Nuove, minacciose nubi all’orizzonte sembrano funestare l’alba angelena del regno Magic-Jeanie Buss, appena sorto sulle macerie lasciate dalla precedente gestione dei Los Angeles Lakers, targata Jim Buss e Mitch Kupchak, entrambi messi alla porta pochi giorni prima della trade deadline.

Visto e considerato che il defenestrato principale, Jim, possiede quote societarie giallo-viola (la famiglia Buss al completo è titolare del 66% della franchigia), uno strascico legale era forse inevitabile, ma una lotta intestina a base di carte bollate non è certo ciò di cui ha bisogno L.A., indebolita com’è da un lustro di pessima gestione sportiva, che ne ha intaccato l’immagine luccicante e vincente.

L’alzata al tabellone di Isaiah Thomas per Jaylen Brown nell’ultimo Boston-Los Angeles ha spinto coach Luke Walton a parlare apertamente di squadra “soft”; i Lakers sono diventati oggetti di bordate gratuite anche lontano dal parquet, e pensiamo ovviamente alle frasi del solito Mark Cuban, che, dicendo di sperare che Pelinka e Johnson falliscano miseramente, conferma la consueta classe ed eleganza.

Come noto, il 21 febbraio scorso Jeanie Buss ha elevato Earvin Magic Johnson al ruolo di Presidente delle Operazioni Basketball, rimuovendo contestualmente Jim Buss dal suo incarico di responsabile dell’area tecnica giallo-viola e Mitch Kupchak da quello di General Manager, inaugurando una breve “vacatio” durata fino alla risoluzione dei conflitti d’interesse di Rob Pelinka, dettati dall’essere uno degli agenti più in vista di tutta la NBA.

Con il passare dei giorni, la cornice entro la quale è maturata questa decisione diventa sempre più chiara: Jeanie Buss aveva nominato Magic nel ruolo di proprio consigliere per cercare di trasformarlo nella cinghia di trasmissione della franchigia.

In realtà però, Kupchack e Jim Buss l’hanno semplicemente ignorato, escludendolo da ogni processo decisionale; quando il redivivo Larry Sanders ha svolto il suo provino per i Lakers Magic non era presente, ed è stato altresì tenuto all’oscuro dei dettagli delle trattative occorse con i Kings in ottica DeMarcus Cousins, nonostante Vlade Divac avesse inizialmente contattato Johnson, e non Kupchak.

Jeanie si deve esser resa conto che ogni tentativo di mediazione, ogni invito esterno a scelte più condivise, sarebbe stato cordialmente ignorato da Mitch e Jim, e così, d’accordo con i fratelli minori, Janie, Jesse e Joey (Jerry Buss sarà anche stato laureato in aeronautica, ma non aveva grande fantasia con i nomi!), ha attraversato il suo personale Rubicone, allontanando dalla squadra l’uomo con il cappellino e il suo fido braccio destro.

Nella foto, Mitch Kupchak e Jim Buss presentano il neo-allenatore dei Lakers, Luke Walton

La contromossa di Jim Buss (e dell’altro fratello, il sessantenne Johnny) non si è fatta attendere: nel giro di tre giorni, Jeanie s’è vista recapitare la notifica di convocazione dell’assemblea dei proprietari dei Los Angeles Lakers, indetta per il 7 marzo (che per anni si era tenuta in modo informale, via e-mail), con lo scopo dichiarato d’eleggere un nuovo “consiglio d’amministrazione” della franchigia sedici volte campione NBA.

Jeanie non ha potuto fare a meno di notare l’assenza del proprio nome tra i quattro nomi proposti dai fratelli (loro stessi ovviamente, oltre a Dan Beckerman e Romie Chaudhari), intenti in un maldestro tentativo di riprendere il controllo dei Lakers, incuranti o ignari dell’opinione pubblica che li vede come il fumo negli occhi, e dei miseri risultati sportivi raccolti nel corso della loro fallimentare gestione.

