Siamo nell’estate 2017, Los Angeles, Staples Center.

Tutti indossano abiti leggeri e sono molto seri. Glenn Anton “Doc” Rivers, arriva lentamente, sale sul palco, prende la parola in un silenzio incredibile ma adatto all’occasione -è un funerale dopo tutto- schiarisce la voce e guarda le prime file. Incrocia gli sguardi di CP, DeAndre e Blake, quello di Balmer e di Clippy, la graffetta di Microsoft Word (anch’essa in abito scuro), guarda per un attimo due magazzinieri pieni di lividi in faccia dopo una serata con Blake Griffin e infine Matt Barnes anch’esso sfatto (per colpa.. beh siamo ad LA e questo è Matt Barnes, che ve lo dico a fare), si commuove un po’, poi si ricompone e mestamente inizia il discorso leggendo da un foglietto stropicciato:

“Dovevamo vincere qualcosa, è vero, sarebbe stato bello e forse anche doveroso ma, per citare un comico che la sa davvero lunga, sarebbe stato come se il coyote acchiappasse beep beep.
Oggi sono qui per dirvi che il coyote non acchiappa mai beep beep. Punto.” Applausi.

Fossi stato lì, fermati i battiti di mano, la prima cosa che avrei fatto sarebbe stata alzare un ditino, come uno di quei secchioni sempre al primo banco, e balbettare: “scusi sig. coach e gm Doc Rivers, sul vincere magari ne parliamo dopo ma già arrivare in finale (di conference dico) non sarebbe stato poi così male”.
Sbam. Altra incudine marchiata “ACME”.

Già perché i Clippers una misera finale non l’hanno mai disputata: né come Clippers di Los Angeles, né quando con lo stesso nome giocavano a San Diego (1978-84) e neppure nella preistoria con il nome di Bufalo Braves (1970-78). Non fanno quindi ovviamente parte delle 19 franchigie che dal 1950 (anno in cui la lega ha preso il nome di NBA) hanno vinto il titolo ma la lista non include la squadra angelena nemmeno se allarghiamo la ricerca alle partecipanti alle Finals o a quelle di conference. Per dirla come i moderni: Mai una gioia.

I Clippers hanno sviluppato in oltre 30 anni il particolare potere di risvegliare quella parte brutta, presente in tutti noi, che ha sempre voglia di guardare Sisifo che porta su il pietrone inutilmente facendosi un “mazzo tanto” senza muovere un dito e prendendolo pure un po’ per il culo appena tutto ri-rotola giù, aspettando divertiti solo la prossima (prevedibile) disfatta. Questo è quanto.

Per capire invece come questo sia possibile è necessario fare il punto della situazione in casa Clippers analizzando il presente e guardando al futuro che, avrete capito, non vedo particolarmente roseo, per usare un eufemismo.

Per farlo però concedetemi, senza insultarmi troppo, di tralasciare dando per scontati tutti i motivi per cui negli anni hanno strameritato appellativi come “la parte sfigata di Los Angeles” (reale), “maledetti/dannati” (ne parliamo dopo ma ci credo poco), “eterni perdenti” (da questa non riuscirebbe a scagionarli manco Giulia Buongiorno), i “Sisifo della NBA” (geniale, rubata) e le vicende che li hanno messi al centro di interi siti web di battute di professionisti (mi hanno regalato mezzorette piacevoli), di battute di amatori (spesso migliori di quelle dei professionisti), gag esilaranti in diversi tv show (pure Leno la sua doveva pur dirla), post-tweet-meme (fa-vo-lo-si).

Di tutto quello che è uscito fuori dal “deep web” quindi vi butterò ogni tanto qualche pillola, un po’ come quando al pacchetto di Fruit Joy spunta la viola (e se preferite le altre potete anche smettere di leggere:) ) tipo:

What is the difference between the Los Angeles Clippers and a mosquito?
A mosquito sooner or later stops sucking
.

