A volte al playground sotto casa, nei pomeriggi meno affollati, capita di essere dispari. Metti che siamo in nove; come si gioca?

Facile, uno sta fuori, ma scatta la lotta tra i maschi alfa per selezionare il malcapitato. Quello che ha portato il pallone poi ha diritto di prelazione. A quel punto c’è sempre qualcuno che propone l’idea peregrina: dai ragazzi, facciamo quattro contro cinque. I più forti, ovviamente, stanno in quattro.

Nell’NBA attuale c’è una squadra che potrebbe giocarsela anche in questa situazione. Curry-Thompson-Durant-Green è uno dei quartetti più altisonanti nella storia della lega ma, per sfortuna dei Golden State Warriors, qui non siamo al campetto dell’oratorio.

Dietro le quinte del colpo da fantabasket che ha infiammato la free agency estiva c’è un meccanismo a incastro che si regge su banalissimi, verdissimi dollari.

La firma di Durant è il prodotto di una congiuntura più unica che rara, la sua ragion d’essere sta nelle pieghe tra l’incremento a scaglioni del salary cap, i vagoni carichi di contanti in arrivo grazie ai nuovi diritti televisivi e, ultimo ma non ultimo, le caviglie di Steph Curry.

Quelle ballerine di qualche anno fa, che minavano il suo futuro tra i professionisti e gli proibirono guadagni degni della superstar che sarebbe diventato, almeno fino al prossimo rinnovo. Bastava che una di queste condizioni rimanesse insoddisfatta e i Warriors non avrebbero potuto registrare a libro paga quattro giocatori di quel calibro.

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Pure così, in verità, il GM Bob Myers è costretto ai salti mortali per garantire a coach Steve Kerr una batteria di expendables affidabile e talentuosa per gestire senza patemi back to back, infortuni, minuzie tattiche e l’inevitabile wear & tear di una stagione che, sperano nella baia, duri quanto le due precedenti.

Se ci sarà riuscito lo diranno i posteri e potremo valutarlo meglio a bocce ferme, alla fine dell’estate. Noi però siamo impazienti di vedere all’opera questo mostro a quattro teste; buttiamo un occhio a fine ottobre e immaginiamo come giocheranno i Warriors, con i Fab Four e oltre i Fab Four.

Armageddon lineup?

L’abbiamo visto piegarsi contro le due torri di Oklahoma City e infine spezzarsi sotto i colpi d’accetta di LeBron James, ma le statistiche abbacinanti del quintetto piccolo di Golden State restano immutate negli annali e nei nostri ricordi. Per chi volesse rinfrescarsi la memoria, eccole.

Il calo di rendimento del rating offensivo nelle Finals 2016 ha dell’incredibile. Onore ai Cavs.

Se il basket fosse matematica, e in questo caso non vi si allontana troppo, sostituendo l’addendo meno pregiato – Harrison Barnes – con uno di tutt’altro valore – Kevin Durant – le cifre dovrebbero tendere a più infinito.

Come fosse l’evoluzione di un pokemon raro, c’è già chi si diverte a ipotizzare nuovi e catastrofici nomi per quella che tutti chiamano Death Lineup. Non serve la sfera di cristallo per prevedere i vantaggi che uno schieramento simile garantirà all’attacco dei Warriors.

Gli stessi Thunder e i Cavaliers hanno mostrato come si fa a disinnescare i giochi a due tra Green e Curry tenendo un occhio sul rutilante schema di blocchi e controblocchi proposto da Steve Kerr; marcatura stretta sul portatore di palla senza timore di raddoppiare oltre l’arco, lotta ai limiti del fallo sugli screen e cambi selezionati, a costo di lasciare un uomo libero.

Ma quando quell’uomo libero è Kevin Durant, il castello di carte è prossimo a crollare.

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Harrison Barnes ha tirato così nella scorsa regular season. Ha percentuali del 33.8% quando il difensore è a 4-6 piedi di distanza (open shot) e del 42.6% quando è oltre 6 piedi (wide open shot). Sono, manco a dirlo, i tiri che la difesa gli concede più spesso.

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Questo è Kevin Durant. Gli angoli tanto cari a Barnes a lui non piacciono. Giocando spesso alle spalle di Westbrook ha esperienza nel ruolo di spot up shooter (11% delle sue azioni): è il decimo migliore della lega, con il 56.4% e 1.129 punti per azione. Tira gli open shot con il 43.8% e i wide open shot con il 32.6%, ma gli capita di rado.

