Che poi io sto pezzo manco lo dovrei scrivere.

La stoppata di Ginobili in gara 5, la vittoria di 40 (!) punti in gara 6 in trasferta, gli infortuni, la falsa partenza.
Divento emozionale.

Sapete però che vi dico per una volta? Chissenefrega.

Ve la voglio anche spiegare meglio: quando si parla di Spurs, e si toccano i nomi “Duncan” e “Ginobili” per me è una questione di famiglia. Come se scendesse in campo mio fratello o un cugino molto stretto, uno di quelli con cui sei cresciuto. Per farla breve, mi è impossibile essere imparziale.

Prometto che eviterò di cadere in quei toni celebrativi che i miei sentimenti suggeriscono PERÒ qualche dettaglio che rende e ha reso questa franchigia unica, e probabilmente irripetibile non solo nello sport americano, verrà inserito qua e là, con un po’ di faziosità (roba scontata, quasi quanto questa rima).

Quindi, in ordine, prima vediamo la serie (parte asettica) e poi facciamo il punto per provare a trovare degli indizi di come sia possibile che una squadra nella NBA moderna faccia 20 playoff consecutivi, fra rivoluzioni contrattuali, invecchiamento delle stelle, scelte “basse” nei draft e super team che pagano luxury tax smodate per accaparrarsi fenomeni e vincere nel minor tempo possibile (parte faziosa). Vintage e avveniristici allo stesso tempo da 20 anni. Roba che dovrebbe essere raccontata da Isaac Asimov.

Però, prima la serie contro Houston scusate, le cose veramente interessanti ce le teniamo per il finale

La semifinale della western conference è partita subito in salita per i nero-argento che sono stati immediatamente blitzati in casa da Houston con un Harden (20 punti e 14 rimbalzi, accompagnati da 4 rubate e addirittura da accenni di difesa) in versione deluxe. Non si capisce bene se i meriti siano del gameplan di Mike D’Antoni oppure se è semplice deconcentrazione degli Speroni ma finisce con quasi 30 punti di scarto. San Antonio parte malissimo, sembra stanca, come se fosse rimasta ancora al “take that for data” di Memphis, così Houston, decisamente più sul pezzo, ruba il fattore campo con una prestazione solida di James Harden e Trevor Ariza (23 punti per lui) in aggiunta all’effort di Berverly che ha mosso pochissimo la retina del canestro ma tantissimo i piedi in difesa. Dall’altra parte si salva solo Kawhi Leonard (21, 11, 6) comunque sotto tono rispetto al solito.

Tutti inutili o quasi i tentativi di sfruttare Aldridge che fatica a inserirsi nell’ennesima gara di postseason: l’ultimo avvistamento risale alle prime due partite di semifinale dell’anno scorso contro OKC dove aveva strabiliato con 40 di media e poi.. la caduta in un pozzo, un rapimento o chi lo sa. Ce lo chiediamo ancora tutti compreso Popovich (che durante la regular season non ha lesinato frecciate al nativo di Houston) e la stampa (locale e no), che quando butta bene lo definisce un giocatore “senza cuore”. Ok che doveva raccogliere una eredità non proprio banale e le aspettative erano elevate, però…

Fra tutte le cose successe fra gara 1 e gara 2 nel quartier generale degli Spurs ci è dato -come al solito- sapere poco ma se è ricomparso pure Tim Duncan, spaparazzato in lunghi colloqui con Lamarcus Aldridge durante una sessione di allenamento, la cosa doveva essere parecchio seria.

