Jerry Krause è morto lunedì, all’età di 77 anni, dopo aver sofferto per anni delle complicazioni legate alla sua obesità e all’osteomielite. Jerome Krause, nato a Chicago nel 1939, è stato per tutta la vita quel che voleva disperatamente evitare di essere, e cioè un outsider, a dispetto del suo enorme talento come General Manager e della sua riconosciuta abilità in veste di scopritore di talenti.

D’aspetto grassottello e buffo, diffidente verso i giornalisti e incapace di ingraziarseli, Jerry offriva facilmente il destro alle frecciatine di due giganti dello sport come Michael Jordan e Phil Jackson, che hanno dileggiato “briciole” Krause a mezzo stampa in lungo e in largo, sebbene quest’ultimo abbia giocato un ruolo di primo piano nelle carriere d’entrambi.

Fu Rod Thorn a scegliere Michael Jeffrey Jordan nel 1984 (e a invitare i giornalisti, subito dopo il draft, a non mettere troppa pressione sul ragazzo) ma poi toccò a Krause costruire quella meravigliosa macchina bellica che furono i Bulls, inseguendo il proprio istinto e inimicandosi un sacco di gente, a partire dal suo giocatore più forte e rappresentativo.

MJ non avrebbe mai voluto privarsi di Charles Oakley, la guardia del corpo che gli copriva le spalle quando i Detroit Pistons la mettevano sul piano della rissa (e cioè praticamente sempre). Krause invece lo scambiò con un vecchio centro dei New York Knicks, Bill Cartwright, decisamente meno arcigno. Jordan, venuto a conoscenza della trade dalla TV, la prese malissimo, ma alla fine ebbe ragione Krause: con Cartwright in verniciato, i Bulls misero fine al regno dei Pistons, e vinsero i primi tre titoli NBA della loro storia.

Andò meno bene con Brad Sellers, preferito da Krause ad un Johnny Dawkins caldeggiato da Jordan: Sellers diventò il bersaglio di MJ, che lo fece letteralmente a pezzi in allenamento, come avrebbe fatto anni dopo Kobe Bryant con Dontae’ Jones.

Krause resistette alle pressioni di MJ anche nel draft del 1987, quando, dopo aver messo a segno il colpaccio rappresentato da Scottie Pippen (all’epoca, un’ignota ala uscita dalla piccola Central Arkansas), ottenuto in cambio di Olden Polynice, chiamò il nome di Horace Grant, ignorando invece Joe Wolf, in uscita da North Carolina, proprio come Michael, e caldeggiato da Dean Smith in persona.

Senza Krause tra i piedi, e con in squadra Dawkins, Wolf e Oakley, il numero 23 avrebbe probabilmente vinto molto meno (o niente), anche perché fu proprio Jerry a ricordarsi di quel tipo strano con il cappello panama che allenava tra la CBA e Porto Rico, tal Phil Jackson, e a inserirlo nello staff di Doug Collins, presentandogli Tex Winter.

In quegli anni (parliamo del 1987) Jackson scontava la sua nomea di scanzonato figlio dei fiori, e si era visto sbattere la porta in faccia quand’aveva chiesto ai Nets (per i quali aveva brevemente giocato) un posto da assistente allenatore. A Krause però, la fama di Phil interessava il giusto, e, dopo averlo riportato in NBA, gli spalancò le porte di una strepitosa carriera, imponendolo come capo allenatore, nonostante le resistenze di tanti, incluso, inizialmente, lo stesso Jordan.

Se i rapporti con Michael non erano mai stati facili, quelli tra Krause e Phil Jackson iniziarono a declinare dopo la pubblicazione di The Jordan Rules, il libro del giornalista del Chicago Tribune, Sam Smith, che aprì una breccia tra i segreti del Berto Center. Dalla lettura del tomo di Smith, una sola figura esce intonsa: quella di Phil Jackson, e proprio per questo, Krause credette (a ragione o a torto, non lo sapremo mai) di individuare proprio in Jax, la fonte delle confidenze cui Sam Smith aveva attinto.

Il clima di guerra fredda istauratosi tra i due non impedì alla franchigia di completare un primo three-peat, e di metterne a segno un secondo, quando Michael ritornò a calcare il parquet, e Krause, che già aveva convinto Toni Kukoc (mal sopportato da Pippen e a ruota, da MJ) ad attraversare l’Atlantico, portò in squadra Dennis Rodman, ritenuto inallenabile da Gregg Popovich e soci in quel di San Antonio.

A quel punto però, i rapporti da tesi, erano diventati inesistenti, e Krause promise a Jackson che non l’avrebbe mai e poi mai riconfermato dopo la stagione 1997-98, “nemmeno se quest’anno finiremo 82-0”, aprendo all’esodo che dissolse quella che molti reputano la miglior squadra di sempre, immolata sull’altare di tre ego più grandi della Sears Tower, che svetta nello skyline della Città Ventosa (e che adeso è stata ribattezzata Willis Tower).

Michael Jordan ha sempre osteggiato ogni scelta di Briciole, mentre Jackson, che riteneva troppo angusto lo spazio lasciatogli da Krause, iniziò a fargli la guerra per avere più spazio decisionale. È alla luce di questa situazione che va ricondotta la famosa (e infelice) uscita di Jerry, quella per cui “sono le organizzazioni a vincere i titoli, non i giocatori”.

Krause rimase a Chicago, apparente vincitore della decennale contesa, per tentare di ricostruire la franchigia dalle sue ceneri; portò in panchina Tim Floyd, e con Tex Winter, continuò ad usare il Triangolo. Non raccolse i frutti seminati con le scelte di Tyson Chandler, Elton Brand, Eddy Curry, Jamal Crawford, Jay Williams e Ron Artest. Lasciò nel 2003, ufficialmente per motivi di salute, tornando al suo primo amore, il Baseball, con incarichi di consulenza con i Diamondbacks, Yankees, Mets e coi White Sox di Jerry Reinsdorf, il proprietario (anche dei Bulls) che l’ha sempre protetto e che, quando venne introdotto nella Hall of Fame, disse “non sarei qui se non fosse per Jerry Krause”.

Forse anche a causa del carattere e della nomea, Krause non è ancora nella Hall of Fame, schiacciato da personalità più mediatiche, che l’hanno oscurato; dopo le eulogie di circostanza, sarebbe forse ora di rimediare ad un torto, e di iscrivere il suo nome nell’istituzione intitolata a Naismith. Briciole se l’è ampiamente meritato.