In uno dei suoi momenti di “buona”, Shaquille O’Neal definì lui e Kobe Bryant come il miglior one-two punch in circolazione, prendendo a prestito un termine dal gergo pugilistico. Per chi pratica o conosce la nobile arte, l’one-two punch (o uno-due) è una rapida successione sinistro-destro; i due colpi si chiamano jab e cross: il primo è quello portato dal braccio debole, che è più avanzato, e il secondo arriva da quello forte.

Da quel giorno, il termine è entrato di prepotenza nel vocabolario cestistico, per designare un duetto di giocatori particolarmente efficace, a partire proprio dalla letale “combo” (copyright di O’Neal anche questo, ça va sans dire…) formata da Kobe & Shaq, oppure Shaq & Kobe, se vi pare: cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambiava, e significava grossi guai per gli avversari.

Non che prima del battesimo operato dal Grande Aristotele, gli one-two-punch non esistessero: quando Shaq creò la propria etichetta, gli anni novanta erano da poco nel fanalino posteriore della storia del Gioco, e avevano visto dominare solo e soltanto squadre con due dei migliori dieci cestisti dell’orbe terraqueo (o undici cestisti, o nove… insomma, ci siamo capiti: parliamo dell’élite assoluta del gioco, senza farne una rigida questione di numeri).

I Chicago Bulls (sei titoli, tra il 1991 e il 1998) dominavano con Michael Jordan e Scottie Pippen a tirare le fila, mentre il back to back per gli Houston Rockets di metà decennio (nel 1995) fu costruito sull’asse formato da Hakeem Olajuwon, e dal neo-arrivato Clyde Drexler. I Detroit Pistons vinsero due titoli a cavallo tra anni ‘80 e ‘90, grazie al gioco duro e ad una letale combinazione di guardie: Joe Dumars (divenuto poi architetto, da GM, anche del terzo anello conquistato dai pistoni, del quale parleremo in seguito) e Isiah Thomas.

Nel 1999, mentre il Millenium Bug ormai alle porte faceva temere ogni tipo di disastro informatico, a conquistarsi gloria imperitura sul parquet del Madison Square Garden furono i San Antonio Spurs capitanati dalle Twin Towers, David Robinson e Tim Duncan, all’alba della loro grande epopea, tutt’ora lungi dal volgere al termine anche dopo il ritiro di Ufficiale e Gentiluomo.

Ad alcune grandi coppie invece è andata meno bene: ci sono stati i Seattle Sonics di Shawn Kemp e Gary Payton (sconfitti alle Finals nel 1996), i Jazz di Karl Malone e John Stockton (due Finali perse, nel 1997 e 1998), i Pacers di Reggie Miller e Jalen Rose (nel 2000), oppure ancora, i Magic di Shaquille O’Neal e Penny Hardaway (1995), i Knicks di Patrick Ewing e John Starks (1994) o ancora, quelli di Latrell Sprewell e Allan Houston (1999), capaci di conquistare la Finale NBA partendo dal seed numero 8 del tabellone, ma non di battere l’insormontabile ostacolo incarnato dalla squadra di Gregg Popovich.

Non tutti i nomi qui elencati pertengono un ipotetico elenco dei migliori di tutti i tempi (certamente non John Starks), ma ciascuno, durante la cavalcata magica della sua franchigia, raggiunse picchi di rendimento clamorosi, magari senza più raggiungerli (è il caso di Jalen Rose, che sembrava in rampa di lancio, e invece trascorse il resto della carriera tra Bulls e Raptors senza mai più sfiorare certe vette qualitative).

Quella degli anni novanta (e primi anni 2000) è stata una lunga parentesi di basket, durante la quale le regole (quelle tecniche, pertinenti il rettangolo di gioco, ma ogni tanto anche quelle dello star-system) privilegiavano grandi individualità rispetto a gruppi di diffuso talento: ogni squadra aveva il suo Go-To-Guy, e provava a costruire il roster attorno a quel giocatore, accostandogli un secondo violino, un rimbalzista, un sesto uomo, e così via.

In questo contesto avere due go-to-guy, come i Los Angeles Lakers del three-peat (con Kobe e Shaq partivano da una base di 60 punti “sicuri”) era un ragguardevole vantaggio, che, assommato ad una gran difesa, garantiva la possibilità di competere sul massimo proscenio NBA, pur avendo come “terzo violino” un declinante Glen Rice, oppure Derek Fisher.

La radicata convinzione che il successo passasse necessariamente per un duo di superstar durò almeno fino a quando i Detroit Pistons del 2004 (quelli costruiti da Joe Dumars) sconfessarono nei fatti la vulgata, vincendo a sorpresa il titolo con un gruppo di ottima qualità diffusa, nel quale nessuno dominava il gioco. A ben vedere, sarebbe potuto succedere anche 4 anni prima, quando i Portland Trail Blazers di Rasheed Wallace, Scottie Pippen, Demon Stoudamire e Steve Smith, sfiorarono la Finale senza avere un realizzatore da 20 di media.

