La tripla doppia di media di Russell Westbrook ha molti meriti. Gli è valsa un record che apparteneva a Oscar Robertson e ha fruttato ai Thunder, orfani di Durant, un decoroso sesto posto nella Conference.

Soprattutto, ha catturato l’attenzione degli appassionati in una stagione NBA che di temi non è stata affatto povera. Anziché delle sue mise originali o delle sue interviste scanzonate, stavolta Russell ci ha fatto parlare di pallacanestro. Un pregio indiscutibile.

Sul caso Westbrook la platea si è divisa come raramente prima d’ora. Sembra di essere tornati ai tempi del trasferimento di LeBron James a Miami coi soliti schieramenti tripartiti.

Da una parte gli haters – per riconoscerli, basta setacciare tutte le frasi che iniziano con “non sono un hater, ma…” Si narra che si radunino in cantine dove si ascolta musica indipendente e ci si interroga se l’avvento di Westbrook non segni il declino della civiltà occidentale, insieme ai deejay e ai fotografi di Instagram.

Dall’altra i lovers, che si tatuano il proprio eroe sulla schiena. In mezzo quelli che disdegnano entrambe le categorie e si vantano di non muoversi dietro ad alcun vessillo, non accorgendosi che non si può mantenere intatto il proprio candore intellettuale in una questione così accesa.

La passione del pubblico finisce talvolta per avere la meglio e nelle conversazioni il trasporto supera l’acume. Nel bene o nel male tuttavia, come direbbe il ritratto di Westbrook che invecchia al posto suo in una soffitta, l’importante è che se ne parli.

La querelle Westbrook è un terreno irto di spine, più provi a districarti e più rimani impigliato. Le uniche variabili imparziali sarebbero le cifre, ma persino quelle si lasciano interpretare.

I totali mostruosi in assist e punti segnati si spiegano con l’usage titanico che Westbrook ha tenuto in stagione, il più alto di sempre col 40.9%. In parole povere, la stragrande maggioranza dei punti che Oklahoma City mette a referto dipende direttamente da Russell e il suo impatto sulla squadra non ha paragoni: NBA Math mette insieme attacco e difesa in una categoria, Total Points Added, dove il numero zero scavalca Harden e persino il Jordan di fine anni ’80.

Il dato dei rimbalzi richiede un ragionamento più sottile, perché mai un giocatore intorno al metro e novanta d’altezza ne aveva catturati oltre dieci di media. La sterzata in direzione del tiro da tre favorisce quelle situazioni in cui il pallone schizza lontano dal canestro dopo un errore, e allo stesso tempo l’habitat dei big men si allontana dal pitturato.

Un rimbalzo lungo è più facile preda di una guardia, specie se atletica come Westbrook. Il numero zero è anche leader della lega in uncontested rebounds, vale a dire che insegue il pallone anche quando finirebbe fuori dal campo o in mano ai compagni, che glielo lasciano senza protestare.

L’avvocato del diavolo, però, propone spunti differenti. Russell Westbrook mantiene da anni un altissimo rapporto tra passaggi effettuati – pochi – e assist – tanti. Significa che il 20,8% dei suoi suggerimenti ai compagni serve a pescarli smarcati sotto canestro o per una tripla – solo John Wall fa meglio, con meno passaggi.

Chi ama la motion offense di Spurs o Celtics dovrà cercare altrove, ma si tratta nondimeno di una pallacanestro efficiente, ottimizzata sulle doti del roster a disposizione di coach Donovan. Secondo alcuni, l’incremento delle triple doppie (citofonare Harden, James e Antetokounmpo) è sospetto quando accade in concomitanza con una stagione 2017 che innesta la marcia superiore in termini di ritmo partita – league average che sale di cinque punti in due anni.

Oltre che incolpare il lassismo delle difese, una costante in qualsiasi regular season, gioverà considerare che gli attacchi hanno perfezionato la strategia del tiro da tre punti; questa sembra essere, verosimilmente, la stagione dove si è raggiunto il plateau.

Schemi come quelli disegnati da Rockets e Warriors obbligano le difese a coprire una porzione di campo amplissima, riducendone così l’efficienza. A ben vedere, Westbrook non è nemmeno tra i principali beneficiari di questa tendenza ed è costretto a operare in spazi più stretti. I suoi Thunder, poco talentuosi nel fondamentale, sono terzultimi nella percentuale da tre e diciannovesimi per numero di tentativi.

