Crediamo di non sbagliare nel sostenere che nessuno si sarebbe legittimamente atteso un upset dei Thunder ai danni dei Rockets, nemmeno con il sostegno del presupposto dell’encomiabile stagione di mister tripla doppia R-West. 

Rimane tuttavia abbastanza sorprendente pure il fatto che i texani abbiano chiuso questa serie in sole cinque partite rivelando un equilibrio molto meno precario rispetto a quanto la carta aveva raccontato in sede di preview, soprattutto per le modalità con cui questo 4-1 ha preso forma evidenziando come Billy Donovan – pur peccando in fase di aggiustamento in corsa – avesse centrato la preparazione delle partite arrivando a togliere ai Rockets quelle stesse armi che ne avevano decretato il diritto di appartenenza alle migliori compagini viste in azione durante la regular season.

Ed è proprio quest’ultimo pensiero a spingere più degli altri la dose di incredulità nei confronti del risultato complessivo, smascherando le vere grandi pecche di una squadra troppo povera di alternative rispetto alla sua enorme superstar.

I playoff sono difatti un campionato completamente differente, una bestia da trattare in tutt’altro modo, il livello delle difese si alza, la creatività offensiva pone l’asticella un gradino in più verso l’alto, e ci si concentra ostinatamente nel battere l’avversario variando la sua natura, privandolo dei punti di riferimento che fino a quel momento sono stati motivi di agio e serenità. 

Questo è esattamente il compito che i Thunder hanno assolto molto positivamente, contribuendo a mutare i Rockets in una squadra dalle opzioni offensive limitate, che ha dovuto cercare continuità in attacco al di fuori delle proprie possibilità naturali, rappresentate per tutta la stagione regolare dall’efficienza da oltre l’arco e dai punti generati in contropiede.

Agendo sulle peculiarità di James Harden e sull’ovvietà del fatto che i possessi offensivi sarebbero inevitabilmente passati da lui, Donovan ha centrato la propria strategia difensiva nel chiudere le opzioni in pick’n’roll, mossa che non solo ha completamente azzerato i tre o quattro alley-hoop ad altissima percentuale di realizzazione che Harden usava spedire nelle mani di Clint Capela – questo è stato l’effetto minore – ma che ha soprattutto posto un forte limite agli assist del Barba a seguito di penetrazione nel pitturato, occasioni nelle quali attirava inevitabilmente verso sé almeno un difensore perimetrale lasciando libero uno dei tanti tiratori a disposizione del roster. 

Di questa libertà i Rockets hanno goduto davvero poco, lo si evince dagli appena 13 punti di media sommati da Ariza ed Anderson (due opzioni letali e responsabili di cifre offensive esattamente doppie in stagione regolare), nonché dal 28.4% complessivo da tre con cui i Razzi hanno chiuso questa prima serie di playoff, un dato che in teoria non avrebbe mai e poi mai permesso ad una squadra strutturata in questo modo di aggiudicarsi quattro gare su cinque.

Lo scontro ha quindi confermato ciò che già da tempo si sospettava, appesantendo la già non nitida situazione attuale di una OKC letteralmente priva di un secondo violino in grado di incidere offensivamente in tutte quelle occasioni in cui l’indemoniato Westbrook necessita di riposare, fatto che ha reso inutile la grande interpretazione difensiva che i Thunder hanno manifestato per lunghi tratti della serie, e che non ha reso possibile la chiusura anticipata di almeno un paio di gare dove i Rockets erano andati pesantemente sotto già nel primo quarto.

Dove ricercare quindi i motivi di una disfatta del genere nonostante dei presupposti gestiti così bene?

Facile dire che Donovan avrebbe dovuto provare a lasciare Westbrook in campo per tutti e 48 i minuti di gara 5, ma l’efficienza generica dei quarti periodi è una testimonianza piuttosto efficace dell’estrema stanchezza con cui il possibile Mvp stagionale ha dovuto affrontare le fasi più importanti di ogni gara dopo essersi spremuto al di là di ogni ragionevole limite umano per cercare di creare fluidità offensiva.

 Ogni rimonta di Houston, che nei quarti periodi ha segnato mediamente 10 punti in più degli avversari, è coincisa con una migliore reattività difensiva nei confronti dell’unica opzione realmente praticabile dagli avversari, agevolata dal fatto di poter riempire l’area a piacimento per scoraggiare le penetrazioni di Westbrook approfittando del lusso di poter lasciare smarcato a turno qualche (non) tiratore esterno, data l’esigua percentuale di pericolosità fornita dai vari Roberson, Abrines e soprattutto Oladipo. 