Fino a quel giorno, consciamente o meno, tutti provavano a imitare il modello di Chicago, con un duo di stelle d’attacco a dirigere l’orchestra, e un nucleo di comprimari più o meno d’alto bordo (c’erano i Toni Kukoc, certo, ma anche i Luc Longley) a riempire gli spazi, sottovalutando l’impatto che l’Attacco Triangolo ebbe su quel gruppo di giocatori. Oggi, fatte le dovute proporzioni, avviene la stessa cosa con Golden State: si tende a copiare l’aspetto più superficiale del loro stile (il tiro da tre, i quattro esterni) anziché la sostanza (fluidità dell’attacco, flessibilità nell’assetto).

In anni recenti, l’utilità di un formidabile uno-due è diminuita, complice l’abolizione della difesa illegale e il consequenziale sviluppo (grazie a maestri come Tom Thibodeau e Ron Adams) di difese “shell” (quelle che collassano sul penetratore, e poi si riaprono sullo scarico) sempre più abili nell’applicare i principi di aiuto-e-recupero, o di help-the-helper. Con le vecchie regole invece, si poteva isolare sul lato il giocatore più forte traendone grande vantaggio, e poterne isolare due, magari capaci di interagire come Stockton e Malone, moltiplicava quel vantaggio all’ennesima potenza.

Una grande “combo” non dipende dai ruoli, o dalle caratteristiche tecniche: la “teoria classica” vuole che una squadra sia costruita sull’asse play-pivot (e quindi, Magic-Kareem, Cousy-Russell) ma in realtà quel che conta davvero è la qualità dell’interpreti, e la loro capacità di giocare l’uno per l’altro: i Bulls hanno dominato con una guardia e un’ala piccola, i Jazz con un play e un’ala forte, i Pistons con due guardie, e gli Spurs con due lunghi.

Si tratta insomma di trovare due grandi interpreti disposti a interagire facendo leva sui reciproci punti di forza, creando meccanismi automatici, studiando il compagno in modo da metterlo in condizione di rendere al meglio: non basta solo fare un assist o passare la palla nei comfort-spot, ma anche capire come e quando tagliare, o portare un blocco. Spesso, quando due grandi vivono in simbiosi, finiscono col somigliarsi: a inizio carriera Karl Malone era noto per le mani di pietra, ma quando si ritirò, nel 2004, era celebrato come uno dei migliori big-men passatori della storia NBA. Allo stesso modo, John Stockton portava blocchi assassini e aveva gomiti aguzzi, tanto quanto il ben più massiccio Karl.

Una grande intesa in campo è la prova del nove che dimostra le conoscenze acquisite, gli istinti e la padronanza tecnica di un cestista, a qualsiasi livello. Un conto è mettersi lì, e fare il compitino: un giro e tiro, o una penetrazione “a tutta”, con altri quattro robottini che si piazzano dove devono per raccogliere uno scarico; in fondo le stelle che giocano così (e ce ne sono tante), non sono altro che role-player nel senso letterale del termine, cestisti che fanno una sola cosa e la fanno benissimo, ma poi non sanno reagire autonomamente agli aggiustamenti della difesa, o non sanno approfittare di situazioni propizie che a volte si presentano nel corso di una partita, preferendo rifugiarsi nella loro rassicurante routine, anziché (per esempio) esplorando un miss-match improvviso.

Chi invece vive di letture, dimostra, azione dopo azione, di capire il Gioco e di padroneggiarlo fino in fondo, adattandosi al contesto con intelligenza ed eclettismo, si tratti di cambiare mansioni o direttamente squadra: quando Pau Gasol arrivò ai Lakers, nel giro di due allenamenti lui e Kobe sapevano già come muoversi per beneficiare al massimo l’uno della presenza dell’altro, ad esempio.

I giocatori NBA amano fare sfoggio di amicizie e buoni rapporti con tutti, ma andare d’accordo non si traduce automaticamente in intesa sul campo; a dispetto della grande intesa sul parquet, Malone e Stockton non erano particolarmente legati, mentre gli “amigos” Dwyane Wade e l’insospettabile LeBron James impiegarono un anno per trovare un modo di convivere in campo che andasse oltre il mortificante “possesso alternato”.

Creare un grande one-two-punch dunque, non è questione di simpatia, di serate passate assieme o chissà cos’altro, ma solo ed esclusivamente di proprietà tecnica, disponibilità al sacrificio e acume tattico.

Come dicevamo, oggi non sarebbe più possibile mettere Malone e Stockton sul lato con la medesima efficacia di vent’anni fa (gli ottimi Chris Paul e Blake Griffin ci provano, e dimostrano l’assunto), ma saper giocare assieme rimane un valore aggiunto anche nell’era della pallacanestro di flusso, basti pensare a Klay Thompson e Stephen Curry; eppure nel 2016 resta difficile costruire coppie di giocatori funzionali e durature.

