La mitologia dei campetti è, per definizione, popolata da anti-eroi: perdenti, sconfitti, personaggi incapaci di adattarsi alla società, vittime delle circostanze.

In questo panorama, la storia di Pee Wee (al secolo Richard) Kirkland, point-guard newyorchese di 6’1’’, si distingue per la propria unicità. Kirkland, infatti, non è stato una vittima del ghetto, quanto un carnefice della propria comunità.

Nacque a Harlem, il 6 maggio del 1945, e iniziò a giocare a basket cinque anni più tardi, guadagnandosi il soprannome irriguardoso di Pee Wee, perché era quasi sempre il più piccolo in campo.

Crebbe fino a diventare uno dei ‘ballers più rispettati di tutta Manhattan. Anche Julius Erving e Nate Archibald, che ci giocarono contro, ne riconoscevano l’estro offensivo, fatto di giocate veloci e fulminanti, di virate e trash-talk. Sports Illustrated lo definì “la guardia più veloce del College Basketball” mentre per Archibald, era “l’avversario più duro che abbia incontrato”.

Evoluiva nei circuiti scolastici della Manhattan degli anni ’60 vestendo i colori di Charles Evans Hughes High School. La famiglia Kirkland non era certo una delle più disastrate di Harlem; in fondo i suoi genitori erano sposati e avevano cresciuto quattro figli (una femmina e tre maschi), ma, dovendo lavorare, li lasciarono spesso per conto proprio, liberi di cercare avventure per l’isolato, tra Lennox Avenue e la 116esima, e poi per l’intero quartiere, imparando i fatti della vita da alcolizzati, tossici e delinquenti assortiti, senza nessun compasso morale ad assisterli.

Per fare qualche soldo il giovane Richard vendeva giornali agli angoli delle strade, ma a tredici anni entrò in una gang. Rubavano automobili e gioielli, e i ricettatori li pagavano in eroina. Qualche suo amico se la iniettava in vena, ma Pee Wee, invece, scelse di rivenderla.

Si stupì di quanto fosse riuscito a racimolare, giungendo così ad una conclusione: il vero business era quello della droga. “Sapevo che stavo sbagliando, ma il crimine è come le sabbie mobili, non riesci più ad uscirne”.

Pee Wee terminò le scuole superiori, e nonostante il suo talento cestistico (inclusa una stagione intera a 50 punti di media!) i grandi college non lo reclutarono. Ottenne una chiamata dal Kittrell Junior College, una piccola istituzione del North Carolina che militava in Division II, dove tenne la sbalorditiva media di 41 punti a partita (sulla fiducia, perché nei college neri non si tenevano le statistiche); a quel punto, ignorarlo divenne impossibile, e arrivò la chiamata da Norfolk State, Stato della Virginia.

Nel 1967, vestendo l’uniforme verde degli Spartans, fu nominato nel quintetto della “National Collegiate Athletic Association Mideast Regional”. A Norfolk faceva coppia con Bob Dandridge, la guardia 4 volte All Star e 2 volte campione NBA (con Milwaukee e Washington), in un backcourt del quale bastavano i nomi, per far tremare le ginocchia a tutti gli avversari.

Bob McAdoo (è nativo della poco distante Greensboro, NC), ricorda distintamente la Norfolk di Dandridge e Kirkland: “Ho giocato nei Los Angeles Lakers dello Showtime, con Magic Johnson, Kareem Abdul-Jabbar e James Worthy, ma Pee Wee ha anticipato lo Showtime di vent’anni; la filosofia di Norfolk State era di spingere la palla e continuare fare contropiede fino a sfinire fisicamente gli avversari. Pee Wee volava, dico sul serio: poteva palleggiare da una linea di fondo all’altra in tre secondi”.

Richard Kirkland però, non era soprannominato solo Pee Wee. Lo chiamavano anche “The Bank of Harlem”, e i motivi erano meno commendevoli di quelli che l’avevano reso l’attrazione principale del Rucker Tournament, dove scendeva in campo affianco a mostri sacri dell’asfalto, come Joe Hammond e Eric Cobbs.

Kirkland era ormai diventato un gangster di prima grandezza, con ai propri ordini sgherri di ogni genere, poliziotti corrotti, avvocati, attività di copertura, e via dicendo.

