Fear the Deer era il motto che risuonava al Bradley Center un paio d’anni fa, quando i Bucks raggranellavano un record del 50% e si conquistavano un posto nei playoff contro tutti i pronostici.

Era una squadra diversa, per certi versi mediocre rispetto a quella di adesso; il debutto di Jabari Parker stroncato dall’infortunio, un Antetokounmpo acerbo, Larry Sanders in preda alla depressione e prossimo al ritiro, Jason Kidd appena arrivato in città.

Era anche un’altra Eastern Conference, meno competitiva. Per questo la campagna 2016, iniziata con la cresta alzata, si è risolta in un percorso povero di gioie. Il cervo che doveva far paura agli avversari assomigliava più a quello, spaesato e abbagliato dai fanali, che i pick up della campagna americana si ritrovano in mezzo alla strada.

Milwaukee aveva acceso le luci di Natale in anticipo con gli acquisti di Greg Monroe e Michael Carter-Williams, invece a metà stagione era già tornata quella città noiosa da cui Fonzie e gli ingelatinati di Happy Days scappavano in direzione Chicago; tanto lì la sera non c’è nulla da fare, neanche andare al Bradley Center – sempre tra le ultime cinque arene della lega per affluenza.

L’attacco vende i biglietti, dice un vecchio adagio; a Milwaukee vale fino a un certo punto, ma di sicuro anche in Wisconsin la difesa fa vincere le partite. I disfunzionali Bucks del 2015, con un eroico Brandon Knight, erano quarti in NBA per Defensive Rating, ottavi per punti concessi. Quelli dello scorso anno? Rispettivamente agli spot 23 e 17. La differenza, se volete, sta tutta lì.

Sulla leva del cambio dei Bucks, alla posizione della retromarcia, sta scritto un nome e un cognome. Greg Monroe. Il free agent più ambito tra quelli firmati in tempi recenti, un autentico uomo da pitturato, con la giusta stazza e buone mani, come non se ne vedono più. Appunto.

Il buon Greg registra statistiche di tutto rispetto, tira con il 52.2% dal campo, ma per fare tutto questo ha bisogno di 658 possessi al gomito, secondo nella lega dietro Marc Gasol. Ci vuole poco a capire che non è il fit giusto. A maturazione ormai completata, è difficile immaginarlo in un ruolo diverso dall’ancora di una squadra mediocre, com’era ai Pistons – guarda caso, Detroit è salita di livello appena l’ha lasciato andare sdoganando Drummond.

Se vuoi che il tuo lungo sia dinamico, cambi sui blocchi e protegga il ferro, non sono questi i cavalli di battaglia del prodotto di Georgetown. Coach Kidd lo tiene sul parquet per rispetto del nome e dei soldi che guadagna, ma quando i risultati latitano e si sente libero di sperimentare, gli preferisce Miles Plumlee. Mani da manovale innestate su una faccia da cliente di Starbucks, ma anche tanta voglia di correre, sacrificarsi per la squadra, contestare tiri.

Caratteristiche che gli sono valse un prolungamento da 52 milioni in quattro anni e l’investitura a centro titolare. Greg Monroe pare averlo appreso solo dalla stampa al media day e non ha fatto i salti di gioia. Kidd potrebbe riconsiderare le gerarchie, non vuole che scenda il gelo sulla convivenza forzata che durerà finché non avranno trovato un acquirente, a costo di allestire un banco al mercato delle pulci.

Le insistenze del GM John Hammond hanno infine trovato una nuova sistemazione per l’altra delusione del 2016, Michael Carter-Williams, da rookie of the year a buco nell’acqua in tempo record. In realtà si trattava anche in questo caso di una questione di fit. MCW non è l’uomo a cui affidare la regia di una squadra, ma una guardia con quelle doti fisiche può fare la differenza se ha meno responsabilità sulle spalle.

Dubitiamo che sbocci a Chicago, dove sarà mero vice di Rondo, ma intanto ai Bucks sbarcano difesa e tiro dall’arco nella forma del solido Tony Snell. Una trade che lascia la squadra pericolosamente priva di point guard, si direbbe. Ma sarà davvero così? Ci arriviamo subito.

