Mezzo luogo comune, mezza verità. Si dice, nel basket come in altri sport, che una squadra forte è capace di vincere anche quando gioca male.

Gara 3 ha mostrato le prime incrinature nell’armatura degli Warriors, non perché Golden State non si sia espressa al massimo delle proprie possibilità, ma perché Cleveland li ha costretti per la prima volta nella serie a inseguire forzandoli, specie a cavallo fra terzo e quarto periodo, a un attacco meno fluido di quello visto nelle due sfide di Oakland.

Il momento di massimo slancio dei Cavs è infatti coinciso con scelte affrettate dall’altra parte, tiri scoccati senza muovere la difesa e prima di posizionarsi a rimbalzo. Ma avere Steve Kerr in panchina ti permette di recuperare la lucidità e rimanere a contatto di due possessi nei minuti finali. Avere Kevin Durant in campo, invece, colma quel distacco e ti fa vincere la partita in rimonta.

Gara 3 è stata senza dubbio la partita più bella di queste Finals, forse la più avvincente degli interi playoff; idee tecniche, esecuzione e intensità a livelli altissimi per entrambe le squadre. Cleveland non lascia nulla d’intentato e rasenta la perfezione. Il problema di coach Lue è che non puoi chiudere la porta in faccia a questi Warriors, semplicemente non puoi.

Se da una parte recuperi lo smalto offensivo di un comprimario come JR Smith (16 punti) dall’altra non puoi aspettarti che eviti le consuete cattive letture difensive; altrimenti si chiamerebbe Klay Thompson – su di lui torneremo. Allo stesso modo, se lodi Kevin Love per i rimbalzi offensivi e il costante impegno in difesa, non puoi affossarlo perché spara a salve dall’arco; altrimenti si chiamerebbe Kevin Durant – pure sul suo conto un paio di parole le spenderemo.

Non avrà la magnitudo del game winner di Kyrie Irving in gara 7, ma the shot nelle Finals di quest’anno porta la firma di KD

Guardiamoci in faccia e chiediamoci: se gara 3 fosse finita nel forziere dei Cavs, come pensavamo fino a un paio di minuti dal termine, quanto avremmo creduto in una serie riaperta? In quale universo Cleveland sarebbe sopravvissuta ad altre tre partite con quel livello d’intensità – ricordiamo i 46 minuti in campo di James e i 77 messi a segno da lui e Irving?

Se Golden State riesce a piazzare la zampata anche nella sua partita più difficile, è ancora una volta grazie alla versatilità. Nel primo quarto Cleveland esce forte dai blocchi e intrappola Curry sui blocchi, forza i Dubs a 18 palle perse totali, poi battezza nuovamente i tiri di Green e Iguodala, più qualsiasi iniziativa di Pachulia e riserve assortite – stavolta, anche grazie al supporto del parquet amico, ottiene migliori risultati con 1-6 di un Dancing Bear particolarmente esitante dall’arco.

A togliere le castagne dal fuoco ci pensa allora Klay Thompson, che per inciso sarebbe il tuo terzo o quarto miglior giocatore, con 30 punti in 18 tiri in perfetta economia.  Finora nella serie tiene la palla per 5 minuti e 101 tocchi totali: fanno 0,464 punti a tocco.

Ancora sulla versatilità. Avevamo parlato di come Golden State fosse stata abile nello sfruttare gli spazi in campo aperto e i canestri facili nel pitturato, con le attenzioni della difesa tutte rivolte al perimetro. Stavolta si torna ai vecchi fasti, ed ecco un primo quarto che registra l’ennesimo record con 9-14 di squadra nel tiro da tre punti.

Le rotazioni scelte da Steve Kerr meritano un discorso a parte. Concede qualche minuto in più del previsto alle riserve, e fa alzare qualche sopracciglio togliendo Steph dalla mischia nel momento in cui, con le sue iniziative, stava rintuzzando da solo l’offensiva dei Cavs nel terzo quarto.

Poi però, a differenza del collega Lue, si ritrova gli uomini più freschi nei minuti finali. Tiene Green in quintetto nonostante incappi in problemi di falli (è la terza volta consecutiva – se consideriamo anche le sue prestazioni non brillantissime, viene il sospetto che subisca LeBron mentalmente oltre che tecnicamente), evitando di riproporre Durant da centro come in gara 2. Piuttosto sceglie l’opzione David West, assai interessante perché non consente ai Cavs il lusso di ignorare lo spot di 5 come fanno con Pachulia e McGee.

A Cleveland non sanno più cosa inventarsi per mettere i bastoni fra le ruote agli Warriors: qui provano, senza successo, a generare crisi d’identità in Mike Brown mettendogli alle spalle il suo doppelgänger tra la security

Nel post-partita LeBron James ha parlato del rispetto che nutre per Kevin Durant e della sua scelta di unirsi ai Warriors. Ha messo l’accento sul concetto di sacrificio, necessario per scendere a patti con un roster pieno di stelle, e difatti KD è stato magistrale nel ritagliarsi il proprio spazio, ergendosi a leader nel momento più importante.

L’umiltà di Klay Thompson la conosciamo, è quella che non gli consentirà di vincere il trofeo di MVP nonostante, a tratti, paia meritarlo più del compagno col 35, e una nota sull’argomento vale la pena spenderla anche per Steph Curry. I suoi 13 rimbalzi non sono quelli che ti aspetti dalla tua point-guard, e anche certi sforzi difensivi non passano inosservati.

Oltre ai 13 rimbalzi, la misura del sacrificio – effort – di Steph Curry sta nell’ottimo closeout che altera il tiro – costruito benissimo – di Korver

Per chiudere la serie in Ohio, e obbligare Klay a regalare un tostapane a ciascun compagno, molto dipenderà dal morale dei Cavs. Non ci stupiremmo se la vittoria Warriors in gara 3 avesse piegato l’orgoglio di Cleveland. Il 3-0 di quest’anno pesa più del 3-1 del 2016, non tragga in inganno la semplice differenza di una cifra.

Salvo cali di tensione, i Dubs hanno tutto il necessario per archiviare la pratica già stanotte. Sono così forti che persino un Green in difficoltà tecnica non rappresenta un problema, anzi resta capace di incidere seppure in misura ridotta.

Ingabbiato Tristan Thompson in una serie nerissima sul versante rimbalzi e spinti fuori dal gioco i veterani dei Cavs, semplicemente incapaci di reggere simili ritmi, basterà affidarsi a un Kevin Durant che in tre partite scrive 34 punti, 10 rimbalzi e 6 assist di media, col 52% nel tiro dall’arco – “le migliori tre partite di Durant per i Warriors dai tempi delle Western Conference Finals del 2016”, ha suggerito qualcuno.

L’obiettivo è il primo 16-0 ai playoff nella storia dei maggiori sport americani. Se gara 3 è stata un inno alla bellezza del basket, gara 4 potrebbe assumere le sembianze di un marchio da apporre su quel libro dei record per aprirne, chissà, uno nuovo.

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