Il contenuto di quei colloqui verrà forse desecretato fra 50 anni, insieme al plico della CIA sull’undici settembre, quindi i due potrebbero aver parlato con le stesse probabilità di leadership, di win or go home, di Pop oppure di quanto sono rincarate le zucchine al mercato di San Antonio.
Fatto sta che si arriva a Gara 2 che per gli Spurs è in tutto e per tutto un elimination game.
La vincono, lo diciamo subito: si salvano con una prestazione notevole del solito Leonard (sempre più erede di TD in campo e fuori: per fargli aprire la bocca serve un divaricatore chirurgico) e di Gasol (in quintetto stavolta) che è il “centro” e al centro degli adjustments di San Antonio, che riesce a contenere meglio Ariza (2 punti), Harden (13 punti con il 17% circa dal campo) e Lou Williams (4 punti in diciotto minuti).

La serie si sposta a Houston sul 1-1 e sembra sempre più uno scontro fra due filosofie di gioco antitetiche e senza mediazioni: D’Antoni radicalizza ancora di più, se possibile, il gioco mostrato durante tutta la regular season mentre Popovich sposa la struttura con i due lunghi, che al momento sembra premiare gli Spurs (il discorso è chiaramente più complicato di così ma fatemela passare per un attimo).

Giusto per rimarcarlo, colloqui con Duncan o no, la foto di Aldridge è ancora dietro i cartoni del latte. Soffre gli accoppiamenti con Nenè, (molto più fisico di lui) e sembra non riuscire mai a sfruttare le rotazioni senza il brasiliano dove Anderson, Capelà e Harden (!) riescono a fargli preferire lo scarico ad ogni qual cenno/finta/primo passo/movimento-del-sopracciglio-destro che faccia presagire un raddoppio.
I Rockets sembrano meno smaglianti rispetto alle prime due gare ma, avendo rubato li fattore campo, hanno fatto capire a tutti che vogliono fare sul serio.

Fortunatamente mi sbagliavo (ogni tanto qualche cenno di imparzialità concedetemelo).

Non scriverò molto sulle due gare successive (la 3 e la 4); ho usato le prime due per parlare un po’ delle scelte dei due coach e del mindset delle due franchigie ma, sinceramente, di partitoni per adesso manco l’ombra.

Posso dire con tranquillità che anche in gara 3 e 4 chi durante l’half time, farcendosi gli hot-dog nei chioschetti disseminati per l’arena (esperienza mistica quasi quanto andare a vedere i playoff NBA), si è attardato mancando l’inizio della seconda metà di gara, non si è perso poi ‘sta roba epocale. Nei due successivi episodi della serie, giusto per la cronaca, le due squadre si dividono la posta con gli Spurs che blitzano a loro volta alla prima in casa e i Rockets che pareggiano con un deciso 126 a 99 nell’episodio successivo della serie.

2-2, palla al centro e tutti a San Antonio.

L’unica cosa importante da segnalare riguarda il capitolo infortuni: Nenè e Parker, playoff finiti per entrambi.
L’assenza di Nenè, modifica drasticamente le rotazioni di D’Antoni mentre quella di Parker beh.. che ve lo dico a fare?
Al suo posto parte il rookie Dejounte Murray (in gara 4) che oltre ad un dittongo finto nel cognome ha prodotto fin ora ben poche cose interessanti; il ragazzo ha mezzi fisici, braccia lunghe e gambe svelte (altro colpo di c…o degli Spurs negli anfratti dell’ultimo draft?) ma è ovviamente molto acerbo. Importante anche il contributo e l’aumento dei minuti in campo (da 8-10 a 15-17) di Simmons.

Jonathon Simmons è uno di quelli di cui mi piacerebbe parlare, ma ora non si può ed è un peccato.
Dico solo che la cui storia personale di un giocatore che 3 anni fa ha pagato 150$ per un provino in D-League e che ora è sta giocando da protagonista un playoff NBA, meriterebbe un libro a parte e scritto da qualcuno molto ma molto più bravo di me.
I minuti extra sono legati all’infortunio di Parker, è ovvio, ma lui ha fatto in modo di meritarne sempre un numero maggiore grazie alla pressione difensiva che mette su tutto ciò che ha una canotta rossa e gioca a basket.