Questi Bucks ci piacciono per un paio di motivi. Il primo arriva fresco fresco dall’Australia via Cleveland, pure lui con un contrattone che vale dieci volte più del suo talento, ma forse dieci volte meno della garra che ha in corpo. Matthew Dellavedova è chiamato a cimentarsi nella sua migliore interpretazione dell’Eric Snow che spalleggiava Iverson ai Sixers; difesa, difesa, difesa e contorno di cattive maniere. Che poi è quello che faceva già ai Cavs, ma per pochi minuti a partita.

Accanto a lui un pacchetto di guardie più spiccatamente offensive. L’inossidabile Jason Terry e Rashad Vaughn si alterneranno a sostituire l’infortunato Kris Middleton, che ne avrà per diversi mesi, col sophomore da UNLV che renderebbe i Bucks un’immediata minaccia dal perimetro se ritrovasse la precisione che vantava al college.

Non c'inganni, Matthew: lì sotto c'è un rugbista, mica un giocatore di basket

Non c’inganni, Matthew: lì dentro c’è un rugbista, mica un giocatore di basket

Insomma, il pallone dall’altro lato del campo chi lo porta? Delly no, Dio ce ne scampi. Tranquilli, c’è Giannis, la point guard con le braccia più lunghe del mondo. Lo scherzo della natura che viene dai sobborghi di Atene sembra aver finito di crescere in altezza e ha impiegato le energie residue per occupare più spazio in orizzontale; ora sfoggia un perfetto physique du rôle che, in tre anni di carriera, non ha mostrato crepe.

Jason Kidd, che di playmaking se ne intende, si trastulla con l’idea da più di un anno. Dopo l’all-star break ha mollato i freni inibitori e ha affidato la palla al greco. È rimasto convinto al punto da confermarlo in quella posizione. I risultati di squadra non sono cambiati, la stagione era già compromessa, ma le statistiche parlano chiaro. Con lui nello spot di 1 i Bucks producono di più e tirano meglio da tre.

È impressionante come siano bastati pochi mesi, nemmeno ricchi di successi, per trasportare The Greek Freak dal vago reame dei prospetti al terreno di battaglia delle superstar, quantomeno nell’opinione pubblica. Gli addetti ai lavori lo votano già come il migliore tra gli Internationals, un riconoscimento non da poco in una NBA mai così aperta al mondo fuori dagli States, ed è tra i favoriti per un esordio all’All-Star game. In estate ha staccato un contratto da 100 milioni in quattro anni; roba grossa, ma con le cifre che girano dall’aumento del salary cap siamo tutti convinti che Milwaukee lo paghi persino troppo poco.

A emozionarci basta l’idea di vederlo guidare la squadra dal primo giorno di training camp all’ultimo della stagione; se conosciamo quel vecchio malato di pallacanestro di Jason Kidd, deve sentirsi elettrizzato pure lui.

Qui abbiamo già parlato di come cambia il gioco dei Bucks quando Giannis imposta l’azione, ma facciamo un ripasso con un paio di diapositive.

Giannis non ha alcun rispetto per noi comuni mortali

Giannis non ha alcun rispetto per i comuni mortali

Gianni(S)! L'ottimismo è il profumo della vita!

Gianni(S)! L’ottimismo è il profumo della vita!

C’è un modello piuttosto chiaro nell’evoluzione del gioco del greco ed è quello di LeBron James. Dove altro trovi un playmaker di quella stazza, che per giunta è in grado di difendere cinque posizioni?

Come ogni Batman ha bisogno del suo Robin, accanto a LBJ c’erano Wade prima e Irving poi. Il partner in crime di Antetokounmpo è Jabari Parker e l’intesa tra i due ha toccato picchi elevatissimi dall’ultimo all-star break in poi. Per ora la scelta numero due da Duke ha mostrato di possedere rara duttilità e disciplina, propenso a catturare rimbalzi e segnare vicino a canestro nello spot di 4.

Tira con un discreto 49.3% dal campo, con la tara del 25% dall’arco. Le aspettative nei suoi confronti si sono un po’ ridimensionate da quel parallelo con Carmelo Anthony che lo accompagnava come un tormentone agli esordi. Forse non sarà mai un realizzatore totale come lui, ma non ha nemmeno la sua dimestichezza nel prendersi iniziative personali con la palla.

Jabari dà il meglio di sé quando Antetokounmpo attira la difesa e può muoversi negli spazi, tagliare a canestro. Il tiro da 3 può e deve migliorarlo, le fondamenta non gli mancano, ma per appostarsi sul perimetro Milwaukee ha uomini più adatti.