Con la speranza di limitare i miei sproloqui, farvi leggere tutto il pezzo alla ricerca della battuta successiva ed elemosinare benevolenza per non dir nulla su: Moses Malone, scelte scriteriate nei vari draft (facciamo il nome di Holawakendi? Andata!), l’annetto e mezzo di Bill Walton nella sua San Diego, l’eredità di Bob McAdoo, infortuni e trade “indecifrabili” con quel pizzico di Hollywood che insaporisce sempre tutto in modo unico.

Magari funziona. Toh un’altra:


Torniamo seri, o almeno qualcosa di simile, provo a farmi capire meglio: che non abbiano mai vinto è ovvio, che non ci siano arrivati nemmeno vicini è storia, ma almeno negli anni recenti, come diavolo si è consumata questa vicenda?

Io vedo tre, forse quattro, momenti salienti in cui tutto poteva girare, e almeno due di questi hanno come protagonista un ragazzo del North Carolina, registrato all’anagrafe con il nome di Christopher Emmanuel Paul.

Cp3 decide di portare il suo talento ad LA nel Dicembre del 2011 (sarebbe dovuto andare si ad LA, ma dall’altra sponda solo che il commissione David Stern aveva idee diverse…) raggiungendo Blake Griffin (prima scelta assoluta del 2009) e un giovane centro con doti atletiche “discrete” dal nome DeAndre Jordan, draftato con la 35esima scelta nel 2008.

Fino a quel momento io ricordi dei Clippers, sia detto chiaramente, non ne ho mezzo.

Dei Clippers pre-era CP3 l’unico ricordo che ho è di un Elton Brand molto più forte di quello che era in realtà in un paio di videogames a cui ho devoluto numerose paghette e ore giovanili. Infatti i Clips delle ultimissime decadi (specialmente quelli dei capitoli finali della gestione Sterling) sebbene abbiano amministrato dei giocatori talentuosi (e.g. Davis e Livingston) e qualche buona scelta nei draft (Blake Griffins su tutti) non hanno mai assomigliato nemmeno da lontano ad una contender.

Tirare fuori i vari Elton Brand, Corey Maggette e Chris Kaman non è sufficiente per creare qualche aspettativa in anni in cui il Larry O’Brien Trophy veniva conteso da “giocatorini” tipo Kobe, Shaq, Parker-Ginobili-Duncan, Steve Nash, Dirk Nowitzki e via dicendo fino a tarda sera.

Quindi se vogliamo dare ai Clippers il ruolo di Sisifo della lega -o di Scrat dell’era glaciale, se preferite la versione dove al posto del masso in salita abbiamo una nocciolina che non si fa prendere era cestistica dopo era cestistica- l’unica cosa che può fare un uomo giunto all’ineluttabile trentina è dimenticare il passato troppo lontano e guardare unicamente gli ultimi 5-6 anni.

Prima di questo frangente quel benedettissimo masso se ne restava proprio a valle; se il nostro sfortunato Sisifo in canotta biancorossa ha provato a spingerlo, diciamo che non ha mai avuto le forze neppure per farlo rotolare in avanti di un centimetro.

6 anni fa invece, in un lampo, appena CP3 ha messo piede nella città degli angeli, la storia è apparsa immediatamente diversa. La rivoluzione era in atto: la squadra girava bene, 60% di vittorie MINIMO a stagione, sold-out nelle gare casalinghe, fans quadruplicati, Lakers umiliati a casa loro più e più volte, scritte “Lob-City” dappertutto.

La maledizione è rotta. I Clippers possono vincere tutto, dicevano.

Nell’estate del 2013 si unisce alla causa anche Doc Rivers e, dopo due anni di lavoro, arrivati facilmente ai Playoffs 2015 con un record di 56-26 (68.3% di vittorie) che gli garantì un terzo posto ad ovest ed eliminati gli Spurs in 7 sanguinosissime gare (con mio grande inc…disappunto da tifoso nero-argento) al secondo turno, i dubbi sembravano quasi tutti dipanati e i Clippers sembravano maturi per giocarsi il piatto grosso.

Sembravano.

E lo sembravano anche nella serie dopo quando, sopra 3-1, dopo due gare (la 3 e la 4 della serie) stellari, in cui hanno inferto ai Rockets ben 30 punti in media di scarto a partita, hanno perso quella che al tempo era stata descritta come una fisiologica gara 5 a Houston.