Il doversi inventare qualcosa di sostanzioso mentre la gara necessitava di essere decisa alla fine ha presentato il conto, creando situazioni come quella di gara 5, dove Russell ha semplicemente sbattuto contro il suo stesso serbatoio terminando il quarto periodo con 2/11 al tiro nel momento medesimo in cui i Rockets effettuavano l’ennesimo sorpasso decisivo, la tematica principe di tutta la serie.

Il problema più grave che Sam Presti dovrà affrontare durante la offseason sarà quello di capire come modificare sostanzialmente una squadra estremamente bisognosa di una seconda superstar senza godere di uno spazio salariale adeguato all’impresa.

Se i Thunder pensavano di possedere già la risposta tra le mura di casa questa prima stagione di Victor Oladipo dev’essere stata una delusione abbastanza forte. 

L’ex-Orlando è giunto al completamento del suo quarto anno professionistico senza mostrare progressi significativi o particolari ampliamenti del suo gioco rispetto all’anno da matricola, e la sua prima esperienza di sempre nei playoff si porta appresso giudizi più negativi che altro, data la sensibile diminuzione nel contributo offensivo (10.8 punti di media contro i quasi 16 della regular season), la scarsa consistenza delle percentuali al tiro (21% da tre), e soprattutto il fatto di aver risposto sostanzialmente assente in quei pochi momenti in cui gli veniva affidata la gestione di squadra con Westbrook in panchina (4/17 dal campo nella serie con Russ seduto), situazioni di cui avrebbe dovuto approfittare maggiormente per dimostrare il suo valore.

Non sono certo numeri degni di un giocatore che dall’anno venturo costerà alla sua compagine ben 21 milioni di dollari all’anno.

Cifre molto importanti sono altresì quelle che andranno a gonfiare il conto in banca di Steven Adams, anch’egli al termine del contratto da matricola e destinatario di 22 milioni di dollari, ma non sarà sicuramente lui a variare in positivo i destini offensivi di squadra, un compito che invece è stato assolto in maniera più che soddisfacente da Enes Kanter e dai suoi movimenti sotto canestro, ma per quanto istantanea possa essere la sua produzione in attacco anche in questi playoff è arrivata puntuale la dimostrazione di quanto si debba poi pagare in termini difensivi, con ogni Rocket a lui accoppiato lasciato a banchettare generosamente (vero Nenè?) raccogliendo qualsiasi tipo di rimbalzo offensivo da convertire in due punti facili. 

Dato il suo peso economico nel quadro complessivo (17 milioni di dollari), il candidato principale per qualsiasi operazione di scambio sembrerebbe essere proprio il turco.

La lista della spesa è davvero troppo lunga, e la disponibilità economica troppo bassa, ivi includendo pure la necessità di ri-firmare Taj Gibson, che pare essersi inserito molto bene nei meccanismi di squadra. Serve un giocatore di grande personalità che possa tenere alte le redini offensive di squadra nei momenti di riposo di Westbrook, peraltro privo di un vero backup di ruolo, manca un tiratore esterno (ci sarebbe piaciuto vedere un impiego maggiore per Doug McDermott, quasi dimenticato), e tutte quelle elencate sono figure che non ci pare di scorgere nella composizione del roster attuale, e che fanno comprendere fin troppo bene come l’unica soluzione attuabile a breve termine sia quella di attuare qualche ipotesi di sign & trade (Blake Griffin?) per soddisfare due esigenze in un sol colpo, quella della seconda superstar ed il liberarsi di qualche contratto poco adeguato rispetto all’effettivo rendimento sul campo.

Il futuro dei Thunder pare esclusivamente riposto nelle mani di Sam Presti e nelle sua capacità manageriali. 

Per Westbrook quella appena conclusa è stata senza dubbio una stagione individualmente indimenticabile ed incredibile che speriamo gli venga anche materialmente riconosciuta (se lo togliete alla sua squadra, chi più di lui è rappresentativo del concetto di Most Valuable Player?), ma se i risultati corali non dovessero significativamente variare in positivo entro breve tempo c’è sempre il pericolo che anche lui, al momento opportuno, faccia la fine di Kevin Durant.

Ed Oklahoma City non vuol certo essere ricordata per aver annoverato al suo interno grandi campioni che poi vanno a vincere ciò che conta altrove.

 

 

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