La situazione ha assunto toni farseschi quando sia Beckerman (lavora per l’Anschlutz Entertainment Group, proprietario di minoranza dei Los Angeles Lakers) che Chaudhari (che sta portando avanti alcuni investimenti immobiliari assieme a Jim), si sono detti estranei alla manovra, rinnovando incondizionata fiducia a Jeanie Buss.

Tramite l’avvocato Adam Streisand (che rappresentò Steve Ballmer nella vertenza con Donald Sterling, l’ex proprietario dei Clippers), Jeanie Buss ha così chiesto al tribunale della Contea di Los Angeles di bloccare il colpo di mano tentato dai suoi fratelli, i quali, vista la malparata, hanno prontamente fatto retromarcia, firmando un documento col quale rinunciavano all’assemblea del 7 marzo, e riconoscevano in capo a Jeanie il ruolo di “controlling owner”.

Jeanie Buss ha ritirato la sua ordinanza restrittiva, ma, su richiesta dell’avvocato Streisand, la Corte di L.A. ha fissato il 15 maggio un’udienza per risolvere la faccenda, anche se il trust lasciato in eredità dal Dottor Jerry Buss alla numerosa prole, non lascia adito a dubbi, indicando con chiarezza in Jeanie la figura di riferimento del club, con pieni poteri decisionali, e con l’obbligo per gli altri trustee di supportarla in questo ruolo.

L’opinione pubblica della Southern California è per lo più schierata con l’ex coniglietta di Playboy, che, al netto dei difetti (parla tanto con i giornalisti, e non è quella che definiremmo una “basketball mind”), si è fatta apprezzare nel corso degli anni vincenti targati Phil Jacksonall’epoca suo fidanzato, giusto per non far mancare nulla alla soap-opera– anche per questo detestato da Jim.

Jeanie Buss e Phil Jackson, quando ancora erano una coppia

I Los Angeles Lakers restano una delle gemme più brillanti incastonate nella corona del Commissioner Adam Silver, tanto che, nonostante un ruolino di marcia tragico (tre anni senza playoffs, e il tassametro corre) restano una franchigia popolarissima ed economicamente proficua, ma per quanto ancora potranno sopravvivere alla siccità di risultati?

Questa vicenda giudiziaria è l’ennesima dimostrazione del caos che attornia El Segundo, e finché non sarà fatta definitiva chiarezza tra le mura domestiche della famiglia Buss (della quale Magic è membro onorario), resta difficile immaginare un progetto sportivo vincente, e ancor meno una direzione chiara e attrattiva per i free agent di punta.

La speranza è che quest’imboscata sia stata l’ultimo colpo di coda di Jim Buss nella sua guerra per l’anima dei Lakers, ma conoscendo il personaggio, è probabile che la resa dei conti sia solo rimandata a data da destinarsi, per quanto le armi a sua disposizione appaiano decisamente spuntate; lo scenario peggiore per L.A. è uno stallo societario a base di denunce e diffide, simile a quello degli Atlanta Hawks.

La franchigia della Georgia è stata paralizzata per anni dalla litigiosità dei proprietari, protagonisti di una vicenda paradossale; tutto iniziò quando uno dei tre gruppi di controllo, quello di Steve Belkin, fece causa agli altri co-proprietari a causa della cessione di Boris Diaw, e terminò solo quando Bruce Levenson si vide costretto a cedere la franchigia, spinto dalle pressioni dovute alle frasi (presunte) razziste sue e del fido GM Danny Ferry (che stava leggendo uno scouting report, ma quando si cerca un pretesto, ogni scusa è buona).

