19 stagioni, più di mille partite vinte, 5 titoli, 2 volte MVP della regular season, 3 volte MVP delle Finals, 15 partecipazioni (col broncio) all’All Star Game.

Più di 26mila punti, 15mila rimbalzi, 3mila stoppate. 140 compagni diversi.

Mica male per uno che, sul podio spettante alla prima scelta del draft 1997, dichiarava: “I just hope to make a difference”.

Per un appassionato di basket il ritiro di Duncan era diventato un po’ come un tabù. Tutti sanno che è lì, ma si fa finta di non pensarci.

Eppure, ogni fine giugno da qualche anno a questa parte, i media facevano partire il carosello a sirene spiegate. Un ritornello più fastidioso e puntuale di un tormentone estivo.

Parlavano di acciacchi, contratti, messaggi subliminali captati da un sopracciglio alzato – perché, in quanto a pretesti per un titolo a tutta pagina, Timmy ha sempre offerto poco.

 Poi qualche mese dopo lo ritrovavi sul parquet del training camp, a prendersi a male parole con coach Pop per poi riconciliarsi (la loro relazione meriterebbe un libro, più che un articolo intero), a fare a spallate coi giovani del roster. Di solito, vinceva lui.

“He’s been knocking the crap out of Father Time”, ha detto di lui Erik Spoelstra.

Il ritiro di Duncan è come un supereroe che si toglie il mantello. Ci costringe a fare i conti con la realtà, ci ricorda che la pazienza di Padre Tempo possiede limiti invalicabili.

D’altronde lui l’aveva detto. Il giorno in cui sentirò di non poter più contribuire alla squadra, dirò basta. Detto, fatto.

Senza tweet, tour d’addio o speciali sulla ESPN. Non lo scopriamo certo oggi, Duncan è fatto così. A differenza di altri giocatori della sua generazione non si è mai convertito alla cultura digitale degli anni 2000, è il ritratto di quello che al campetto sotto casa chiameresti nonno. O tutt’al più zio, prima che gli spuntassero quei capelli argentati sulle tempie.

Quello che non corre ma la spiega a tutti. Quello che è talmente forte che quando sbagli ti dice cosa fare anche se gli giochi contro. Poi però ti stoppa lo stesso – Etan Thomas conserva tra gli aneddoti da tramandare ai nipoti una vicenda di questo tipo.

Il repertorio c’è tutto, compresi i dad jokes e l’abuso verbale e fisico sui giovanotti che passano il segno. Steven Adams, al loro primo incontro, si sentiva quasi in colpa per averlo preso di mira col suo gioco ruvido.

“Oh, what a nice guy” pensò, quando Duncan gli rivolse un saluto amabile nonostante i colpi appena incassati. Nei minuti restanti gli segnò venti punti in faccia.

Chissà dove lo troveremo adesso, come faremo a seguire le tracce di un uomo che, quando non ha una palla arancione in mano, dà il meglio di sé lontano dai riflettori.

Difficile immaginarlo dietro una scrivania, stretto in una giacca elegante; a lui è sempre piaciuto vestire comodo, senza tanti fronzoli.

Forse dall’altro lato del parquet, quello della panchina; non ti chiamano The Big Fundamental per caso.

Di sicuro sarà più facile incrociarlo tra gli stand di una fiera del fumetto che in uno studio televisivo, lui che è un nerd impenitente da almeno due decenni prima che tale definizione potesse considerarsi cool.

Terrorizzare i presenti al ComiCon con il cosplay dell’incantatore più alto del mondo? Fatto.

Portare avanti campagne pluriennali di Dungeons & Dragons? Fatto.

Comparire sulle pagine del fumetto preferito, The Punisher? Fatto.

A dispetto della personalità schiva e dell’assoluta estasi agonistica che mostra in campo, Tim Duncan è probabilmente uno degli individui più divertenti con cui avere a che fare. Parola dei compagni di squadra.

Per provare a rendergli giustizia, tra il serio e il faceto, ecco alcuni dei momenti che hanno permesso a noi di godere della sua carriera, e a quei 19 anni di divenire immortali.