Sembravano.

Rientrati allo Staples Centre e sopra di una ventina di punti (ven-ti-na, per l’esattezza: 70-89 Clips) con due minuti alla fine del terzo quarto però tutto sembrava di nuovo in linea.

Sembrava.

Rivedendo il filmato a distanza di anni direi che il merito della cavalcata dei Rockets non lo attribuirei al flebile “C’on guys, c’on now, […] listen, hey! No home-run plays, solid plays, get the ball moving” di un coach McHale che sembrava già non crederci più tanto.

Fatto sta che senza capire bene come da qui parte un assurdo harakiri dei Los Angeles Clippers con un parziale da 50-20 (!) e una gara 7 che non vi dico nemmeno da chi sia stata vinta.
Vi dico invece che Josh Smith (si, quel Josh Smith) ha recitato in tutto questo un ruolo da attore protagonista.

Non poteva chiaramente venir fuori un filmone da oscar, infatti Houston dura pochi altri giorni e in finale a ovest ci va Golden State mentre i Clips tornano a casa, secondo me, con la consapevolezza che a quel gruppo è mancato, manca e probabilmente mancherà sempre un non ben identificato “qualcosa” per fare il definitivo click.

Per dare a quel gruppo quel mancante extra-quid di cui i sospetti erano già nell’aria da prima del “Rockets Gate”, il gm (sempre quel Doc Rivers lì) già dall’anno prima aveva tentato di puntellare la squadra, senza troppo successo a dirla tutta, con qualche veterano dal nome importante che ha fatto strizzare l’occhio ai nostalgici ma anche venire il voltastomaco agli addetti alle statistiche.

Il combinato di queste due idee, ovvero che il coach possa fare anche il gm e che prendere dei giocatori prossimi alla hall of fame, strapparli dal viale del tramonto per trasformali in un supporting cast stellare a me convince il giusto. Sono molto critico su entrambi i fronti pur stimando Doc Rivers (il coach) e pure adorando Paul Pierce e, vi giuro, non avevo bisogno di aggiungere questi ricordi alla mia cartella “The Truth”.

Se poi non bastasse l’esempio del “Doc”, tirerei subito in ballo anche l’esperimento newyorkese del “Zen Master” Phil Jackson  che non sta esattamente pagando dividendi altissimi e indicando nuovamente in modo deciso che le competenze per svolgere le due mansioni non debbano per forza andare di pari passo, anzi.

So che mi direte che ci sono stati quelli che la stampa ha battezzato come freak injuries che li hanno falcidiati (la perdita contemporanea di Paul e Griffin sopra di 2-0 nella serie contro Portland nello scorso anno e quella recentissima di Blake contro Utah) ma ad oggi non riesco più a dare troppo credito a chi mi dice che in questi due anni i Clips abbiano anche solo impensierito il gota della western conference.
Il gruppo ha avuto molte chance (2011-ieri) e per dirla nella lingua ufficiale della lega: they fell short several times.

Il secondo momento saliente di questa storia è quando nell’estate 2014 la lega ha deciso per una “rinfrescatina” della franchigia angelena forzando il passaggio di mano da David Sterling all’ex amministratore delegato di Microsoft Steve Ballmer (62 anni, e probabilmente altrettanti miliardi di dollari in banca).

Non ve ne parlo, è roba da complottisti, scie chimiche e alieni, ma questa storia  in cui un 80enne di religione ebraica per dei commenti telefonici privati (gravissimi e da condannare, sia molto chiaro: non voglio risultare equivoco su questo tema) sia stato bannato a vita dalla NBA e “costretto” a vendere un giocattolo comprato nel 1982 a circa 20 milioni di dollari per la modica cifretta di tipo 2 miliardi (stessa valuta di prima) nella “liberalissima e capitalisticissima” america, come minimo qualche retroscena che non ci hanno spiegato bene deve averlo..

Di tutto questo processo a me dispiace solo che sia andata male la campagna pubblica per cambiare la mascotte della squadra con la maledetta graffetta “Clips” di Microsoft Word, che avrebbe trasformato i Los Angeles Clippers in Los Angeles Clippys. Che amarezza.

