Ogni tanto per lavoro mi capita di andare negli States e normalmente la prima cosa che faccio è verificare se nei posti che dovrò visitare ci sarà la possibilità di unire l’utile al dilettevole, ossia una volta terminati gli impegni lavorativi se potrò andare a vedere qualche partita o qualche luogo storico della cultura sportiva a stelle strisce.

Non sempre sono stato fortunato, ad esempio lo scorso febbraio sono capitato ad Indianapolis durante la pausa dell’All Star Game di basket, con il campionato NFL ampiamente terminato e con la stagione di baseball ancora da cominciare (in Indiana non hanno una squadra di hockey, quindi di NHL neanche a parlarne).

Ero comunque riuscito a cadere in piedi andando a vedere il college basket ad Indiana University, mentre un volo cancellato mi aveva impedito di arrivare in tempo per la partita dei Butler Bulldogs.

Stavolta la mia destinazione lavorativa era Chicago, e qui per una volta la fortuna mi ha arriso non poco.

Giovedì 26 Ottobre ci sarebbe infatti stata la prima gara della stagione dei Chicago Bulls, opposti nientepopodimeno che ai Boston Celtics, mentre Sabato 28, a poche miglia di distanza dalla Windy City, i Fighting Irish di Notre Dame avrebbero affrontato gli storici rivali di Miami.

In piĂą, dopo oltre settant’anni le World Series tornavano in quel di Chicago, con i Cubs che dopo una vita di sofferenze, maledizioni e bizzarri riti scaccia-malocchio, avevano finalmente la possibilitĂ  di tornare sul tetto del mondo, con le gare 3, 4 e 5 da disputarsi durante il weekend al mitico Wrigley Field.

foto-accredito-bullsSe ottenere delle press credentials per le World Series era virtualmente impossibile (i biglietti andavano via a migliaia di dollari, immaginatevi quante potevano essere le richieste di accrediti), con un paziente ed estenuante lavoro ai fianchi sono riuscito a convincere sia Notre Dame che la NBA di essere un vero (?) giornalista sportivo italiano, ottenendo quindi il pass stampa per entrambi gli eventi.

Alla partenza dall’Italia il pensiero di poter calcare palcoscenici così leggendari mi generava una discreta eccitazione, ma devo ammettere che all’idea di poter stare a bordocampo di una gara NBA ed entrare negli spogliatoi dello United Center la suddetta eccitazione scivolava in una salivazione quasi incontrollabile.

La mia principale paura era quella di un altro volo cancellato che mi facesse perdere qualcosa, ma in barba alle mie ansie sono arrivato il mercoledì a Chicago senza particolari intoppi. Il giorno seguente è stato dedicato agli impegni lavorativi (e ci mancherebbe pure…), ma fortunatamente ho potuto liberarmi in tempo per raccogliere fotocamera e computer e recarmi con un buon anticipo al palazzetto per la partita dei Bulls.

Ero un po’ emozionato, se devo essere sincero finchè non ho avuto in mano il mio pass stampa una parte di me temeva che fosse tutto uno scherzo e che potessero averci ripensato. Ma ancora una volta mi preoccupavo invano, infatti non appena giunto all’ingresso dei giornalisti il mio accredito era bello pronto che mi aspettava ed una volta messo al collo ero libero di gironzolare praticamente ovunque avessi voluto.

Riuscite ad immaginarvi un bambino in un negozio di caramelle? Ecco, direi che più o meno ci siamo…

Ho attraversato in fretta il tunnel degli spogliatoi, tappezzato con foto dei grandi giocatori del passato (uno in particolare dovreste conoscerlo), dato una veloce occhiata alla sala stampa e poi mi sono fiondato subito verso il campo per vedere chi stesse facendo riscaldamento.

foto-corridoio

Il primo viso familiare è stato quello di Dwyane Wade, che si stava allenando al tiro da tre punti (tra l’altro con una discreta percentuale di realizzazioni, ma su questo ci torneremo in seguito). Insieme a lui Robin Lopez che provava alcuni movimenti in post assieme ad un assistente allenatore e Taj Gibson in lunetta ai tiri liberi.

Sull’altro lato del campo stazionavano i Celtics, in quel momento c’erano Al Horford, Gerald Green e Amir Johnson che a turno tiravano dalle varie zone per prendere familiarità con il campo di gioco.