UN URAGANO E UNO SQUALO

Lo squalo è, tra le altre cose, il soprannome di Michael Phelps, recordman olimpico nel nuoto. È in generale un nomignolo che si attaglia bene a chiunque ci sappia fare in acqua, e ormai lo sanno anche i sassi che il giovane Timmy era un nuotatore provetto in odore di Barcellona 1992, come la sorella Tricia.

Ma in questo caso lo squalo non è lui. Tra gli abitanti del mare lui preferiva i mammiferi e lo squalo, quello vero, gli faceva paura. Nell’oceano che circonda la sua Saint Croix pare che ve ne fosse un numero sufficiente a scoraggiarlo da ogni tentativo di immersione.

 Il 18 settembre 1989 l’uragano Hugo passa dalle Isole Vergini. Per non farsi mancare niente, riserva l’apice del suo potere distruttivo su Saint Croix. Miete due delle sue 107 vittime complessive e manda per aria il 90% delle costruzioni dell’isola. Tra di esse, la piscina. E in mare aperto non si può nuotare, ci sono gli squali. Per essere alto è alto, il ragazzo, suggerisce un amico di famiglia; facciamogli provare questa pallacanestro.

LO STRIZZACERVELLI

Blowhards, snobs, and narcissists: Interpersonal reactions to excessive egotism è il titolo del sesto capitolo di Aversive Interpersonal Behaviors edito da Kowalski nel 1997. Frenate gli sbadigli: questo saggio all’apparenza noiosissimo ha qualche motivo d’interesse.

Vi cito gli autori: Leary, M. R., Bednarski, R., Hammon, D., & Duncan, T. Timmy completa la laurea in psicologia al suo quarto anno a Wake Forest, in osservanza di un desiderio della madre defunta, e già che c’è firma un articolo accademico da co-autore col professor Mark R. Leary. Dubito che molti atleti NBA possano vantare un simile risultato.

Titolo e contenuti, poi, sono eloquenti; la costruzione di una personalità forte passa anche attraverso lo studio, e poche cose ci insegnano a non prenderci troppo sul serio, senza eccessivi egotismi, come i 19 anni di carriera agonistica di Tim Duncan.

 Per chi volesse approfondire, il capitolo si può leggere (legalmente) qui.

BEANTOWN BLUES

In un universo parallelo, il tanking sfrenato che portò i Celtics edizione 1997 al poco nobile record di 15-67 gli consegnò in premio la prima scelta e, con essa, i servizi pluridecennali di Tim Duncan, in tandem col decorato coach Rick Pitino.

Nel nostro universo, la dea bendata ha sorriso agli Spurs. Vien da pensare che, in quel momento, ci abbia visto benissimo.

LE TORRI GEMELLE

Ai tempi le Twin Towers, quelle vere, erano ancora in piedi. Comunque, neppure loro scherzavano. Era l’NBA dei big men e Timmy assorbe come una spugna gli insegnamenti di David Robinson, ne imita l’esempio sul campo e fuori in una relazione mentore-discepolo che fa a gara con quella tra il Dottor Cox e JD di Scrubs.

Tra l’Ammiraglio Robinson e Popovich in odore di CIA, la disciplina a San Antonio non mancava. Negli intervalli tra gli addestramenti militareschi arriva il primo titolo.

THE BIG FUNDAMENTAL VS THE BIG ARISTOTLE

A proposito di quanto detto sulla padronanza psicologica di Timmy. “È l’unico giocatore che non sono mai riuscito a mandare fuori di testa: ce l’ho fatta con Ewing, Mourning, Robinson, ma da lui ottenevo soltanto uno sguardo annoiato”.

Parole e musica di Shaquille O’Neal, maestro del trash talking e testa d’ariete dei Lakers pigliatutto dei primi anni 2000 – tranne il titolo 2003, che prese un aereo per il Texas.

La rivalità tra le due squadre ci regalò momenti epici come il Miracle Shot di Derek Fisher – col non meno pregevole canestro precedente di Timmy spedito nel dimenticatoio, lo scontro tra i due leader fu epico.