Un’ulteriore osservazione, per convincerci che sbattere la fronte sul muro è l’unico modo per venirne fuori. Se proiettiamo le cifre di Westbrook sulla stagione 1973 di Robertson, equiparando minuti giocati e possessi per partita – entrambi maggiori nei Bucks di The Big O – i numeri schizzano alle stelle: 52 punti, 17 rimbalzi e 17 assist.

Per chi vuole porsi la fatidica domanda, “cosa significa registrare una tripla doppia di media nella NBA del 2017”, questo confronto può rappresentare un buono spunto di riflessione.

Che Russell giochi con l’idea di riempire il tabellino è innegabile. Basti vedere la sfida con Phoenix dei primi di Aprile, dove si accaniva su una partita ormai ai titoli di coda pur di raggranellare statistiche utili al record, suscitando peraltro l’ostilità degli avversari. Coach Donovan l’ha spesso lasciato sul parquet in pieno garbage time.

Allo stesso tempo, che Westbrook giochi solo per le cifre è una falsità. Nell’ultimo mese, in piena volata per il premio di MVP, si è prodotto in un’arringa assai convincente trascinando i suoi a vittorie in rimonta su Magic, Mavericks, Grizzlies e Nuggets.

L’agonismo sfrenato di Russell trova soddisfazione soltanto nel successo; spesso ci si dimentica che sul curriculum, seppur condiviso con Durant, figurano presenze fisse ai playoff e finali di Conference, nonché il sanguinoso 3-1 dilapidato nel 2016 sui Warriors.

C’è chi obietta che, con simili livelli di usage e di attenzione maliziosa alle statistiche, altre superstar della lega potrebbero realizzare una tripla doppia di media. Forse è vero, e il pensiero corre subito ad Antetokounmpo e ai suoi impressionanti mezzi atletici e tecnici, ma senza la prova del nove è impossibile pontificare.

Per uno come il greco inseguire il record significherebbe forzare il proprio gioco in una direzione che non gli appartiene e che indebolirebbe il progetto di coach Kidd. Nel caso di Westbrook e dei Thunder, invece, le triple doppie sembrano il naturale esito di un percorso senza altri sbocchi.

Lasciargli tanta libertà d’azione non sarà la migliore delle soluzioni possibili, ma è quella ottimale per lo stato delle cose in Oklahoma. Non sempre ciò che è bello risulta anche più efficace. Anzi, spesso è il contrario.

Ricordiamoci delle eroiche Finals 2015 di LeBron, che accentrava i possessi e rallentava ogni azione per impedire alla difesa dei Warriors di aggredire i passaggi. Per quattro partite i Cavs, privi di secondo e terzo violino, sfidarono alla pari la squadra più forte della lega.

Per meglio inquadrare il problema accogliamo qualsiasi aiuto sia disponibile, e altre discipline ci vengono incontro.

Ogni gioco competitivo costituisce un sistema chiuso dove osservare, in vitro, la stessa legge che regola i ritmi biologici e stimola l’evoluzione. Quella della sopravvivenza del più adatto. Russell Westbrook è il prodotto di mutamenti adattivi che, attraverso trial and error, tendono inevitabilmente all’equilibrio.

Sostenendo che la sua pallacanestro sia un ritorno a passati meno nobili, si dimentica che sulla scala evolutiva non si compiono passi indietro. Né bisogna immaginare la pallacanestro di Westbrook come un mostro genetico. Gli agenti selettivi plasmano i loro oggetti poco per volta, secondo uno schema che è definito equilibrio punteggiato.

In altre parole, Westbrook è figlio del suo tempo e le prestazioni che ci fanno discutere sono rese possibili dal meta-gioco in cui opera. Si tratta di un concetto familiare a chi ha esperienza nei già citati giochi competitivi. Se simmetrici, come gli scacchi, gli strumenti per ottenere la vittoria sono limitati.

Se asimmetrici, come qualsiasi sport, le regole restano fisse ma le variabili da considerare aumentano a dismisura. Restando nel basket, scelte ottimali in un particolare meta-gioco (le azioni spalle a canestro dei lunghi anni ’90) perdono efficacia in presenza di condizioni differenti: interpreti meno abili, difese più pronte. Si sviluppano così contromosse che a loro volta generano altre tendenze.