Oltre a questo, disporre di tre fenomeni capaci di creare un vantaggio dal palleggio è un lusso con pochi precedenti. Permette di lavorare ai fianchi le difese più arcigne elevando all’iperuranio il concetto di pace & space su cui Steve Kerr ha costruito le sue recenti fortune.

Con un’oculata gestione del ritmo quel tiro smarcato possono prenderselo a turno Curry, Thompson e Durant. Le stesse soluzioni che i vittoriosi Cavs di gara 6 e 7 concedevano senza patemi a Green e Barnes.

Addio, e grazie per tutto il pesce (cit.)

Come evidente dalla tabella sul monte salari, era impossibile per Bob Myers assoldare Durant senza rinunciare ad alcuni dei suoi pezzi.

Ci ha rimesso qualche pedone e un paio di alfieri, Harrison Barnes e Andrew Bogut, entrambi già accasati a Dallas in cambio degli spiccioli per la merenda.

Il primo va a guadagnarsi un contratto al massimo che dalle parti nella baia certo non rimpiangono, ma il suo disappearing act delle Finals 2016 – condizionato, forse, dalle stesse voci sull’arrivo di Durant – non deve far dimenticare la duttilità di un giocatore che invece fu decisivo nei playoff dell’anno precedente e che si distingue per quelle piccole cose, quelle giocate d’impegno che un campione talvolta tralascia.

Durant è un upgrade diretto dell’ex Tar Heel ma non si può pensare che i due interpretino la posizione allo stesso modo, pena la sciagura di assistere a un All Star appostato in angolo e relegato al ruolo di cecchino – a Kevin Love in questo momento stanno fischiando le orecchie.

Nonostante condividesse un monolocale col ball hog più spietato della lega, KD si riservava 65.3 tocchi a partita (dato destinato a calare) contro i 42.7 di Barnes.

È stato capace di exploit difensivi, come quello contro lo stesso Draymond Green nelle recenti finali della Western Conference, ma non gli era richiesta grande disciplina.

Nonostante l’evoluzione fisica e tecnica, senza considerare quelle braccia smisurate, KD nasce e resta un giocatore perimetrale, più avvezzo a lasciare il pitturato a due lunghi che a vestire i panni dello stretch four.

Era ancora inizio giugno e Andrew Bogut non nascondeva le sue perplessità in merito ai rumors su Durantula in maglia Warriors. “Guys have definitely asked questions. Different guys at different times have been scratching their head and thinking, ‘Why?” diceva, e forse pensava già a cosa mettere in valigia.

L’addio dell’australiano può sembrare cosa da poco, ma insieme a lui lascia la baia il 14.5% degli assist della propria squadra insieme a un Net Rating di 14.2 che non sfigura con gli altri starters.

Non solo; Steve Kerr dovrà fare a meno di un veterano rispettato nello spogliatoio, il cui gioco rasoterra ma intelligente si attagliava alla perfezione ai suoi schemi. Le ottime prestazioni in gara 4 e 5 delle scorse Finals, e il collasso Warriors dopo il suo infortunio, raccontano più dei 20 minuti di media collezionati in stagione.

Quella sporca dozzina

Vi ricordate gara 1 delle scorse Finals? Oakland, Oracle Arena, i Warriors partono col botto sulle ali di Steph Curry e Klay T… ah no, di Shaun Livingston, Leandro Barbosa e Mareese Speights.

Dei tre solo il primo è rimasto a casa base e sarà caposaldo della panchina insieme a Andre Iguodala. Nemmeno Festus Ezeli, erede designato e mai realizzato di Bogut, è più sotto contratto, come lui Brandon Rush.

Della strength in numbers che era vanto della baia rimangono giusto i prodi Anderson Varejao, James McAdoo e Ian Clark con le loro sporadiche apparizioni sul parquet; i Warriors rischiano di passare dalla panchina più profonda della lega a una scarna rotazione a 8 – i rookie Damian Jones e Pat McCaw, insieme al sophomore Kevon Looney, non sembrano pronti per una chiamata alle armi.

Il GM Bob Myers ci ha messo una pezza con un colpo machiavellico; prelevare dal parco free agent l’animale più simile a Andrew Bogut.

L’ha trovato in Zaza Pachulia, 120 chili di cattiveria georgiana reduci da due stagioni di assoluta qualità.

Ama passare la palla, bloccare, giocare per i compagni, rispetto all’australiano gli è rimasta nel serbatoio qualche gomitata in più da assestare sotto le plance. Quel che gli manca, e che dovrà creare da zero, è la coesione con un gruppo a cui Bogut aveva fatto da chioccia.

