Secondo la leggenda, il Blackfriars Theatre di Londra aveva una stanza dietro le quinte dove gli attori aspettavano il loro turno per entrare in scena.

Era pitturata di verde; da qui la green room, consuetudine teatrale che è finita per diventare anche la sala riservata agli atleti in odore di lottery pick.

Isaiah Thomas non sa nulla di tutto questo, né delle altre etimologie ipotizzate per il termine. Non era nel novero dei quindici prescelti del 23 giugno 2011 – c’erano però Jan Vesely e Chris Singleton, maledetto il senno di poi.

Per loro la cerimonia è rapida e spettacolare, un po’ come una graduation all’Università; il commissioner chiama il tuo nome, indossi il cappellino d’ordinanza, una stretta di mano, un’intervista e via verso i milioni e la celebrità.

Isaiah aspetta tutta la sera. David Stern ha passato il testimone al vice Adam Silver, il Prudential Center di Newark si è svuotato e gli analisti sperimentano il panico da palcoscenico di fronte a carneadi dai nomi impronunciabili.

Chukwudiebere Maduabum, per dirne uno, è il numero 56. Due turni dopo tocca a Ater Majok, un po’ sudanese e un po’ australiano, dalla data di nascita dubbia. Il candido Jeff Van Gundy strabuzza gli occhi: “non ho idea di chi sia”.

Il nome di Isaiah Thomas è l’ultimo ad essere pronunciato, il sessantesimo, tra il vociare dei pochi tifosi dei Kings rimasti. Silver dà la buonanotte e sembra quasi uno scherzo, poi al tavolo di commento si affrettano a spiegare.

Su di lui almeno un aneddoto se lo sono preparato, quello che ormai conoscono tutti. La scommessa persa dal padre James, tifoso dei Lakers che promise di chiamare il figlio come il playmaker dei Pistons in caso di vittoria dei Bad Boys nelle Finals 1989. Vittoria che arrivò con uno schiacciante 4-0, con conseguente battibecco con la moglie Tina e infine la corsa all’anagrafe.

Mamma Thomas ottenne di aggiungere una lettera, la “a”, a fini prettamente biblici. Il resto è storia; eppure c’è altro, molto altro, nel percorso che ha portato l’ultima scelta del draft 2011 fino all’All-Star Game e ai playoff da protagonista.

SEATTLE SOUVENIR

C’è qualcosa di unico che lega la città di Seattle alla pallacanestro, e c’è qualcosa di mistico nella Seattle degli anni ’90.

La musica, la ribellione, l’insofferenza di una generazione che non ha voglia di crescere. I Nirvana, gli Alice in Chains, il grunge. Gli scontri no-global del 1999, il “popolo di Seattle” per l’appunto. Se si uniscono le due cose la miscela acquista una poesia rara.

I Supersonics della Lob City originale, Gary Payton e Shawn Kemp, eterni secondi ma bellissimi da vedere. I Pearl Jam, che prima di essere tali si chiamavano Mookie Blaylock, playmaker dalle mani veloci, e il loro album d’esordio? Ten, come il suo numero di maglia.

Cresciuti in un ambiente di questo tipo, non c’è da meravigliarsi che gli attuali NBAers nativi dell’area abbiano sviluppato una connessione speciale tra loro, un vincolo che li differenzia da tutti gli altri.

La famiglia di Thomas in realtà è di Tacoma, una trentina di miglia più a sud, proprio come quell’Avery Bradley che ritroverà a Boston. Il cammino dei due si è incrociato spesso, per Bradley lui era un modello a cui aspirare, due anni più grande e il giocatore più famoso dell’intera area.

Isaiah comunque cresce nei playground della Emerald City, sia come cestista che come uomo. Il basket estivo nell’estremo nord-ovest è una religione, specialmente oggi che i Supersonics non esistono più.

Doug Christie, in quel periodo, è il guru dei campetti. Sì, il Doug Christie dei Kings – se l’aveste perso di vista, sappiate che conduce una curiosa vita coniugale e insieme alla moglie Jackie produce film per adulti.

Nel 1996 fonda la All Hoop, No Hype League, terreno di prova per giovani cavalli di razza. Lì Zeke, come lo chiamano gli amici, impara a sfruttare a proprio vantaggio ciascuno dei pochi centimetri a disposizione.

Si costruisce un corpo che è una piccola sfera tonica, puoi spostarlo di peso ma non riuscirai a sbilanciarlo. Perfeziona l’arte di mandare a farfalle il difensore mentre lui, più agile, disegna angoli di tiro in spazi che i comuni giocatori nemmeno vedono.