Interpretare il meta-gioco significa contrastare le scelte degli avversari mentre si cerca di imporre le proprie. Gli esiti entrano in una catena evolutiva che premia il migliore e sfugge a qualsiasi forma di controllo. Per questa ragione confrontare epoche differenti, leggasi: meta-giochi differenti, è deleterio.

Nel 1995 Westbrook non sarebbe Westbrook, e nel 2017 Jordan non sarebbe Jordan. Inoltre, parliamo di uno sport di squadra e il campo d’indagine si amplia: in diversi meta-giochi, i Thunder non sarebbero i Thunder e i Bulls non sarebbero i Bulls.

Un punto lo concediamo volentieri ai detrattori di Westbrook. Il suo gioco va in una sola direzione e a un’unica velocità. Russell è un palindromo che corre e schiaccia; la sua condizione di esistenza è anche il suo limite.

Intorno a lui, per permettergli di esprimersi al meglio, i compagni devono adeguarsi al suo ritmo e concentrarsi sull’occupare la posizione corretta in campo. Non hanno spazio per una crescita individuale, né un coach decorato come Billy Donovan può disegnare schemi innovativi.

I Thunder vivono intrappolati nell’eterna ripetizione del presente, quel buco nero in cui Westbrook vive e fiorisce. Oladipo resta Oladipo, Steven Adams resta Steven Adams.

In altri lidi, invece, capita che la magica accoppiata D’Antoni-James Harden faccia sembrare gente come Patrick Beverley e Clint Capela eccellenti giocatori di pallacanestro, mentre LeBron James riesce nella mistificazione, ormai abituale, e ci convince persino che Iman Shumpert e Derrick Williams siano bipedi senzienti.

Questo però non fa di Westbrook un professionista che si accontenta. Ogni anno mostra miglioramenti tecnici e fisici, che sono ulteriormente degni di nota per uno che non è stato baciato dal talento dei grandissimi. A UCLA, il primo anno, scaldava la panchina.

Appena arrivato in NBA non tutti scommettevano su di lui. Non è un playmaker, non lo è mai stato, eppure smazza assist e il gioco passa dalle sue mani. Non è nemmeno un tiratore, non possiede la meccanica raffinata dei migliori, ma coi piedi dietro l’arco rincorre di pochi decimi la media della lega – e i suoi tentativi sono spesso ad alto coefficiente di difficoltà.

Quello che si scatena intorno a Russell Westbrook è anche un dibattito generazionale. Chi si è appassionato alla palla a spicchi ascoltando le gesta di Jordan o Bird non vede l’ora di crearsi un eroe contemporaneo, che gli appartenga; allo stesso tempo, chi si è affezionato agli idoli di un basket che non c’è più prova una certa invidia per l’entusiasmo delle nuove leve.

È il bias cognitivo più antico e incisivo di tutti, che ci porta a denigrare le esperienze altrui in favore di quelle personali. C’è un motivo se non abbiamo ancora trovato una lingua migliore del latino per descriverlo: laudatio temporis acti.

Mentre i fronti di haters e lovers scendono in piazza armati di cattive intenzioni, e quelli come noi che fingono di lavarsene le mani in realtà sono in mezzo alla mischia a prendere spintoni da entrambi gli schieramenti, Russell Westbrook porta a termine la sua missione senza curarsi di equilibri punteggiati o locuzioni latine. Probabilmente, se gli menzionassimo il bias cognitivo, lo riterrebbe una malattia contagiosa. Ha una sola domanda, che contiene anche la sua risposta: why not?

Una volta sviscerate le statistiche e analizzate le ragioni, forse sarebbe il caso di prendere esempio da lui e affondare un passo dentro quella sfera di imperativo assoluto che lo avvolge. Qui e ora, per sempre, c’è la pallacanestro. Chi ne è appassionato dovrebbe godersela, senza che prevalga l’ansia manichea di impartire colpe e meriti. Russell Westbrook è il manifesto di un’idea di basket. Può non piacere, e sicuramente il suo non è il migliore dei mondi possibili, ma è un’idea forte. Quando si parte, lo si fa sempre da zero.

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