Gara 5, ci siamo: faceoff.

Le scelte di D’Antoni sono chiare: che segni Murray (quando entra, perché Pop dopo gara 4 ha messo ai nastri di partenza Patty Mills), che tiri Simmons con spazio ma proviamo a rendere faticose le ricezioni profonde di Gasol e Aldridge e fare qualsiasi cosa per limitare un po’ Leonard (aruspici, fatture e cecchini dalle tribune inclusi).

Le due squadre si affrontano a viso aperto giocando un buon basket da subito.
San Antonio domina la prima parte della gara mentre Houston la parte finale del secondo quarto e tutto il terzo. Ogni qual volta una delle due squadre allunga leggermente i due go-to-guy, intesi come Leonard e Harden (finale con tripla doppia per lui con 32, 10, 10), testardamente riportano le compagini a contatto. Nessuna delle due formazioni si rassegna alla sconfitta e quando arrivano i 12 minuti finali il punteggio è in sostanziale parità: la tavola è apparecchiata per il gran finale.

Gli Spurs sono in una fase della loro vita in cui sono molto Leonard-dipendenti. Quindi che fare se Kawhi mette male un piede e gira la caviglia?

Sarebbe un bel casino, ma, vabbeh, mica succederà.

Non esce subito dopo la distorsione, ci prova lo stesso da zoppo, sbaglia qualche tiro di troppo e qualche appoggio facile (per lui) alla fine il gonfiore e il dolore aumentano e l’overtime lo vedrà dalla panca.
I regolamentari finiscono con la palla della vittoria in mano agli Spurs (!): si gioca per Mills ma il gioco viene rotto da Gasol che rimane abbracciato nel pitturato con Capelà.

Pop non l’ha presa esattamente bene.

La gara termina con Popovich in versione “Carletto Mazzone” e con il catalano a marcire (prevedibilisssssssimo) in panca per tutto l’overtime.

Che belle queste cose, che belle le squadre che riescono a farle.
Mi riferisco a quando -e chiunque abbia vissuto gruppi sportivi di un certo livello lo sa bene-  un allenatore ha uno spessore tale da poterlo fare e da farlo (le due cose sono molto, ma molto, ma molto diverse).
Che cosa, vi state chiedendo?
Parlo del non mettere nessuno sopra gli altri, nessuno sopra le regole comuni: così fu per Duncan, per Ginobili e ora è così per Gasol alla fine di gara 5. Una roba quasi impossibile nella maggior parte delle altre franchigie, spesso troppo intente a compiacere le superstar.
Ce lo vedete un altro allenatore qualsiasi fare una cosa simile a LBJ? Licenziato il giorno dopo insieme ad una diffida della Nike per vietargli di indossare in pubblico il “baffo” per il resto della sua vita. Come minimo.
Questa -intendo il rapporto fra allenatore/superstar/squadra- è una di quelle cose che per anni è stata capita poco fuori da San Antonio, a volte guardata anche con diffidenza, ma ora, dopo una prova dei fatti durata 20 anni, sono sempre maggiori i management che vogliono degli ex-Spurs in ruoli tecnici/gestionali importanti (Cleveland, Golden State, OKC, Atlanta, giusto per citarne un paio).

Dove eravamo? ah si, Leonard fuori: La partita è andata per i nero-argento. O forse… Ma no, impossibile.
Le ultime speranze degli Spurs sono legate ad un certo Emanuel David “Manu” Ginóbili che oggi sembra proprio ispirato per la sfortuna di coach D’Antoni e dei suoi Rockets.
Ispirazioni a parte, per l’argentino però, sarebbero “anche” 39 primavere e per quanti bagni possa aver fatto nella fonte di Cocoon a tutto c’è un limite.

E invece no, quando ci sono in ballo certi personaggi non è finita finché le squadre non sono rientrate negli spogliatoi.