Gli va riconosciuto un certo talento per il crimine: faceva soldi a badilate, tanto che girava in Rolls Royce prima ancora d’avere l’età per prendere la patente (che in America è 16 anni e non 18 come da noi). La maggior parte delle stelle dei playground sono perdenti cronici, ragazzi deboli che finiscono a delinquere più per debolezza che per scelta, mentre con Pee Wee vale l’esatto contrario: Kirland non si drogava e non era un emarginato; scelse di fare il gangster, perché, molto semplicemente, rendeva bene. Molto bene.

Pee Wee gestiva ogni genere di racket illegale, dai furti di gioielli allo spaccio, dalle scommesse clandestine, fino al riciclaggio di denaro sporco. Nel giro di qualche anno, Kirkland si era comprato casa a Long Island (per ironia della sorte, era il sobborgo prediletto dalle classi agiate, in fuga dalla violenza che imperversava a New York, ignare di avere per vicino di casa uno dei principali trafficanti di cocaina di tutta Manhattan), e quando andava a giocare al Rucker, arrivava al volante della sua Ferrari.

Era “The Bank of Harlem” perché se nel resto di New York prestava denaro con interessi da strozzinaggio, nel proprio quartiere, spesso, non pretendeva nemmeno i soldi indietro. Inondava le strade di violenza e droga, ma passava per un eroe locale.

È lo stesso metodo che usava anche Frank Lucas, un altro boss con il quale spartiva il quartiere (quello di “American Gangster”, bel film di Ridley Scott, con Russell Crowe e Denzel Washington, che però, a dire dello stesso Lucas, ha ben poco di autentico).

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Kirkland sembra un personaggio preso di peso da GTA, tutto gioielli (incluso il catenone con le iniziali), auto e pistole. Pee Wee è stato l’ispiratore di una grammatica a cavallo tra hip-hop e mondo gansgsta, in cui il confine tra cultura e crimine assume connotati incerti, molto prima che Allen Iverson venisse al mondo (e poi, per la cronaca, The Answer non era un ladro e tantomeno uno spacciatore) e prima che Ice Cube vagheggiasse di triple-doppie messe a segno “cazzeggiando” in qualche campetto di South Central Los Angeles, nella sua iconica “It Was a Good Day”.

A Pee Wee, beninteso, quest’excursus socio-culturale sarebbe interessato assai poco; per lui, in quel momento, la bussola era il dio dollaro, tanto che, quando arrivò l’opportunità di giocare in NBA (dov’era entrato per la porta principale, scelto al Draft nel 1969 al, udite udite, tredicesimo giro!), mandò a quel paese coach Dick Motta e i Chicago Bulls, preferendo tornare ai propri traffici illeciti di West Harlem, facili, appaganti, e soprattutto più redditizi della National Basketball Association.

Il talento di Kirkland era cristallino, e dopo la chance con i Bulls, finì nel mirino anche dei San Diego Rockets, e poi persino di Red Holzman gli offrì un provino con i New York Knicks, dove avrebbe potuto ritrovare il suo vecchio compagno di scorribande al Rucker Park, Earl Monroe.

Non se ne fece mai nulla, perché Pee Wee, come tanti altri figli del ghetto, si sentiva fuori posto, nutriva un misto di risentimento e senso d’inadeguatezza rispetto al mondo “bianco”.

Gerarchia, disciplina, lavoro di squadra, la presenza di visi pallidi incravattati che gli dicevano cosa fare… era davvero troppo per un giovane uomo cresciuto secondo i dettami della strada, quel misterioso crogiolo di “rispetto” e anarchia sociale che contribuisce a fare dei quartieri neri degli autentici inferni urbani.

Il talento di Kirkland valeva la Division I NCAA, certo, ma sarebbe troppo comodo dare la colpa della propria esclusione al razzismo, anziché allo stile di vita da gangster (e quindi corruzione, violenza, e, forse, anche qualche cadavere sulla coscienza). Pee Wee è il primo ad evitare questo tipo di scuse, facili quanto fuorvianti.

Richard Kirkland non ha mai voluto scaricare la responsabilità di ciò che era diventato sui propri genitori, sul quartiere, oppure sul razzismo, ritenendosi, viceversa, il primo artefice delle proprie miserie. In fondo, altri ragazzi cresciuti sulla strada come lui (Monroe, Kareem, oppure Dandridge: la lista è infinita), raggiunsero il successo ingoiando qualche rospo, tenendosi alla larga dai guai e diventando dei “role model” positivi. Pee Wee invece era diventato un cancro per la propria comunità, uno che lucrava sulla debolezza della propria gente.

