Nel corso dei decenni, il basket NBA ha trainato numerose innovazioni regolamentari indubbiamente migliorative che si sono imposte alla pallacanestro mondiale. Si è trattato cioè di soluzioni introdotte seguendo quell’inafferrabile concetto che a volte è chiamato “spirito del gioco” coniugandolo con le esigenze di uno sport che, nella logica americana (in fondo però, dovrebbe essere così anche per la FIBA), è spettacolo e intrattenimento.

Il cronometro di tiro e la linea del tiro da tre punti risalgono rispettivamente al 1954 e al 1979 e devono i loro natali alla lega più bella del mondo, mentre altri cambiamenti non hanno una vera e propria data di nascita, figli come sono del lento e costante adeguamento reciproco tra il metro d’arbitraggio e le caratteristiche (tecniche e fisiche) dei giocatori schierati sul parquet.

È andata così per quanto riguarda il “palming” (fino agli anni novanta, l’esibita esitazione dal palleggio sarebbe stata punita dalle zebre) e per il fallo di sfondamento, o “charge foul”, un’altra infrazione evoluita nel corso delle ultime decadi sino all’attuale eterogenesi dei fini, che l’ha resa cruciale nel gioco moderno, adoperata dal difensore in aiuto, in prossimità della restricted area sotto canestro.

Fino agli anni ottanta, lo sfondamento era tipicamente preso dal difensore primario in situazione di penetrazione, quando l’attaccante caricava a testa bassa (il verbo to charge significa proprio questo). Tra le tante cose che sono cambiate da quei tempi gloriosi c’è l’interpretazione del contatto falloso. Il video della “cravatta” che Kevin McHale rifilò a Kurt Rambis durante le Finals 1984 vale più di mille parole:

Questo genere di falli non era normale nemmeno allora, ma gli arbitri Jess Kersey e il compianto Darrell Garretson (padre del Ron Garretson che tutt’ora dirige le partite NBA) decisero semplicemente per il fallo di McHale e due tiri liberi per Rambis. Niente tecnici, niente flagrant o “instant replay” (che non esisteva), e tantomeno squalifiche.

In questo contesto, il fallo di sfondamento era un fischio riservato all’attaccante che sbatteva contro ad un difensore che aveva occupato per tempo la posizione corretta –proprio come oggi– ma applicato con uno spirito completamente diverso, anche perché all’epoca la difesa si fondava sulla marcatura in uno-contro-uno.

Era tutta questione di angoli (il difensore sta “accompagnando” la traiettoria del penetratore, oppure gli ha tagliato la strada?) e di tempi (il difensore è fermo, va bene, ma ha lasciato sufficiente spazio all’attaccante per vedere l’ostacolo cambiare direzione?) resi meno estremi dalla difesa illegale e da un atletismo notevole, tuttavia meno debordante rispetto all’NBA del 2016.

Intanto le difese NBA si stavano adeguando a una nuova generazione di superstar atletiche e devastanti in one-on-one (forse avrete sentito parlare di tal Michael Jeffrey Jordan). L’aiuto non poteva flottare per togliere la corsia di penetrazione, come avviene oggi, e allora per fermare i Barkley o i Jordan del caso, nel verniciato si tiravano randellate deterrenti (le No-Fly-Zone), mentre i coach adoperavano zone mascherate (Gregg Popovich, Pat Riley e il suo discepolo Jeff Van Gundy erano degli specialisti).

Inguaribili nostalgici a parte, gli unici a gradire questa situazione erano i grandi attaccanti, che, legnate a parte, accumulavano statistiche formidabili giocando una “iso offense” dopo l’altra. Intanto, il fallo di sfondamento divenne vieppiù popolare come arma per fermare gli scorer (o almeno per provarci).

Da prerogativa del difensore primario, lo sfondamento si estese fino ad assurgere al rango di strategia difensiva, mirata a incanalare il palleggiatore per spedirlo in bocca allo stoppatore (la scuola di Popovich mandava verso il fondo, come faceva anche Phil Jackson, mentre altri preferivano indirizzare l’attaccante al centro), o, meglio ancora, verso un aiuto fermo nella classica posizione con il peso sui talloni ribadita, nel video qui sotto, dal sempre ottimo Shane Battier.

Le condizioni perché il fallo fosse attribuito all’attaccante e non al difensore erano piuttosto chiare e tutto sommato leggibili: occorreva arrivare in anticipo rispetto all’incauto attaccante e assumere una “stance” difensiva, che non è da confondere con l’essere fermi: si può prendere sfondamento in arretramento, per esempio, basta non generare il contatto, esibendo la corretta postura del torso, e il gioco è fatto.