Il finale è roba da Hollywood: 107-110 per gli Spurs, palla in mano ai Rockets che la affidano (ovviamente) ad Harden con le briciole sul cronometro.
Qualche palleggio e poi si alza da tre, per pareggiarla.
Ginobili semplicemente lo cancella con una stoppata da dietro, che arriva con un tempo scenico perfetto.

3.2. Senza Parker e Leonard: Classic Spurs

Ginobili che a 39 anni suonati fa ancora ‘ste cose, è la parte bella della storia.

Harden in choking è la parte brutta.

La parte divertente, come sempre, ce la regala il web:

Siamo arrivati al sesto capitolo, a Houston: primo elimination game vero della serie.
Match point sulla racchetta degli Spurs in casa dei Rockets.

Poco prima della gara leggo che Leonard non sarà disponibile e penso:
“Lunedì c’è da tenersi la mattina libera a lavoro; domenica notte c’è gara 7, e le gare 7 si guardano in diretta.
Speriamo nell’uovo domani perché di gallina, stanotte, non se ne parla proprio.”

Invece poi è successo quello che tutti abbiamo visto…

Sia chiaro, a me (il “me” tifoso) va bene anche così: quando ci sono gli Spurs di mezzo io la sportività non so proprio che sia. Però certo che è proprio strano questo sport.

Gara 6 nemmeno vale la pena di riassumerla o analizzarla. Io ad esempio l’ho vista in diretta  e quando uno dei ricordi più vividi è legato agli artisti dell’half time (il violinista pop, però era simpatico dai) è chiaro che la partita è stata modesta (eufemismo).
Di bel gioco nemmeno l’ombra, come dei Rockets del resto, semplicemente non pervenuti.
Si ok, ci sarebbe da dire qualcosina su Simmons e sul fatto che hanno recuperato Aldridge dal pozzo in cui era caduto un anno fa, di Murray e Mills e soprattutto qualche critica ad Harden e ai Rockets.

Sui primi non ne voglio parlare perché (se tralascio un attimo l’anima del tifoso) non sono nemmeno riuscito a capire quanto sia merito loro e quanto demerito di Houston.
Sulla seconda barbuta voce invece, si parla di James Harden ovviamente, non mi va di calcare la mano perché non sono un assetato di tragedie, chocking/melting e via dicendo.
Mi limiterò solo a dire un paio di cose:

  • James Harden
    Ha fatto così schifo che non possiamo neppure parlare di chocking: per “cioccà” (a la romana) in campo ti devi presentare. La prestazione flebile, chiusa con una espulsione per falli -sembrata quasi volontaria, come per levarsi da quella marea di guano che stava montando- mi è quasi “dispiaciuta” perché getta ombre sul giocatore, sul leader, sul possibile MVP e, francamente, oltre ad essere inaspettata e lasciarmi senza parole, non penso nemmeno sia meritata come conclusione di una grande stagione di un giocatore che a me piace parecchio.
    A guardarlo ieri però sembrava tutto completamente sbagliato, non so, come la pizza con l’ananas o la pasta condita col ketchup. È semplicemente “sbagliato”.
  • I tifosi di Houston
    So bene che ‘sto mondo è ingiusto e so anche che passare dal sottofondo “MVP! MVP!” ad una standing ovation finale fatta da 12 persone circa (numero totale degli spettatori rimasti al Toyota center nel momento dell’espulsion di Harden) è facile ma, almeno per me, è troppo per non far storcere il naso.
    Immagino che mi andrete contro dicendo che lo stesso Harden ubriaco in discoteca poche ore dopo non ha meritato l’onore delle armi o qualsivoglia compassione ed io fatico a darvi torto.