Apprende e incarna un comandamento: no fear, nessuna paura. Se lo stoppano, dice, che problema c’è? Lui continua ad attaccare. Sa che il cuore è un muscolo, lo allena più di ogni altro e lo getta oltre l’ostacolo ogni volta che si allaccia le scarpe. Non può fare altrimenti, se vuole sopravvivere. Ancora oggi, che è un All-Star, gioca così.

NEMO PROPHETA IN PATRIA?

Il piccolo Isaiah è di vedute aperte. Ama i Sonics di Payton e Kemp, ma anche i Lakers di Shaq e Kobe per via dell’influenza paterna. Stravede per Allen Iverson ma plasma il suo gioco su Damon Stoudamire. Mancino come lui, letale nel tiro da fuori, meno sfacciato e più sfuggente di The Answer. Una delle prime canotte che sfoggia è la sua, versione Toronto Raptors, e lo omaggerà col soprannome in uno dei primi tatuaggi: Mighty Mouse.

Intanto, dà via al suo cursus honorum nelle palestre locali. Fino all’ultimo anno di scuola media è compagno di un certo Curtis Terry e il suo allenatore ha il medesimo nome e cognome, seguito dalla postilla senior. Rispettivamente fratello e padre di Jason Terry, The Jet, altro illustre seattler. Tenetelo a mente.

Alle scuole superiori ci mette un po’ a ingranare ma poi sono dolori per tutti. Le più grosse soddisfazioni comunque se le toglie in estate.

Nei tornei amatoriali del circuito AAU è uno dei tanti figliocci di coach Jim Marsh, che da quelle parti è un po’ come parlare di Gesù Cristo. Ecco che torna quella dimensione tutta particolare del basket made in Seattle, dove non necessariamente ti costruisci una reputazione per i canali ufficiali, dove i rapporti si tessono dentro e fuori dal campo.

Alla Friends of Hoop ci sono tutti i prospetti più accattivanti della regione, Jim Marsh li mette in riga col bastone e la carota, come fossero un manipolo di boy scout troppo cresciuti.

Il 2005 è l’anno di grazia, la miglior squadra giovanile mai vista nello stato di Washington. Spencer Hawes e Martell Webster sono i fuoriclasse, Micah Downs e Jon Brockman fanno il lavoro sporco, Isaiah Thomas è la point guard designata.

Nella finale di Las Vegas segna 10 punti e contribuisce a battere i favoriti, i DC Blue Devils, che come punta di diamante annoveravano due nomi che potrebbero suonarvi familiari: Ty Lawson e Kevin Durant. Il primo fu annullato dalla tenace difesa di Jamelle McMillan, figlio di coach Nate, il secondo sparò a salve; 14 punti con meno del 25% al tiro.

A fine estate 2005 Isaiah è una rockstar pronta all’assolo di chitarra, ma l’anno successivo è una sorta di purgatorio. Costretto a trasferirsi per motivi scolastici nel Connecticut, non si trasforma in un profeta lontano dai confini domestici; tutt’altro, rimpiange la patria lontana qualche ora di volo. Ma il matrimonio era destinato a consumarsi.

Qualche tempo dopo coach Lorenzo Romar, che l’estate precedente aveva visionato tutte le partite dei Friends of Hoop per corteggiare Spencer Hawes, si è segnato anche il nome del folletto da Tacoma. Lo chiama; c’è un posto per lui alla University of Washington, a due passi da casa dei genitori. Per Thomas si aprono le porte del basket che conta e lui entra dall’ingresso principale, con una sola idea in mente; diventare un professionista.

La fascetta c'è, il controllo mancino pure, i muscoli guizzanti anche. I tatuaggi devono ancora arrivare.

La fascetta c’è, il controllo mancino pure, i muscoli guizzanti anche. I tatuaggi devono ancora arrivare.

SULLE SPALLE DEI GIGANTI

“Siamo persone fatte in questo modo”, dice Thomas riguardo alla coesione tra i giocatori di Seattle. “Quelli di noi che ce l’hanno fatta, vogliono dare qualcosa in cambio”. Così, per inerzia, negli anni di UW Isaiah è accolto nelle alte sfere del basket della città senza nemmeno dover cercare raccomandazioni, sono gli altri che lo cercano per farne il proprio pupillo.

C’è Brandon Roy, fresco laureato al suo stesso ateneo e in corsa per il premio di Rookie of the Year qualche miglio più in là, a Portland, Oregon. C’è Jamal Crawford che due anni prima ha ereditato da Doug Christie la palma di padrino del playground basketball e ha fondato la sua Pro-Am, un’attrazione che a dieci anni di distanza richiama spettatori esigenti, la crème dei giocatori locali e superstar NBA che si presentano da appassionati, senza la tara delle manovre di marketing.