L’altro arruolato è David West, che da un paio d’anni a questa parte vive al motto di “ti piace vincere facile”, e l’identikit è simile.

La sua stagione agli Spurs non ha entusiasmato ma, al costo di un minimo salariale, Myers non poteva lasciarselo scappare.

Ammortizzata l’onda d’urto del terremoto Durant, Steve Kerr si trova a gestire un roster numeroso ma con pochissime certezze. Con un quintetto del genere non c’è da avere paura, ma nel caso qualcosa andasse storto bisognerà piazzare un paio di scommesse.

Nota a margine. Ogni estate esce una nuova stagione della serie “Il ritorno di Ray Allen” dove, secondo i media, il buon Jesus Shuttlesworth – che passa i suoi giorni meditando sotto cascate gelide come un maestro zen per mantenere addominali d’acciaio oltre i quarant’anni – affila le armi per unirsi a una contender.

A questo giro, tra i candidati non potevano mancare i Warriors.

Il gioco delle sedie

Due anni fa, mese più mese meno, Chris Bosh metteva in guardia il collega Kevin Love dalle difficoltà di integrarsi con altri due maschi alfa, e fu una facile profezia.

Ai Warriors saranno in quattro a contendersi un posto al sole, e siccome non siamo all’All Star Game, per l’economia di una squadra che punta a vincere l’anello qualcuno dovrà fare un passo indietro, restare in piedi quando si ferma la musica.

In un mondo ideale, dove tutti sono colombe e non esistono falchi, farebbero a turno. Nella realtà, è probabile che tocchi a Klay Thompson vestire la parrucca del Ringo Starr in questa versione cestistica dei Beatles.

Steph Curry ha un inattaccabile status da MVP e tanta voglia di mettere a tacere le critiche (anche se sarebbe stato interessante vederlo lottare per il riscatto senza rinforzi – NdA), Draymond Green può dedicare anima e corpo al ruolo di facilitatore, Durant vivrà mesi di intenso lavoro per integrarsi in un sistema che viaggia già a meraviglia.

Klay non ama le luci del palcoscenico, farebbe a meno delle interviste, ha uno stile di vita moderato, non gli importa di sfoggiare la propria abilità ma preferisce vincere, si ispira a Manu Ginobili e tra un tiro smarcato e una penetrazione in palleggio sceglierà sempre il primo.

Tutta farina del suo sacco, ma la lingua, si sa, è veloce a correre. Quel che ci resta negli occhi è la reazione piccata alla sconfitta di gara 7, quell’espressione di angoscia e rabbia mentre assisteva alle forzature sue e dello Splash Brother che non trovavano il canestro.

Non la faccia di uno che ha voglia di rimettere le responsabilità sulle spalle degli altri; non era così nemmeno la faccia che aveva durante l’epica rimonta di gara 6 contro i Thunder, firmata e vidimata da lui.

La faccia di Klay è tutta un programma. Vietato ai minori.

La faccia di Klay è tutta un programma. Vietato ai minori.

Per quanto non gli piaccia mettere la palla per terra – 3.4 drives a partita che generano 2.5 punti, il 61.3% delle volte tira senza palleggiare -, Klay Thompson è un giocatore produttivo in ogni angolo del campo e le sue iniziative personali hanno spesso levato le castagne dal fuoco: il 47.2% dei suoi tiri arriva col difensore a stretto contatto, e li segna col 42%.

Fa spavento – per gli avversari – l’idea di vederlo riciclato come specialista difensivo, un aggiustamento naturale che però renderebbe ridondanti le abilità di scassinatore di Andre Iguodala.

Quel che è certo è che Durant si guadagnerà parecchi primi piani in attacco, col rischio di pestare i piedi a Draymond Green. Amano giocare sulle stesse aree del parquet, cominciare l’azione sul perimetro in punta o in mezza punta per poi accentrarsi.

KD dovrà abituarsi a entrare nei set offensivi qualche secondo più tardi e aspettare che si creino le spaziature giuste. I due sono amiconi, si intenderanno, anche se Dancing Bear ha imparato fin troppo bene a apprezzare le luci della ribalta in questi mesi, tra la squalifica, il one man show di gara 7 e il recente arresto per aggressione.

Se il nostro Ringo l’abbiamo – forse – trovato, resta da vedere chi imbraccerà la chitarra di George e chi si spartirà il microfono come Paul e John. Ne riparleremo; purtroppo per la nostra impazienza ottobre è ancora lontano.

 

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