L’esempio più eclatante è rappresentato dall’implosione del duo dei Thunder (Russell Westbrook e Kevin Durant) proprio quando, complice coach Billy Donovan, pareva ormai prossimo il definitivo salto di qualità. Esistono numerosi casi di uno-due che non decollano: John Wall ha di recente detto che lui e Bradley Beal in campo “non si piacciono”, e in effetti, la sensazione guardando le partite dei Wizards è che le due guardie vadano ciascuna per conto proprio.

Due anni fa, LaMarcus Aldridge e Damian Lillard sembravano destinati a tener alto il vessillo di Portland per tanti anni ancora, e invece LMA ha preferito dire addio alla combo formata con la guardia di Oakland, accasandosi in un sistema (quello degli Spurs) ritenuto più fecondo di opportunità ad altissimo livello, rispetto a quello, pur eccellente, assemblato da Terry Stotts al Moda Center.

È successo qualcosa di simile anche a Kevin Durant, che ha preferito salutare Russ e l’Oklahoma, in favore dell’altra grande cultura cestistica d’America, quella dei Dubs di Steve Kerr e Larry Lacob, contro i quali aveva appena dilapidato un vantaggio di 3-1 nel corso delle Finali della Western Conference.

L’uno-due oggi da risultati inferiori contro difese meno esposte al talento individuale, ma è altresì vero che, sin dai tempi di coach Adamo e coach Eva, le vere armi segrete delle franchigie che hanno avuto continuità ad alto livello (titolo NBA e dintorni), sono state il sistema e la cultura vincente costruite attorno ai grandi giocatori: vale per i Celtics di Red Auerbach e per i Knicks di Holzman, così come per i Lakers di Pat Riley e per i Bulls di Phil Jackson.

In questo senso, capiamo il desiderio di Aldridge e Durant di appartenere a questo tipo di cultura sportiva, ma è anche vero che se nel 1990 Jordan avesse forzato lo scambio per andarsene a giocare a Detroit, senza dare una seconda chance al Triangolo e a Scottie Pippen, avrebbe di certo vinto, ma non sarebbe mai e poi mai diventato il Michael Jordan che conosciamo.

Altre volte, le coppie scoppiano per cause meno nobili rispetto alla ricerca del titolo: nel 1996 Shaq abbandonò Penny Hardaway, mandando in frantumi i sogni di gloria degli Orlando Magic, perché voleva giocare a Hollywood, dove avrebbe potuto esplorare meglio il suo (relativo) talento musicale e cinematografico.

Nel 2000, il giovane Tracy McGrady abbandonò Toronto per sfilarsi dall’ombra del “cugino” Vince Carter, ritagliandosi un ruolo da conclamata superstar con i Magic, senza mai passare il primo turno (nella derelitta Eastern Conference!).

Gli stessi Kobe e Shaq sono stati al contempo una storia di enorme successo e di disfunzionalità: il loro retaggio parla di tre titoli, quattro Finali e tanti numeri da capogiro, ma rimangono degli incompiuti legati alla fine prematura di un one-two-punch che avrebbe potuto vincere e dominare molto più a lungo, se solo gli ego (quello dei protagonisti, e anche quello di Jackson, come ha ricordato tempo addietro il linguacciuto Robert Horry) non avessero fatto inacidire a tal punto i rapporti umani.

Sarà interessante prestare attenzione al percorso di alcune coppie di giovani giocatori, come Andew Wiggins e Karl-Anthony Towns, oppure Joel Embiid e Ben Simmons. Sapranno trasformarsi negli one-two-punch che i tifosi di T-Wolves e Sixiers sognano?

Il loro destino dipenderà dalla voglia di lavorare e sacrificarsi, ma al contempo, anche da tanti altri fattori sui quali le nostre giovani stelle non hanno alcun controllo: le scelte dell’allenatore e quelle del GM, e a volte, è giusto ammetterlo, serve anche quel briciolo di fortuna che fa la differenza, oggi come ieri.

Insomma, al netto del nuovo contesto tecnico, niente di nuovo sotto il sole: ci sono degli uno-due che vanno in frantumi anzitempo perché qualcuno si lascia tentare da pascoli più verdi (vedi LMA o KD), o che si fa distrarre da mille considerazioni extra-cestistiche, come Beal-Wall (o Harden-Howard) e altri che vincono e funzionano a meraviglia per anni ed anni, nei quali l’ego passa in secondo piano, com’è il caso per gli Splash Brothers o per Kyle Lowry e DeMar DeRozan.

2 thoughts on “Focus: le grandi coppie nella storia NBA

  1. LeBron è Dio sceso in terra, punto!
    Ora il 25 sera me lo posso pure godere bello bello in diretta, che Cielo trasmette il match contro GoldenState!
    Spettacolo puro!!!

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