Inutile dirvi che l’impatto è stato forte, diciamo come un bel pugno nello stomaco (ma in senso buono). Ero già stato a vedere altre partite di NBA dal vivo, persino per Gara 1 delle NBA Finals allo Staples Center nel 2010.

Ma un conto è vederli giocare dagli spalti, è sempre emozionante ma sei uno insieme ad altri 20.000. Qui era diverso, ero a diretto contatto con loro e potevo muovermi liberamente per il campo per fotografare, sentirli parlare, vedere davvero da vicino giocatori che sono conosciuti ad ogni latitudine di questo globo terracqueo su cui viviamo. Era un accesso privato al dietro le quinte “del più grande spettacolo dopo il Big Bang”.

Ad uno ad uno sono passati un po’ tutti i giocatori, chi per fare due tiri, chi a salutare, chi semplicemente a sedersi in panchina cercando la concentrazione per la gara. Ad un certo punto è comparso persino Scottie Pippen, vestito in modo improponibile con un cappello da gangster che possono permettersi veramente in pochi (lui può).

foto-pippen

Dopodichè tutti gli atleti sono rientrati negli spogliatoi per le indicazioni tattiche da parte dello staff e poi di nuovo fuori per il riscaldamento di gruppo. Ecco, dimenticatevi la classica ruota delle minors nostrane dove i giocatori non si staccano da terra nemmeno a tirarli su con una gru. Qui c’è gente che ha vinto la gara delle schiacciate e fa dei 360 con le scarpe slacciate…

In tutto questo io ero sempre lì sul campo, e con “sul campo” non voglio dire in prima fila. Intendo proprio sul parquet, in parte ad aspettare che qualcuno venisse a prendermi per le orecchie per portarmi via e in parte a desiderare che qualcuno mi passasse un pallone per far vedere che una tripla con spazio magari ogni tanto la potrei mettere, non so se può interessare…

foto-riscaldamento

Purtroppo dei due si è avverato il primo desiderio, e subito dopo l’inno nazionale un addetto al campo mi ha detto che non potevo più restare lì (ah, no?) ma dovevo spostarmi in tribuna stampa.

Con un sorriso ebete stampato in faccia ho raccolto armi e bagagli e mi sono diretto diligentemente all’ascensore, che mi ha portato fino al settimo piano del palazzo dove stava la postazione che mi avevano assegnato.

Ora, non essendo né Craig Sager né Marv Albert non mi aspettavo certo di essere in prima fila, ma forse qualcosa di meglio sì. Il mio posto era invece dislocato nella parte alta (e quando dico alta intendo piccionaia) dello United Center, con il risultato che mi riusciva più facile seguire la gara dai maxischermi che guardando i giocatori sul campo.

foto-tribuna-stampa

Non mi sembrava il caso di lamentarmi, così ne ho approfittato per dare un’occhiata alla cartella stampa mentre seguivo i Bulls che tentavano la fuga nel primo quarto, rallentavano nel secondo, venivano raggiunti nel terzo e ingaggiavano una feroce battaglia con i Boston Celtics, fedeli alla loro tradizione di squadra che non si arrende mai, durante il quarto periodo.

Non vi sto a raccontare tutta la partita, ormai sono passati diversi giorni e sapete già tutti come è andata a finire. Vi dico però che quando Wade ha infilato la tripla in step back a pochi secondi dal termine (qui evidentemente gli è tornato buono l’allenamento pre-gara), il palazzetto è letteralmente esploso.

Dwyane è nativo proprio di Chicago e questa per lui e per i tifosi era una partita speciale, la prima dopo 14 anni a Miami per il figlio di una città che non lo aveva mai dimenticato dai tempi della Final Four NCAA con Marquette (che è in Wisconsin, ma non molto distante dalla Windy City).

Subito dopo il fischio finale mi sono fiondato nel tunnel degli spogliatoi, dove per non farmi mancare nulla ho scambiato un high five con Rajon Rondo (che ho amato ai tempi dei Celtics e odiato ai tempi, fortunatamente brevi, della sua esperienza con i “miei” Mavericks) e uno con Jimmy Butler.

foto-uscita-dal-campo

L’accesso agli spogliatoi è possibile dopo una decina di minuti dalla fine della gara, nel frattempo gli allenatori escono per incontrare i giornalisti e rispondere alle domande.