Due caratteri opposti, due personalità contrastanti. Uno degli oratori più spumeggianti della recente NBA contro l’eremita schivo. Entrambi individui intelligenti, però, tanto che Shaq si accorse in breve tempo di cosa nascondesse Duncan sotto quel sorriso da saputello.

Non è un tipo apatico, uno che non prova emozioni. È che è dannatamente forte. Mental toughness. Come ebbe a dire un altro animale da simposio, l’artista precedentemente conosciuto come Ron Artest: “I remember one time Kevin Garnett was mushing him, and shoving him in the face; and Tim Duncan didn’t do anything, he didn’t react. He just kicked Kevin Garnett’s a–, and won the damn championship. You know what I’m sayin’? That’s gangsta. Everybody can show emotion, dunk on somebody, scream and be real cocky; but Tim Duncan is a … he’s a pimp”.

FRENCH BOY E CRAZY BOY

Prendete un caraibico, un francese e un argentino. No, non è l’inizio di una barzelletta. Prima dei recenti Big Three declinati in varie salse – Celtics, Heat, Cavs – c’erano Los Tres Grandes.

Dopo il ritiro di David Robinson le chiavi della squadra passano definitivamente in mano a Tim, che ha raggiunto la piena maturità cestistica ed è all’apice della forma fisica. Ci vuole un atto di umiltà, e di estrema fiducia nei confronti di compagni, dirigenza e coach, per accettare l’aiuto di due pistoleri venuti da oltre confine.

 Uno è un gaucho che versa l’anima sul campo; crazy boy, lo chiama. L’altro è uno sbarbatello mezzo francese e mezzo belga che arriva negli States con intenti da latin lover, seminare panico sul parquet è un obiettivo secondario. Sarà french boy, fin dal primo giorno.

Dividere con loro onori e oneri, questa la formula di una delle collaborazioni sportive più belle di sempre. È l’elisir di lunga vita che permette alle ginocchia di Timmy di reggere qualche stagione in più. Sui successi 2005 e 2007 c’è la firma di tutti e tre.

“I think it’s pretty well documented that I wasn’t too sure about what to expect from (Parker). With his age, with his inexperience, with his lack of knowledge of the language … all those things went into it. I think it was the same thing, on a different level with (Ginobili). With French Boy, it was about him being, whatever, 13 years old and asking him to start for a team that’s been doing pretty good. With Crazy Boy (Ginobili), it was just getting used to playing with someone like that, taking some of the shots that he does.”

Per la cronaca; Manu resiste e sarà lì anche l’anno prossimo, a gettarsi su ogni pallone.

WUNDER-WHO?

Il derby texano è una ricorrenza nei playoff degli anni 2000, Mark Cuban e le sue tasche bucate all’eterna ricerca dell’equazione giusta per emulare la grandezza degli Spurs. Ci riuscirà soltanto una volta, diversi anni più tardi. Gli annali recitano 14 a 12 per San Antonio nella post-season, un margine risicato ma sufficiente.

La sfida nella sfida è tra Duncan, manco a dirlo, e Dirk Nowitzki. Il prototipo dello stretch four, molto più di uno stretch four, contro la point forward definitiva. Roba da lustrarsi gli occhi e raccontare ai nipoti. 26.0 PPG, 12.8 RPG, 3.6 APG, 1.8 BPG, 53.9% FG per Tim, 24.5 PPG, 10.1 RPG, 2.3 APG, 1.3 SPG, 49.8% FG per Dirk.

Tra i momenti memorabili della rivalità c’è spazio anche per una delle più bizzarre espulsioni della storia. Aprile 2007, Joey Crawford, al culmine dei reciproci punzecchiamenti con Duncan, lo caccia dalla panchina per aver riso. Ironia della sorte, il 2016 è stato anche l’anno del suo ritiro.

(NON) CI ERAVAMO TANTO AMATI

Duncan non è un trash talker nel vero senso del termine, non lo è mai stato. Kevin Garnett sì, invece, pure troppo.