Normalmente si lasciava correre l’eventuale contatto occorso dopo che il penetratore avesse tirato o passato la palla, e quindi il fallo offensivo di Rashard Lewis che vediamo nel prossimo video sarebbe stato considerato no-call, ininfluente rispetto all’azione, senza nemmeno iniziare a valutare la posizione del torso o dei piedi, secondo un’interpretazione rimasta valida fino ai primi anni 2000.

http://videorulebook.nba.com/archive/charging-pass-crash-2/

Man mano però, il concetto di sfondamento in aiuto è stato spinto ai limiti, grazie al menzionato Battier, oppure James Posey, Derek Fisher o Mo Speights. Questi giocatori hanno affinato la tecnica, massimizzando a loro vantaggio una regola e imparando a gestire il rischio del fallo difensivo (“block foul”), catapultandosi in una frazione di secondo dinanzi alla mezzaluna posta sotto il canestro.

Insomma, una regola nata per punire l’attaccante che abbassa la spalla e carica alla cieca ha mutato pelle, costringendo gli arbitri a dirimere una matassa che spesso resta inestricabile anche dopo numerosi replay televisivi, con il rischio di rifugiarsi in presunzioni basate sulla reputazione del difensore o dell’attaccante.

Stante l’attuale situazione regolamentare, capita che un celebrato “charge-drawer” lucri uno sfondamento senza aver nemmeno provato a difendere, come Anderson Varejao. Oppure, peggio ancora, capita che Tyson Chandler, nel video qui sotto, porti legittimamente a casa il fischio, pur senza aver preso posizione e con il piede destro nella restricted area (eh già, perché LeBron James parte dalla parte bassa dell’area… e in questa situazione, il semicerchio non conta!), e che il pubblico non capisca il fischio, perché siamo abituati a telecronache che parlano solo della posizione dei piedi.

Vi mostriamo un secondo esempio di fallo offensivo correttamente chiamato in base a questa regola, ma anche in questo caso, non è certo premiata una buona difesa, e tantomeno punito un attaccante fuori controllo.

http://videorulebook.nba.com/archive/charging-ra-does-not-apply-dribbler-moving-on-baseline-behind-backboard/

I capi degli arbitri, da Stu Jackson a Bernie Fryer, fino all’attuale responsabile Don Vaden, evidenziano giustamente la complessiva uniformità di giudizio arbitrale, ottenuta anche grazie ai moderni “video rule book”, ma resta il fatto: altre prassi estranee allo spirito del gioco sono state limitate (la rip-move di Kevin Durant e James Harden, o la finta con salto nel cilindro del difensore per lucrare due liberi che fece la fortuna di Dwyane Wade) mentre lo sfondamento imperversa.

L’attuale interpretazione del charge/block foul non incoraggia certo la difesa a “rimanere onesta” (per ricorrere ad un calco dalla lingua inglese), perché il difensore d’aiuto effettua una “protesta non violenta” (il copyright spetta a Ian Thomsen di Sports Illustrated) e non fa nulla di vagamente assimilabile ad un movimento difensivo di sorta, al pari di quell’attaccante che, senza inerzia alcuna, all’improvviso passa le braccia sotto a quelle del difensore e salta in un’improbabile e scoordinata azione di tiro!

Naturalmente il discorso è differente quando parliamo del fallo di sfondamento “tradizionale” (vale a dire, in one-on-one), ben esemplificato dalla casistica disponibile su NBA.com, di cui vi proponiamo un esempio chiarificatore, dal quale emerge come questo fischio viceversa premi il posizionamento difensivo: Rudy Gay riconosce e anticipa il movimento di Carmelo Anthony, che non riconosce la situazione e lo abbatte con una spallata.

http://videorulebook.nba.com/archive/charging-on-ball-defender-establishes-legal-position-2/

Indipendentemente dai discorsi sulla “purezza del gioco” che lasciano il tempo che trovano e sono suscettibili di mille interpretazioni, l’NBA si è spesa molto per incrementare i punteggi, diminuendo falli e interruzioni di gioco; è quindi inspiegabile la titubanza ad intervenire su un aspetto che, palesemente, sottrae alla bellezza e alla fluidità di questo sport.

Come se non bastasse, quest’interpretazione (che richiede di valutare troppe cose ad una velocità supersonica) complica inutilmente la vita agli eccellenti arbitri NBA (e pazienza se il sobrio e timido Joey Crawford si divertiva un mondo a fischiare “sfondo”).

Per uscire da questo ginepraio regolamentare (e al contempo limitare le opportunità di flopping) basterebbe ricondurre la norma alla sua ratio originaria, usandola cioè per punire l’attaccante che cerca lo scontro, e non per premiare dei difensori che stanno solo ed esclusivamente cercando di provocare un fallo in attacco.

 

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