili.

Essendo un freshman nato nel febbraio 1997, è possibile che col tempo Jackson corregga tutti i suoi difetti, diventi più costante al tiro e resti lucido dinanzi alle avversità, gestendo la sua enorme competitività. Non esistono però certezze in un senso o nell’altro, e anche per questo motivo, varrà la pena seguirlo da vicino nella sua stagione da rookie coi Suns, quando, inevitabilmente, le occasioni per sentirsi frustrato non mancheranno; come reagirà?

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