 

Bisogna anche dire che ad oggi che il progetto Ballmer ha fatto un buco nell’acqua, la squadra sembra senza futuro. e con la stessa mascotte. Che amarezza.

Che poi in fondo per Steve Ballmer, fossi io il pubblico ministero, non chiederei il massimo della pena e addirittura non mi arrabbierei troppo se il giudice proclamasse l’innocenza piena: quali possono essere le colpe del milionario in un tempo così ristretto?

Sappiamo bene che la struttura della lega richiede una pianificazione pluriennale per inseguire dei risultati e spesso l’azione del management e del GM è rallentata, quando non proprio ostacolata o bloccata, da tutte le scelte di chi li ha preceduti.

Inoltre vorreste davvero dirmi che potremmo mai prendercela con uno che rilascia della roba del genere?

“The team can break even, it can lose a little money, it can make a little money.
[…]
I’m not afraid to pay luxury tax for us to win, so we’ll probably lose a little money here along the way.
[…]
I’m not gonna sell my team, I’m not looking for the dividend return, I’m looking for the fun, which means we’re looking for championships.”

Mai nella vita.
Queste dichiarazioni ci fanno capire due cose essenziali. La prima è che per contare i soldi di Ballmer bisogna usare le unita che la Disney aveva inventato per Paperone (tipo i fantastiliardi o i megamilioni) perché, è bene ricordare, che quando si parla di luxury tax si intende una cosina che può costare svariate decine di milioni di dollari (per esempio Cleveland per assicurarsi il roster della sua championship season ha dovuto staccare un “assegnetto” extra da 54 milioni di dollari).

La seconda cosa, forse ancora più ovvia, è che la post-season di questa estate sarà lo snodo essenziale per capire che fine faranno questi Clippers e se il masso di Sisifo finirà sulla Lob-City, mandandola definitivamente in frantumi.

L’argomento “trade” ci porta anche ad un altro momento intrigante in cui le cose per gli angeleni sarebbero potute andare diversamente e dare dei dividendi anche maggiori, anche se magari non nel brevissimo periodo.

Mi riferisco a quella funambolica trattativa di rinnovo che ha coinvolto un ragazzo di colore che non eccelle dalla linea del tiro libero che di family name fa Jordan. DeAndre Jordan è uno di quei personaggi che non passano tutti i giorni nemmeno nella NBA, uno di quei personaggi che ti costringono a modificare le regole del gioco, e CHIARAMENTE questo non è un complimento.

Guardando la situazione attuale, almeno dando credito alle dichiarazioni di dismissione che arrivano da diversi membri dell’organizzazione, ci sono grossi rischi che fra pochi mesi la riconferma del centro di Houston (5 anni a 110 milioni) potrebbe essere valutata in modo decisamente diverso.

Al tempo Marc Cuban (o Renato Pozzetto, scegliete voi, io la differenza non riesco a vederla. Per me sono una persona unica) che era pure andato inutilmente a Houston per parlare con il giocatore (che aveva prima “elegantemente” rifiutato di rispondergli al telefono asserragliandosi in casa con gli altri Clippers) in ogni caso la prese bene:

“If you f*** with me I f*** with you back”

e ancora

“You can change the owner, you can change the players, but the Clippers are who they’ve been for the past 30 years,”

– Marc Cuban

A me verrebbe di impulso da dire che un professionista a cui non è riuscito di alzare la cornetta per rifiutare civilmente e con cortesia un’offerta da 80 milioni di dollari in 4 anni,  inscenando oltretutto una simile pagliacciata, non riuscirà mai a far pace con sé stesso dalla linea del tiro libero, ma questa è cattivella; non la cancello, ma non ne vado nemmeno troppo fiero.

A carte scoperte, o per meglio dire a contratti firmati, i media (tutti in modo pressoché concorde) acclamarono i Clippers per aver confermato un gruppo tra i più talentuosi di tutta la lega, salvato la Lob city e annunciarono future cavalcate in stile vichingo verso l’anello a colpi di alley-oop.