C’è Jason Terry, che l’ha visto crescere in casa quando il padre lo allenava alle elementari, e ora dispensa consigli col fare burbero del fratello maggiore. Le estati Isaiah le passa tra Dallas e Atlanta.

Il Jet rincorre il titolo NBA coi Mavericks ma dedica volentieri il suo tempo a allenarlo, uno contro uno; sia mai che riesca a trasmettergli un po’ del suo killer instinct, quello che serve per sfondare al piano di sopra quando sei piccolino.

Ad ogni autunno si presenta a coach Romar con i fondamentali tirati a lucido e un paio di colpi segreti in più. Cura il palleggio, il tiro dalla media, il floater, infine la tripla da distanza NBA. Ha in testa un tipo di competizione più elevato.

Più di tutti gli altri, c’è Nate Robinson. Sente parlare di Thomas e in breve tempo ne diventa amico, mentore, fratello. Gli sembra di guardarsi allo specchio.

Entrambi meno di un metro e ottanta, entrambi giudicati troppo piccoli per giocare a quei livelli. Entrambi un po’ pazzi. KryptoNate gli lascia il ruolo e il numero di maglia, il 2, tra gli Huskies di Washington. Continuerà a indossarlo fieramente anche tra i pro, raddoppiato in 4 o in 22.

La claque passa le giornate insieme, quando possibile dal vivo, altrimenti scambiandosi messaggi. “He’s family”, spiegherà lo stesso Terry ammettendo di aver tifato contro i propri Arizona Wildcats mentre assisteva alla sfida coi Washington Huskies.

Thomas trascina la squadra, in quella come nelle altre partite. Ha i tatuaggi d’ordinanza – anche se di tanto in tanto se ne pente -, fascetta sulla fronte come richiede la moda, muscoli temprati dalla palestra e un profilo Twitter attivissimo fin dagli albori dei social network, ma l’immagine non deve trarre in inganno.

Isaiah ha in testa solo la pallacanestro. La interpreta a modo suo, quello sì, e a volte coach Romar si gratta la testa in angoscia. Ma non può essere altrimenti quando cresci osservando il parquet da una prospettiva tutta tua.

Nell’ultimo dei tre anni colleziona 16.8 punti di media e 6.1 assist, è eletto nel first team della Pac-10 e guida gli Huskies al titolo della conference con 28 punti e un buzzer beater da copertina proprio contro gli Arizona Wildcats, col Jet che lo applaudiva sugli spalti diviso tra l’amore per la famiglia e quello per l’alma mater.

A coronamento di una classica storia americana arriva anche la laurea, per accontentare la madre e, forse, ricambiarla per quella lettera aggiunta al nome. L’ha avvicinato al profeta biblico, ma l’ha anche salvato da una buffa omonimia a cui uno con quel carattere non meritava di restare relegato. In quella A c’è l’identità di Isaiah Thomas da Tacoma, Washington, più grande dei suoi 175 centimetri. Ora può guardare in alto da solo, senza issarsi sulle spalle dei giganti.

IL VOLO DEL CALABRONE

Gli ingredienti per dichiararsi eleggibile al draft 2011 ci sono tutti. E torniamo a quella notte di giugno, alla green room che vede solo col binocolo, al suo nome chiamato come sessantesimo della lista tra gli sbadigli e le risatine dei meno esperti.

Thomas non ne fa una questione di numeri, così come non si è mai soffermato sulle misure. Si rimbocca le maniche e rende Sacramento la sua nuova casa. Da illustre sconosciuto gioca 25 minuti a partita e non va lontano dalle sue medie universitarie. Nell’estate, non per niente, ha ulteriormente affinato il suo gioco.

Tempo due anni ed è un titolare con in mano le chiavi della squadra, in coabitazione con l’incontentabile DeMarcus Cousins. Non è più “quello che si chiama come Isiah”, quello subissato dai fischi alla prima apparizione al Madison Square Garden perché ai tifosi newyorchesi ricordava l’omonimo più impopolare.

Il 2014 è il suo annus mirabilis, realizza 20 punti e 6 assist abbondanti di media, il 18 marzo diventa anche il giocatore più basso di sempre a registrare una tripla doppia. La sua rincorsa alla stardom è lanciata.