  • “James Harden put up more shots at the club then he did in Game 6”
    Bella la battuta pubblicata su twitter, meno la felpa Gucci.
    Per me è quella la vera nota stonata, mica la gara.
    Scherzi a parte, inizio con un banalissimo “io non l’avrei fatto”. Però credetemi che nelle delusioni è difficile fare i conti in tasca agli altri: c’è chi sta a casa a covare, chi ha bisogno di uscire e rovinarsi per non pensare, c’è chi legge un libro. Io non credo ci sia un modo “giusto” in senso assoluto, però, ad ogni modo, non capisco come sia possibile che dei miliardari abituati alla gestione pubblica della loro immagine (con cui guadagnano milioni su milioni) facciamo ‘ste cazzate. Mah, affari loro.
    A me, se dopo una gara storta finisco nel mio club preferito, l’unico che prova a farmi foto con un drink in mano è sempre lo stesso ragazzo del bangladesh che poi la foto prova a rivendermela a 5 euro.
    Non penso nemmeno ci sia su twitter o su Instagram. Lucky me:)
  • Gli altri Rockets
    Tutti si stanno concentrando su Harden (condivisibile in parte) dimenticandosi dei comprimari che sono stati a dire poco penosi e SOPRATTUTTO della gestione di D’Antoni che ha ridotto le rotazioni all’osso, spremendo (come al solito, oserei direi) i giocatori fino alle estreme conseguenze. Non sono un grande fan della coerenza nelle tattiche sportive e ancora meno di Mike D’Antoni, anzi.
    In generale non sopporto, vale anche nella vita di tutti i giorni, quelli che di fronte ad una idea che sembra funzionare non riescono ad adattarla un pochetto alle circostanze, al momento, alle occasioni.
    Tutto questo comunque mi fa ricordare un’altra cosa: se quella sera del 2012 i Buss, al posto di leccare due rospi allucinogeni, prendono Phil Jackson e lasciano D’Antoni a fare bricolage, magari i Lakers non ne vincono altri due (ma non ci avrei scommesso troppi soldi contro) ma di sicuro tutti noi ci saremmo goduti altri 4-5 anni ai massimi livelli di Kobe (e magari New York avrebbe un GM ed un roster degno del Madison Square Garden).

Scusatemi, l’ultimo punto c’entrava poco ma dovevo svuotare il sacco dell’umido, era a casa da troppo e puzzava.

Gli Spurs sono in finale di conference per la ennesima volta consecutiva.
Non mi viene manco voglia di contarle: sono tante e potevano pure essere una o due in più, o una in meno, ma non credo farebbe alcuna differenza.

Quello invece che fa differenza è quello che abbiamo (è ovviamente iniziata la parte faziosa) a San Antonio; ovvero quel sistema per battere la stessa lega che ciclicamente quasi “obbliga” le franchigie a rifondare per garantire il ricambio generazionale e -cosa molto importante per il pubblico americano- dare eque possibilità di emergere a tutte le piazze cestistiche. Qui invece il duo Popovich-Buford ha fatto saltare il tavolo, creando un tipo di eccellenza basata su un metodo di lavoro (tecnico E manageriale) quasi estraneo al mondo sportivo professionistico americano. Una sorta di virus. Viste la connessioni con un modo un po’ vintage di vedere lo sport, i suoi campioni ed i gruppi, se fossero un monumento o un quadro, potremmo definire gli Spurs “neoclassici”, forse.

Infatti, in una lega (ma potremmo dire facilmente le stesse cose in generale per la società a stelle e strisce) eccessivamente basata sull’ego e sull’hero-basketball i San Antonio Spurs sono un “filino” in controtendenza, preferendo ai banner con la faccia delle stelle e lo showtime, i quadri con le frasi del socialista Jacob Riis (SO-CIA-LI-STA, ve lo riscrivo ancora più lentamente?) appese qua e là nelle facilities dove si allenano per far capire che il lavoro di gruppo, le regole, il sudore sul campo sono le cose importanti e non l’hype, i commercial e gli shoes deal.
Dimostrare a questo mondo, ed in primis a tutti quelli che mettono piede in quel sistema, che si può star bene, vincere, vincere molto e per tanto anche senza essere per forza costantemente sotto i riflettori. Anzi.