Come detto, in quel caso la soluzione fu la cessione della franchigia (per 850 milioni) alla cordata capitanata da Anthony Ressler e Grant Hill; difficilmente i Lakers seguiranno lo stesso copione, anche perché Jeanie Buss ha uno specifico mandato a comandare, ma secondo la giornalista Ramona Shelburne, Jim e Johnny avrebbero esplorato la possibilità di cedere le loro quote della franchigia, trasformando i restanti fratelli in azionisti di minoranza all’interno di una compagine sociale tutta da scoprire.

Intanto, dopo le prime, promettenti, venti partite, il 2016-17 giallo-viola è deragliato completamente e si è tornati a tankare, in modo più o meno manifesto. Alla deriva della squadra hanno contribuito gli infortuni, certo, ma esistono formazioni scarse o inesperte, che però si battono; i Los Angeles Lakers non appartengono a nessuna delle due categorie.

Sono viceversa un gruppo mediamente talentuoso, che però accende e spegne, e non ha alcun mordente o identità difensiva; qualcuno ha puntato il dito verso coach Luke Walton, ma è difficile costruire un sistema di aiuto-e-recupero o un attacco efficiente, se gran parte del roster ha continue amnesie tattiche (Thiboudeau ha fatto la stessa scoperta a Minneapolis, e Fred Hoiberg a Chicago).

Sembra quasi che i giocatori siano rassegnati all’idea di perdere: alzano le braccia al cielo quando non arriva un aiuto, guardano per terra quando vengono messi in imbarazzo dall’avversario, spesso non reagiscono. In tutto questo, ha certamente un ruolo l’imprinting NBA di questi giovani talenti, dettato da sconfitte e abitudini sbagliate maturate nel contesto perdente degli ultimi tre anni, con roster imbottiti di journey-man attenti solo alle statistiche, e veterani spremuti come limoni.

D’Angelo Russell e Julius Randle. Tra loro, Nikola Jokic

Timofey Mozgov e Deng erano arrivati per cambiare questo trend, e sappiamo com’è andata a finire, con Luol Deng (a libri per 72 milioni) che accetta di buon grado di finire in lista inattivi, mentre l’anemico Mozgov è scivolato nelle retrovie, alle spalle del promettente Ivica Zubac –e fin qui ci può stare, visto che l’obiettivo stagionale è perdere e far crescere i giovani– ma anche di Tarick Black e dell’attivissimo Thomas Robinson, un ragazzo che meriterebbe certamente più spazio in rotazione.

La sensazione di resa alle prime difficoltà è acuita dal costante peggioramento della difesa angelena, che si è inabissata con l’avanzare della stagione, anziché seguire un’ipotetica parabola di maturazione degli interpreti, che, di fatto, non c’è stata. D’Angelo Russell continua a prendere la targa agli avversari, Julius Randle resta assai rivedibile (ma ha fatto passi da gigante in attacco), e anche alcuni teorici specialisti, come Nance Jr. o Black, soffrono di cronica intermittenza.

Nell’impossibilità di lavorare su una difesa di squadra, coach Walton sta cercando di salvare il salvabile, responsabilizzando l’ex Duke Brandon Ingram, consegnandogli spesso la marcatura più difficile tra gli esterni, nel tentativo di abituarlo da subito ad un ruolo “pesante”, e invitandolo ad essere più vocale ed assertivo, anziché limitarsi a fare la giocata “giusta” più adatta ad un gregario che ad una seconda scelta assoluta.

Ingram, con il suo fisico da giraffa (in estate, su consiglio dei trainer giallo-viola, non ha ecceduto in sala pesi), è palesemente impreparato ai rigori fisici di una stagione NBA. Il talento però è lì da vedere, ed è cristallino quanto la capacità (almeno in attacco) di riconoscere la scelta cestisticamente corretta, come si conviene a chi ha difeso il parquet del Cameron Indoor per coach Mike Krzyzewski, che di lui disse: “aggiungetegli 10 kg di muscoli, e non ci sarà nessuno come lui“.