Il fratellino di Nate Robinson, l’erede di Brandon Roy o il protetto di Jason Terry? Niente affatto, il portabandiera dei Seattlers in NBA ormai è lui, dato che i vari Hawes, Webster, Rodney Stuckey e Marvin Williams bazzicano ai margini dell’anonimato. Quando in estate torna nell’Emerald City, al Pro-Am di Jamal Crowford, è una delle attrazioni principali.

I risultati personali però servono a poco quando la squadra naviga a vista nei bassifondi della Pacific Division, e Zeke non è abituato a perdere. L’agonismo e l’amore per il gioco emettono un richiamo più forte degli zeri che abbonderanno sul prossimo contratto.

Nonostante sia solo al terzo anno Isaiah riconosce che i Kings sono allo sbando e si erge al ruolo di leader. Mette bocca nelle questioni tecniche, indice meeting riservati ai giocatori. È il suo modo di fare, se ha qualcosa in testa lo dice chiaro e tondo.

Il padre, che tira in causa più o meno in ogni intervista che rilascia, gli ha insegnato a guidare gli altri, piuttosto che essere condotto. Non è facile gestire una personalità di questo calibro per una franchigia ostaggio delle bizze di Cousins dove allenatori e general manager abbandonano la carrozza a ogni giro di giostra. Decidono che possono farne a meno e lo spediscono a Phoenix.

Ad accoglierlo trova un organigramma ancora più contorto e un backcourt affollato. Lui, Bledsoe, e Dragic si litigano i minuti, c’è bufera nell’aria; a febbraio è di nuovo tempo di fare la valigia, destinazione Boston.

Nel New England non lo accolgono a pesci in faccia, ma nemmeno indicono parate in suo onore. Il pubblico lo saluta con la freddezza di chi ha visto andare e venire centinaia di giocatori, con l’occhio inquisitorio di chi si aspetta qualcosa in più di un fenomeno da baraccone, di un piccoletto che prova a giocare con i grandi.

Danny Ainge è un artista delle trade, si sa, e i più suppongono che la scelta di Thomas sia stata calcolata sulla base del suo contratto, assai vantaggioso. I Celtics sono in fase di risalita ma il roster ha una fisionomia liquida, con molti giovani spendibili sul mercato in attesa dell’occasione giusta. Isaiah sa che potrebbe benissimo finire lui sulla graticola, allora si mette al lavoro.

Dopo gli anni burrascosi di Sacramento e Phoenix trovare un coach come Brad Stevens, brillante e col pieno supporto della squadra alle spalle, dev’essere stata una boccata d’aria fresca. Un altro appassionato patologico del basket e della sua cultura, uno con cui condividere il love of the game.

Di fronte alle sfide il nuovo Isaiah si carica, non è più quel ragazzo spaurito che perse la voglia di giocare, e un po’ anche quella di vivere, nei due anni di purgatorio in una scuola superiore del Connecticut. Ha l’intera scena cestistica di Seattle che lo spinge.

Si fa umile e si accomoda nel ruolo di sesto uomo. Sfiorerà il titolo di Sixth Man of the Year, assegnato poi a Lou Williams – più come attestato di stima per le sue conclamate abitudini bigame che come riconoscimento per quanto mostrato in campo, viene da immaginare.

Un’altra estate di lavoro, è consuetudine ormai, ma questa volta non solo in palestra. Vuole conquistarsi l’affetto di una città esigente, abituata a vincere. Come lui del resto.

Isaiah a Boston è ovunque. Si fa in quattro, tra reale e virtuale, si sdilinquisce in dichiarazioni di fedeltà. Parla alla stampa come se la squadra fosse già sua, conferisce coi free agent in veste di rappresentante. Nella conversazione Whatsapp con coach Stevens, ipotizziamo, dev’essere un fiume in piena. Quando poi ti presenti ai nastri di partenza in versione riveduta e corretta, e in forma scintillante, la promozione in quintetto è una naturale conseguenza.

Isaiah Thomas ha tirato così nel 2015/2016. Percentuali che non fanno gridare al miracolo, ma consideriamo il suo ruolo: soltanto il 18% delle sue conclusioni è in catch and shoot, il resto se lo costruisce da solo, spesso allo scadere del cronometro. Il 33.7% dei suoi tiri è da 3 punti, li converte col 35.7% Per un giocatore della sua stazza stupisce il comportamento vicino al ferro; metà esatta dei suoi tiri arrivano nel pitturato, li realizza col 50% e vanta un 45% complessivo con il difensore nelle immediate vicinanze