Chi l’ha avuto in squadra lo ama, chi se lo è trovato contro lo accusa di una tendenza all’hit and run, al prendersela con quelli più piccoli di lui, allo sgarro recidivo nei confronti delle regole base del trash talking stesso: mai tirare in ballo colore della pelle, sesso e famiglia.

Quest’ultimo punto più degli altri, ed è pure quello su cui Duncan è più sensibile. Gli anni d’oro dei Timberwolves durano poco e il duello tra i due non ha lo stesso appeal da post-season di quelli sopra citati.

Timmy e The Big Ticket però si contendono lo scettro di migliore ala grande della lega. Spesso a distanza. Quando vengono a contatto non sono rose e fiori. Si narra che la rivalità si accese già nel 1999, quando Garnett alluse alla madre di Tim morta quando lui aveva quattordici anni. Lui se la legò al dito.

 In una retrospettiva targata Sports Illustrated del 2012 il giornalista gli chiese se i due avessero sotterrato l’ascia di guerra, maturato una kinship come quella tra Magic e Larry Bird. Duncan rise. Poco. Poi restò in silenzio. A lungo. “Define kinship”.

GLI ANNI DI PIOMBO

Gli Spurs non falliscono mai l’obiettivo playoff, nemmeno nei momenti più bui, ma la squadra ha perso smalto. Duncan scala il suo personale calvario fatto di fascite plantare e ginocchia traballanti, ci mette un po’ a capire come fare i conti col proprio fisico in declino.

Gli avversari di turno sono i Phoenix Suns dei 7 seconds or less, quelli di Steve Nash e Mike D’Antoni, quelli della controversa rissa del 2007. Dopo il 2008 nessuna delle due arriverà lontano ma c’è sempre spazio per apprezzare una perla.

Timmy riceve da Manu, aggiusta i piedi, segna la tripla che manda un’indimenticabile gara 1 al supplementare. Easy.

“WE’LL DO IT THIS TIME”

Il risorgimento neroargento degli anni ’10 è un capolavoro dirigenziale e tecnico con pochi eguali. Intorno ai Big Three ci sono pedine che ruotano e innesti che arrivano per restare, c’è un’idea tattica ben precisa e la sicurezza di potersela giocare coi più giovani.

C’è Kawhi Leonard. Duncan si impone un regime di esercizio e dieta e stringe un patto con Padre Tempo. Io scendo a compromessi, mi risparmio in regular season e cedo responsabilità ai compagni, tu in cambio mi concedi qualche stagione in più. Un altro anello, magari due.

Gli Spurs giocano una pallacanestro che è un piacere per gli occhi, Duncan è meno esplosivo e incide meno in attacco ma le sue letture in difesa sono, se possibile, più precise che mai. Guida i compagni come un metronomo, gioca con la malizia del vecchio leone.

Le Finals sono la naturale conseguenza, quelle del 2013 contro la corazzata Heat guidata da LeBron. In gara 6 sembra fatta ma c’è quel guastafeste di Ray Allen a scombinare i piani.

Gara 7 è un tiro alla fune, un gioco di attrito. Duncan riceve in pitturato e ha gioco facile per superare Chris “Birdman” Andersen, poi però sbaglia a bruciapelo il canestro del pareggio. Fallisce anche il tap-in. Torna in difesa e sbatte la manona per terra, sul parquet nemico della Florida.

Poco importa che LeBron James non perdoni e sigilli col jumper della vittoria una prestazione maestosa; è in quel momento che Timmy, e gli Spurs con lui, decidono che avrebbero vinto il titolo l’anno successivo.

Lo proclama prima della rivincita del 2014 e la cavalcata si conclude col Larry O’Brien Trophy sfilato dalle mani degli stessi Heat. Per arrivarci indenni, Duncan aveva suonato la carica nelle finali di conference con questa prestazione qui. A 38 anni. Provateci voi.

UN ULTIMO GIRO DI GIOSTRA

12 maggio 2016, semifinali della Western Conference. I giovani, rampanti Thunder di Oklahoma City hanno portato gli Spurs sull’orlo dell’eliminazione nonostante la stagione da record dei neroargento, 67- 15.