Ho raccolto quindi le dichiarazioni di Brad Stevens, coach di Boston, che si diceva soddisfatto della reazione dei suoi giocatori nel corso della gara attribuendo la sconfitta ai troppi rimbalzi d’attacco concessi agli avversari. Dalla parte opposta Fred Hoiberg, coach di Chicago, dichiarava che il tiro da tre punti aveva funzionato molto bene e che questa vittoria era un buon modo di cominciare la stagione per una squadra molto rinnovata rispetto all’anno passato.

Una volta terminate le loro interviste si sono finalmente aperte le porte degli spogliatoi e, dovendo scegliere, mi sono fiondato nella locker room dei padroni di casa.

Questa era una delle cose che mi affascinava di più, nella nostra cultura lo spogliatoio è un luogo sacro riservato unicamente agli atleti e allo staff, e anche se recentemente il calcio ha aperto le porte alle telecamere durante il prepartita, si tratta di fugaci immagini (anche un po’ noiose sinceramente) di giocatori che si mettono le scarpe o ascoltano la musica, spesso anche con un discreto imbarazzo per la presenza degli operatori tv.

Qui invece la presenza dei giornalisti è assolutamente normale. Ci sono giocatori che entrano ed escono dalle docce, gente che gira coperta solo dall’asciugamano (qualcuno anche senza, vero Butler?), Mirotic e Michael Carter Williams con il ghiaccio sulle ginocchia e Rondo che chiacchiera con il figlio piccolo. Il posto non è nemmeno tanto grande, perlomeno meno di quanto mi aspettassi, ed è decisamente affollato.

foto-rondo-spogliatoio

Anche perché i giocatori sono grossi, ammazza se sono grossi. Rondo e Butler hanno delle spalle da scaricatori di porto, Gibson è una torre e Lopez è letteralmente un armadio su due gambe. I giornalisti fanno domande ai due-tre giocatori indicati dagli addetti come disponibili, ma qui tutti aspettano l’eroe di giornata che per adesso tarda a farsi vedere.

Wade arriva infatti per ultimo, ma si dimostra di una gentilezza e di una disponibilità eccezionali, restando per quasi un quarto d’ora a rispondere delle domande di tutti i giornalisti. Persino ad una di un imbarazzato pseudo-cronista italiano che gli chiede se i suoi Bulls siano già pronti per insidiare a Cleveland il dominio della Eastern Conference.

Dopo la mia domanda un’addetta dei Bulls comunica che il tempo delle interviste è finito, e tutti i giornalisti escono alla spicciolata dagli spogliatoi. Torno verso il campo solo per vedere che tutte le luci sono già spente ma c’è ancora qualche inviato della tv in diretta per il collegamento in studio.

foto-palazzetto-spento

La mia esperienza da insider NBA è invece giunta al termine, non mi resta che chiamare un taxi e rientrare in albergo. Domani devo di nuovo lavorare ma sono ancora talmente eccitato per la serata che so già faticherò a prendere sonno.

Mi sento davvero molto fortunato per aver potuto vedere e toccare così da vicino un mondo che seguo con passione da oltre vent’anni. So che le storie che ho da raccontare di questa serata mi renderanno invidiato da molti (e anche odiato da alcuni) ma non è a questo che penso mentre sono sul taxi, con un tassista pachistano che cerca di intavolare una discussione con un inglese talmente accentato da risultare semi-incomprensibile.

Penso già a quando potrò tornare negli Stati Uniti, alla prossima partita che mi piacerebbe vedere e a quali squadre vorrei trovare (ti prego Dio del Basket, fa che possa vedere Dirk prima che chiuda la sua carriera). 

Ma prima di guardare così avanti farei meglio a pazientare un po’, perché il mio viaggio tra gli sport a stelle e strisce è ben lungi dall’essere finito.

(Continua…)

6 thoughts on “A night at the game: Boston Celtics @ Chicago Bulls

  1. …e Re Giorgio fu! Bella man… per inciso, quando specifichi le dimensioni dei giocatori, rendi noto di essere 2 metri di bambino, ex pro nel volley… perchè sono pieno di gente che mi ammazza i testicoli dicendo robe tipo “ma hai visto Higuain? E’ un gigante”… ecco, io e te sembriamo la sua custodia…
    We love you man e once a Mastro, Mastro 4ever!
    Complimentoni!

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