Isaiah Thomas ha tirato così nel 2015/2016. Percentuali che non fanno gridare al miracolo, ma consideriamo il suo ruolo: soltanto il 18% delle sue conclusioni è in catch and shoot, il resto se lo costruisce da solo, spesso allo scadere del cronometro. Il 33.7% dei suoi tiri è da 3 punti, li converte col 35.7% Per un giocatore della sua stazza stupisce il comportamento vicino al ferro; metà esatta dei suoi tiri arrivano nel pitturato, li realizza col 50% e vanta un 45% complessivo con il difensore nelle immediate vicinanze

L’annata 2015-2016 è un capolavoro. Se il termine vi sembra eccessivo, pensateci bene. Migliora le cifre dell’ultima corsa a Sacramento dopo due anni di iato, in un team dove si è appena inserito, combattendo per un posto tra le prime quattro in una Eastern Conference competitiva e prendendosi, di forza, il ruolo di go to guy.

Gioca a testa alta come nei playground di Seattle, è più disciplinato ma Stevens gli permette di improvvisare. Dall’arco è diventato un tiratore affidabile e ha imparato a costruire gioco nel senso più moderno del termine. Crea vantaggio dal palleggio, poi sa pescare i compagni coi tempi giusti o concludere da solo.

Nel repertorio non manca niente, anche l’ormai desueto tiro dalla media, ma il suo pezzo forte è raggiungere il ferro, di destro o di sinistro. Lì sotto, all’ombra dei lunghi e delle ali ipertrofiche che popolano i parquet americani, ha quella bizzarra abilità di ritagliare spazi dove non ci sono. Scompare dalle telecamere, i difensori saltano, poi lo vedi riapparire, la palla che si appoggia docile sul ferro da angoli inconsueti.

Lui e i Celtics imparano a conoscersi, creano un equilibrio, i compagni lo cercano e vi si affidano ogni partita di più. Con Avery Bradley a mordere le caviglie in difesa compone un backcourt temibile, tutto nativo di Tacoma. A febbraio arriva la chiamata per l’All-Star Game. È il più basso di sempre, insieme a Calvin Murphy, ma ormai si dovrebbe averlo capito: a lui dell’altezza importa poco, la statura è tutt’altro che un handicap. Jason Terry si prende persino la briga di sponsorizzarne la candidatura con un intenso contributo su The Players’ Tribune: “he’s family”, dopotutto.

La grandezza di un uomo si misura dal valore dei suoi nemici, dice un vecchio adagio. Più della convocazione, la consacrazione di Isaiah Thomas tra i grandi è ai playoff, i suoi primi. Gli esperti Hawks tessono una ragnatela intorno a lui, ne studiano i movimenti e lo ingabbiano, sanno che è l’uomo che detta i ritmi dell’attacco, sanno che è capace di exploit offensivi. Sotto 2-0, infatti, all’esordio al Garden è un Isaiah contro tutti. A referto scrive 42 punti, più che abbastanza per scuotere i compagni sfiduciati e provare la rimonta. In gara 4 sono 28, e il parquet di casa resta inviolato. Finirà la benzina e finirà la serie, 4-2 per Atlanta, ma gli anni d’oro di Zeke sembrano appena iniziati.

Viene in mente il calabrone, la cui struttura fisica sarebbe inadatta al volo ma lui, noncurante, vola lo stesso. Un aforisma falso ma che ci piace ripetere; fa sentire speciali, per una volta, anche noi persone normali.

Isaiah Thomas è così. I suoi 175 centimetri non sono adatti per giocare in NBA; voi continuate pure a ripeterglielo, che tanto non vi ascolta. E non si accontenta dei 15 minuti di fama che ti dona una gara delle schiacciate, come Spud Webb o Nate Robinson, né di una carriera da pellegrino come Muggsy Bogues o Earl Boykins.

Vuole essere il volto della franchigia più vincente della Lega, vuole essere ambasciatore di Boston e dell’NBA intera nel mondo, non ritiene di avere nulla da invidiare ai suoi colleghi più blasonati. Sfoggerà pure tatuaggi da figlio del ghetto, ma la faccia è quella di uno che fa sul serio, nella pallacanestro e nella vita.

Quella faccia che si illumina quando condivide la sua storia coi ragazzi del liceo, quando racconta del padre, l’unico modello a cui si ispira, dei figli che cresce con orgoglio, quando organizza il suo Zeke-End, sulle orme di Jamal Crowford, nella nativa Tacoma.

Quando ricorda con affetto il coach delle lunghe estati in AAU, Jim Marsh, e presta il proprio nome per aiutarlo nella battaglia contro il Parkinson, un nome su cui ora nessuno si confonde. Isaiah Thomas, con due A. Non come quell’altro.

One thought on “Isaiah Thomas: l’ultima scelta

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