Kirkland tornò a darsi al crimine, finché il crimine lo condusse in prigione. Nel 1971 il suo stile esibito e la sua celebrità di strada, ne fecero un bersaglio per le autorità, che riuscirono ad arrestarlo e farlo condannare per evasione fiscale –come Al Capone– oltre che per traffico di narcotici.

Pee Wee si trovò a Lewisburg, in Pennsylvania, a scontare una sentenza di quattro anni, cui seguì una seconda condanna, dal 1981 al 1988, a La Tuna, in Texas. Dalla prigione (che evidentemente non era quella di Shawshank) uscì un uomo nuovo e riformato.

In galera continuò a giocare a basket, con i Lewisburg Hilltoppers; dominò la Anthracite Basketball League (che univa, tra le altre, alcune formazioni semi-professionistiche di varie prigioni della Pennsylvania) e, nel 1974, segnò 135 punti in una gara d’esibizione contro un team lituano (per la cronaca, finì 228-47, quindi i compagni d’oltre cortina non dovevano essere proprio dei draghi!), ma soprattutto, maturò una svolta interiore, rendendosi conto delle conseguenze delle sue azioni criminali, a partire da quelle patite da suo fratello, tossicodipendente.

Secondo Pee Wee: “La prigione ti fa sentire un perdente; presi 13 uomini che non avevano più fiducia in loro stessi o speranza nel futuro, e gli diedi qualcosa per cui battersi e di cui andare fieri”.

Uscì dal carcere nel 1988, e da allora Kirkland si è impegnato nel sociale, sforzandosi di usare la propria credibilità di strada a fin di bene, non solo raccontando ai giovani i propri errori, quanto tentando di offrire loro una prospettiva diversa e migliore rispetto a quella del ghetto.

Andò a vivere in Nevada, con la propria famiglia, e mise a frutto il suo fiuto per gli affari allestendo con un amico un autosalone a Beverly Hills. Poi, nel 1994, tornò nei luoghi della propria gioventù, nella parte nord di Manhattan.

Aprì la sua School of Skillz, che si teneva presso una chiesa battista su Amsterdam Avenue, tenne due corsi alla L.I.U. di Brooklyn (nel frattempo, aveva ottenuto la laurea alla Lincoln University, con tesi sulla violenza giovanile), e ha anche una piccola attività da conferenziere in giro per il Paese.

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Nel 1996 Stephen Spahn, allora preside della Dwight School, decise di assumerlo per allenare la squadra della scuola. Suo padre, Mo Spahn, aveva giocato nell’ABA, e suo figlio, negli anni ’60, aveva fatto la squadra a Dartmouth: insomma, a casa Spahn, il basket era una cosa seria. Stephen incontrò Richard Kirkland nel 1994, presso un basketball camp patrocinato da Pee Wee, e nacque l’idea di una collaborazione stabile, che di lì a due anni avrebbe dato i suoi frutti.

Dwight è un istituto privato fondato nel 1880, collocato su Central Park West, ben frequentato (qui hanno studiato Truman Capote e Fiorello La Guardia, l’amatissimo sindaco newyorchese) e attento al sociale (il “community service” è parte del percorso di studi dei suoi alunni). Non è certo quindi il tipo di scuola che calamita i talenti di Coney Island, Bronx o Queens, ma Kirkland riuscì ugualmente ad assemblare una squadra competitiva, entrando a far parte di un’istituzione “bianca”, lanciando un messaggio forte ai ragazzi convinti di essere tagliati fuori a prescindere.

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Kirkland non ha mai voluto fare della propria storia un film (a dispetto delle offerte ricevute), perché non desidera in alcun modo mitizzare o giustificare il proprio passato da gangster, ma di recente, la sua storia è stata raccontata all’interno di “Doin’ it in the Park”, un documentario molto interessante ed esaustivo sui campetti newyorkesi e sulla loro epopea, mentre ESPN lo cita in “Black Magic”, uno sforzo mastodontico teso a ripercorrere le origini del movimento per i diritti civili, e, al contempo, la storia dei college segregati per neri.

Pee Wee è uno dei personaggi più importanti all’interno della mitologia urbana dei playground, e, a suo modo, rappresenta una parabola di redenzione incoraggiante, in un mondo che spesso elargisce solo sogni infranti e miseria, o celebra stili di vita che portano al cimitero o in prigione. “Trent’anni fa, ero parte del problema” dice questo arzillo settantenne. “Oggi, sono parte della soluzione”.

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