Li hanno battuti coi rimbalzi offensivi, con la fisicità sotto canestro di Enes Kanter e Steven Adams. Sul terreno di Tim Duncan. C’è odore di garbage time all’inizio dell’ultimo quarto di gara 6 e sulla panchina Spurs si assiste a un fitto conciliabolo tra Tim e coach Pop.

Giocherà gli ultimi 12 minuti senza prendersi pause, nonostante lo svantaggio, anzi guiderà un commovente tentativo di rimonta insieme ai panchinari e all’altro quarantenne Andre Miller. Se questo non è love of the game, non so cos’altro può esserlo.

A fine partita gli avversari lo salutano come pochi giorni prima avevano salutato Kobe Bryant, lui rivolge un dito al cielo mentre guadagna gli spogliatoi a passo svelto e con la testa bassa. Uno di quei segnali subliminali che i giornalisti impazziscono per intercettare. I più accorti tra loro iniziano a preparare il coccodrillo sul ritiro. Stavolta, avranno ragione.

Mentre si ripensa, quasi vinti dalla tristezza, a una carriera che non avresti voluto veder finire mai, c’è un retrogusto che permane. Un’idea. Che in questi anni di haters e Decisions pochi giocatori hanno unificato l’opinione pubblica come Duncan.

Non tutti lo avranno amato, specialmente gli avversari, ma come puoi parlarne male? Come dubitare della sua grandezza?

Eppure, a volte si preferisce discutere degli outfit più sbarazzini di Russell Westbrook, o si analizza ogni riga delle affermazioni delle superstar più appariscenti. Forse, saremmo tutti persone migliori se si parlasse più spesso di Duncan. Di sicuro saremmo conoscitori migliori di pallacanestro.

C’è un titolo che da qualche tempo viene associato al suo nome, quasi un cliché. La migliore point forward di sempre. Ma perché limitarsi?

Eppure quel giochino, affascinante ma spesso pericoloso, del comparare epoche diverse è parecchio in voga. Ogni analista ha stilato il suo Mount Rushmore, ha eletto il suo GOAT, e nelle discussioni il nome di Duncan si affaccia di rado. Il suo ritiro avrà un ruolo nel mettere le cose in prospettiva.

Ogni volta che ne sentiremo la mancanza ci ricorderemo di quanto è orba la nostra visione della pallacanestro, specialmente quella americana spesso abbagliata dalle prestazioni dei singoli.

Il tempo, si sa, è gentiluomo. Ha rispettato la sua parte del patto e un po’ per volta restituirà valore alle gesta di Timothy da Saint Croix, Isole Vergini. Perché la pallacanestro è uno sport di squadra, e a volte ci vuole un laureato in psicologia per capirlo.

2 thoughts on “19 anni di Tim Duncan

  1. Un vero campione, uno dei giocatori più forti di sempre, uno di quelli che ti fa innamorare dello sport che pratica.
    Questo è un ottimo articolo, soprattutto per chi non conosce la figura di Tim Duncan, perchè ne mette in luce anche le qualità umane, il suo modo di evitare i riflettori ed i gesti eclatanti pur mantenendosi sempre efficace nel gioco e leader verso i suoi compagni. Tim Duncan è stato un atleta straordinario, tecnicamente completo, intelligente, capace di dominare letteralmente gli avversari in attacco ed in difesa e di costringerli a dare sempre il 110% per provare a batterlo, anche a fine carriera. Un vero esempio: i suoi movimenti, le sue letture del gioco sono da enciclopedia della pallacanestro.
    Per fare un paragone con il mondo del calcio italiano, per chi si appresta al mondo del basket NBA senza magari averne ancora grandi conoscenze, a me ricorda atleti come Paolo Maldini o Javier Zanetti: persone fiere, con enorme talento, leader, la cui carriera non è mai stata macchiata da gesti sgradevoli, parole fuori luogo, esultanze/proteste esasperate. Capaci di restare nella stessa organizzazione per tanti anni nonostante le numerose offerte, giocando sempre ai massimi livelli.
    Ha chiuso una vera leggenda, un Hall of Famer del basket NBA, la più grande ala forte di tutti i tempi.

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