È presto per stabilire quale sarà il destino del tatuatissimo diciannovenne di Kinston, North Carolina: tanti mock draft lo avevano superficialmente accostato a Kevin Durant per via del fisico lungo ed esile, ma il gioco di Ingram è più affine ad un Giannis Antetokounmpo, e in ogni caso, non tutti gli atleti seguono la medesima parabola di maturazione; Kawhi Leonard e Russell Westbrook non sono certo sbarcati in NBA pronti per fare sfracelli, ed erano entrambi più anziani di quanto sia oggi Brandon!

Per il resto, il roster dei Lakers è popolato di giocatori individualmente buoni che, assommati, non funzionano… vuoi per l’età, vuoi per la complessiva assenza di difensori e leadership. Corey Brewer (arrivato, assieme ad una prima scelta, in cambio di Lou Williams) rappresenta un rattoppo difensivo, mentre Deng e Mozgov, pur positivi in allenamento, hanno deluso le –irrealistiche– attese: dovevano puntellare la squadra, e si sono rivelati due autentiche zavorre.

La loro firma è stata emblematica della disfunzionalità della gestione Kupchak-Buss; nel corso degli anni, molti free agent interessati a firmare per i Lakers sono stati accolti da un clima algido, che li ha spinti verso altri lidi: è andata così con Isaiah Thomas e Kyle Lowry, interessatissimi ai Lakers e disponibili alla firma per cifre contenute, lasciati perdere per inseguire il bersaglio grosso, Carmelo Anthony.

Alla stessa stregua, il permaloso Pau Gasol è stato spinto verso i Chicago Bulls; anche Kent Bazemore è stato perso sulla free agency a causa di uno stile negoziale troppo lasco, alternato ad inspiegabili slanci di munificenza: i contratti di Jordan Hill e Nick Young, e quest’estate, quelli elargiti a Mozgov e Deng, beneficiari di contratti faraonici, per paura che potessero accasarsi altrove.

Il risultato di queste operazioni è un roster farcito di giovani interessanti e di veterani strapagati, difficilissimi da spostare, potenzialmente deleteri nel lungo periodo e ininfluenti rispetto al destino immediato della franchigia californiana.

Quest’estate i Lakers avranno ancora tra i 20 e i 30 milioni di spazio salariale; poi inizieranno a scadere i contratti da rookie dei giovani e rinnovandoli, nel giro di due anni L.A. non potrà più operare sul mercato dei free agent, se non, beninteso, per adoperare le varie eccezioni salariali.

Conscia di non poter far conto sulla prossima chiamata al draft (se non sarà una top-3, finirà automaticamente a Philadelphia) Jeanie ha così deciso di dare il benservito al fratello Jim con qualche mese d’anticipo, in modo da poter valutare il personale a roster, e programmare un’estate cruciale per il futuro a medio termine dell’organizzazione.

La prossima free-agency sarà ricchissima di nomi che però difficilmente prenderanno in considerazione i Los Angeles Lakers: saranno disponibili Kevin Durant, Steph Curry, Chris Paul, Blake Griffin, certo, ma Pelinka e Johnson non hanno nulla da offrire a delle stelle mature, interessate a vincere subito.

Magic e il suo vecchio amico Larry Bird (nonché Presidente dei Pacers…) si sono salutati a febbraio con l’intenzione di riparlare di Paul George in estate, quando saranno disponibili anche tanti altri giocatori di buonissimo livello (tra gli altri Gordon Hayward, il nostro Danilo Gallinari, Jeff Teague, Kyle Lowry, Andre Iguodala).

Paul George, l’oggetto dei desideri della Lakers Nation… e di mezza NBA!

Nel frattempo, Pelinka cercherà di capire quali dei giovani già a roster avranno un futuro giallo-viola, e quali invece saranno sacrificabili sull’altare di una ricostruzione troppo a lungo rimandata. Lo farà parlando con la proprietà, con l’allenatore e con gli stessi giocatori, e questo, rispetto al passato, è già un bel passo avanti.

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