Ne era convinto anche Paul Pierce che da casa di DeAndre mandava razzetti su twitter, facendo fra l’altro capire a tutti che non aveva la più pallida idea di cosa fossero le emoji:

Fidatevi per una volta, andate a dare una occhiata ai commenti al tweet (fra i tanti ho scelto questo: ‪”@paulpierce34‪ this is most old man shit I’ve ever seen”) e leggetevi qualcosa dell’intera vicenda che è, a mio avviso, la parte più bella di tutta quanta la trattativa. Potreste addirittura commuovervi ripensando ai momenti in cui avete provato a spiegare le emoji a genitori o nonni.

Sono comunque convinto che quei giorni rimarranno una possibile cornerstone per decifrare il presente e il futuro dei Clippers: Se DeAndre fosse andato via in quella estate i Clips sarebbero stati essenzialmente costretti a rifondare nell’immediato (non parlo solo del roster, ma piuttosto della struttura di gioco della squadra e del suo asse principale) in una NBA dove diverse stelle potevano ancora accasarsi nella parte sud della California e, soprattutto, al riparo dall’occhio del ciclone della ristrutturazione che sta infuriando sulla lega senza sosta.

E’ vero che il contratto con cui hanno firmato DeAndre è molto buono per un lungo di quell’impatto nel 2017 ma privarsene avrebbe forse evitato di infilarsi nel cul-de-sac in cui sembrano trovarsi ora, senza alcun vento in poppa, con una conference che sembra bloccata dagli Warriors e con due delle loro superstar alle prese con operazioni chirurgiche (affare risolvibile) e voglia di vincere qualcosa (affare molto meno risolvibile).

Specialmente per quello che riguarda l’ultimo punto, se teniamo conto che Chris Paul è un 1985 e non ha mai giocato una finale di conference non credo sia possibile tenerlo in una squadra che nel BREVISSIMO periodo non giochi per il piatto grosso e, voglio essere chiaro, riconfermare un gruppo che ha già fallito più volte per me non significa giocare per il piatto grosso.

Gli scenari rimangono comunque ampi (vale la pena ricordare che l’estate sarà calda anche per Blake e JJ Reddick) ma, sinceramente, rivoluzionare un roster e puntare a vincere qualcosa in questo clima, senza scelte particolarmente alte, con i contratti  delle superstar in scadenza e con pochissima inerzia data dai tonfi degli ultimi anni è un rebus molto molto complesso.

In aggiunta, il linguaggio del corpo di CP3 nell’ultima gara 7 contro Utah a mio avviso non lascia presagire nulla di buono per quanto riguarda la sua permanenza nel sud della California.

Il sospetto, abbastanza fondato per quando mi riguarda, è che dopo i recenti insuccessi il tarlo nella mente delle tre stelle (e non solo: andate a vedere le dichiarazioni di Livingstone e Reddick delle ultime settimane) che le loro personalità e modi di stare in campo “simply don’t mesh” per non ben precisate dinamiche, abbia scavato troppo e sia oramai impossibile da sradicare.

Se avete negli occhi gli ultimi 5 minuti di Chris Paul contro Utah (con tutti i limiti che hanno questi paragoni) ve ne ripropongo uno “leggermente” diverso

Quel canestro -contro l’aiuto di Duncan, su una gamba sola, nei due secondi alla fine di una soffertissima gara 7- rimarrà credo un testamento cestistico di un giocatore (a mio avviso) favoloso.

Dopo quella gara 7 del 2013. Ho rosicato, è ovvio, ma non più di tanto, ve lo giuro. Di sedie spaccate per terra come dopo il tiro di Fisher nemmeno l’ombra, per dire. Mi sono levato il cappello però, quello si, perché quando vedi negli occhi degli atleti certe cose, se ti piace davvero lo sport, te ne fai una ragione, batti le mani ad squadra più forte e pronta a fare quel salto to win big e vai avanti.

Mi sbagliavo però, oggi ne sono certo.

Contro Utah di tutto quello che si vede nel video qui sopra è sparito, la domanda ora è capire se quella determinazione sia recuperabile oppure se erano semplicemente gli occhi spenti di un ragazzo che sta per lasciare la fidanzata perché non l’ama più.

Diamoci qualche mese e vedremo un po’ che succederà.
Un abrazo:)

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