Rubo le parole di un ex Spurs passato anche dalle nostre parti per tradurre in esperienza vissuta quello che provavo a dirvi poco fa.

Nel 2012 Langford (non Tim Duncan, insomma) nel suo blog scrisse:

“Nel 2007 ho giocato brevemente nei San Antonio Spurs (molto brevemente). Lo dico non per vantarmi di aver giocato nella NBA ma per portare alla luce una lezione che ho imparato e si applica alla mia squadra di ora. Sono così orgoglioso di presentarvi Jacob Riis e lo “Stonecutter’s Credo”… “Quando nulla sembra aiutarti, mi piace guardare uno spaccapietre e come martella la sua roccia, forse anche cento volte senza mai avvertire anche una piccola crepa. Poi al cento-unesimo colpo, la pietra si spacca in due. E io so che non è stato l’ultimo colpo a spaccarla ma tutti quelli che ci sono stati prima”.

Ecco la mentalità vincente! Io ho trascorso poco a San Antonio ma ogni giorno quando entravo nello spogliatoio quella frase scritta e incorniciata mi guardava da un posto dov’era facilmente leggibile da tutti. E’ interessante perché a quel tempo, da ragazzino, capivo cosa significasse ma al tempo stesso non lo capivo. Adesso, seduto qui a scrivere, la capisco perfettamente. Significa che devi colpire la pietra. Significa che se fai qualcosa in cui credi, devi continuare a lavorarci ogni giorno. Significa che sei hai un allenatore e giocatori in cui credi, li sostieni al 100% perché sai che alla fine completeranno il loro lavoro.

Avevo scritto qualche altra riga su questo punto ma poi l’ho cancellata. Basta il virgolettato sopra. Chi non ha già capito non potrà mai capire quello che sto provando a dire, nemmeno con spiegazioni più raffinate.

Se ti avvicini agli Spurs, tutte queste cose le senti, ti affezioni e, come per magia, tutte le altre squadre ti sembrano meno saporite. Ti inizi a chiedere come facciano gli altri a tifare quelli lì che fanno i pagliacci dopo una schiacciata, quelli lì che non hanno uno spogliatoio compatto e twittano di tutto appena qualcosa non va bene, che fanno sceneggiate da cantanti neomelodici del sud italia se non hanno spazio a sufficienza nelle rotazioni, che quando il giocattolo non funziona più (proprio per come è strutturata la NBA) prendono e cambiano verso la prossima franchigia per provare a brucare un altro titolo appena il cap-space glielo permette.

Inizi a sentire e vedere la storia in divenire di questa squadra, fin dai draft, capendo che ognuno entra nel sistema-famiglia-esercito Spurs per una ragione e che quel sistema serve proprio per proteggere e dare spazio ai giovani e coltivare al massimo le loro potenzialità atletiche E umane.

Quindi non abbiamo una chance contro gli Warriors o i Cavs? Lo so, ma st….zi. So benissimo che non ne abbiamo abbastanza per le altre due serie.

E non ho voglia neppure di fare l’ipocrita: ho un carattere molto competitivo, mi incazzo pure se perdo a dama contro cuginetti e nipotini, fate voi, e mi piacerebbe arrivare in finale e vincere ogni anno, è ovvio.
Voglio però provare a farvi capire che a me (e credo un po’ a tutti quelli a cui piace questa squadra) tutto questo pesa leggermente meno, perché vedo il disegno complessivo e so che gli “insuccessi” sono generati da questo modo di fare sport che è l’unico che posso amare e l’unico che mi piace seguire con passione.

e, nel 2017, dopo 20 e passa anni, di questo spettacolo ho almeno altri quattro episodi da vedere.
Buone finali di conference a tutti:)

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