Lo spacing: questa sorta di vitello d’oro di fronte al quale tecnici e analisti si inginocchiano. Jason Kidd se l’era stampato sulla fronte mentre ricostruiva la squadra questa estate e l’immaginario lebroniano è fin troppo evidente. D’altra parte i Bucks del 2016 sono stati il fanalino di coda per tiri da tre tentati e realizzati, con il 40.1% dei tiri presi nel pitturato – primo posto assoluto.

Il nuovo roster è farcito di gente che le open three tende a metterle. Lo stesso Dellavedova è tra i migliori sei della lega nel catch-and-shoot, dove vanta un ammirevole 69% effettivo, nonostante il rilascio in stile oratorio. Poi ci sono Rashad Vaughn, uno arrivato in NBA coi crismi del cecchino, Tony Snell, il jolly Jason Terry, Mirza Teletovic – numero due della lega per triple messe a segno in rapporto ai minuti giocati. Il progetto tattico è che il movimento di Antetokounpo e Parker crei opportunità per gli altri.

Va da sé che l’uomo chiave sarebbe Kris Middleton, ma ci vorrà pazienza prima che torni dal brutto infortunio muscolare che ha abortito la sua stagione. Non un fenomeno del parquet, ma un giocatore completo e ottima fonte di playmaking secondario, capace di crearsi tiri da solo.

Parker e Antetokounmpo se la intendono a meraviglia. C'è aria di hype

Parker e Antetokounmpo se la intendono a meraviglia. C’è aria di hype

In un sistema del genere un lungo, seppur modesto, come Miles Plumlee cade a fagiolo. Non occupa spazio, non dà riferimenti alla difesa. Un atleta à la Tristan Thompson, per tornare al paragone con James, che evita sul nascere le frizioni già viste con Chris Bosh e Kevin Love.

Un miglioramento nella difesa sarà cruciale per le speranze di playoff dei Bucks. Coach Kidd dispone di uno stopper d’eccezione (Giannis, who else?), di un cagnaccio da spendere sulle guardie avversarie (Dellavedova) e di un pacchetto di esterni versatili, ottimi per cambiare sui blocchi senza perdere l’uomo. Ora bisogna trovare i giusti incastri e risolvere le priorità nel pitturato.

A pensarci bene c’è un altro paio di motivi per cui ci piacciono questi Bucks. Uno l’abbiamo toccato en passant; schierano Mirza Teletovic, quello che si è distinto negli immondezzai di Brooklyn e Phoenix e che finalmente ha la chance di giocare per obiettivi più ambiziosi. Ci pare che abbia la faccia giusta per esaltarsi quando il gioco si fa duro.

Smile for me, Mirza

Smile for me, Mirza

E poi c’è l’uomo del mistero. Viene dall’Australia, ma un po’ anche dal Sudan. La carta d’identità dice diciannove anni, ma vai a sapere quanti ne ha davvero. Thon Maker è la copia sputata di un giovane Kevin Garnett ed è il primo caso di giocatore creato da internet. Non sarebbe lì se i suoi mixtape non avessero fatto sbavare sulle tastiere migliaia di appassionati e qualche scout.

Giocava da guardia contro gente alta trenta centimetri meno di lui, tirava coi movimenti sciolti di un Kevin Durant. Poi sono cresciuti anche gli altri, la competizione si è alzata e Thon Maker ha incontrato i primi ostacoli. La scelta di dichiararsi direttamente al draft, sfruttando una clausola per saltare i college, è quella azzardata di uno che non vuole veder scendere le proprie quotazioni, ma ha pagato dazio con una coraggiosa pick numero dieci.

Noi siamo devoti al basket un po’ come fosse una religione, per cui preghiamo che gli astri si allineino e un giorno, magari tra una stagione o due, l’enigma di Thon Maker si sciolga. Scommettiamo che ci farebbe divertire.

Intanto, i Bucks di quest’anno hanno una missione precisa. Convincere la gente che a Milwaukee, la sera, c’è qualcosa di bello da fare. Andare al Bradley Center, per esempio.

Ma prima di partire chiudete le finestre; c’è un dio greco che si sta per abbattere sulla NBA tra fulmini e saette.

One thought on “Milwaukee Bucks: pronti al decollo?

  1. Bell’articolo. Competente e scritto bene, cioè senza scimmiottare Federico Buffa come fanno tanti altri, che non se ne può più (non del grande Buffa ovviamente). Complimenti.

Commenta

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.