Che per i Bulls questa sarebbe stata un’estate diversa dalle precedenti, era chiaro sin dalle premesse, disastrose, poste da un 2015-16 iniziato con grandi ambizioni, e chiuso senza nemmeno raggiungere i Playoffs, in piena crisi d’identità. 

Chicago è intrappolata nel limbo tra le antiche armonie difensive, ormai svanite, e un bel gioco vagheggiato senza costrutto. Dati i presupposti, era facile immaginare che dalle parti dello United Center sarebbe mutato qualcosa, e così è stato.

La svolta (dettata dal presidente, John Paxson e dal GM, Gar Forman) ha però assunto connotati sorprendenti; i Bulls hanno cambiato tanto (vedremo poi come), costruendo un roster per tanti versi antitetico rispetto al basket contemporaneo, che è improntato su corsa e tiro da tre. 

Immaginavamo che Forman, finalmente sbarazzatosi dell’odiato Thibs, avrebbe lavorato per assemblare un gruppo adeguato alle idee di coach Fred Hoiberg, e invece il “sindaco” si troverà, per il secondo anno consecutivo, a gestire una squadra dalla chimica tutta da inventare.

L’ex allenatore di Iowa State, assunto 12 mesi fa per rimpiazzare Tom Thibodeau (separato in casa sin dai tempi dell’inopinato licenziamento del suo braccio destro, Ron Adams), era stato scelto proprio in virtù del lavoro svolto presso il campus di Ames, dove si era distinto per duttilità e per lo stile moderno. 

In NBA però, Hoiberg ha traccheggiato (chiudendo il suo anno da rookie con un interlocutorio bilancio di 42-40), mediando tra le proprie idee offensive e le qualità di un gruppo forgiato a pane e difesa.

Sin dal suo arrivo in Illinois, Hoiberg ha commesso una serie di errori dettati forse dalla fretta di dare una svolta; ha messo a sedere Joakim Noah, affermandone l’incompatibilità di fatto con Pau Gasol, ma sottovalutandone l’importanza in spogliatoio (e nel palazzetto: era lui a catalizzare il tifo). 

Ha poi stravolto le abitudini d’allenamento dei Bulls, imponendo un clima rilassato, inadatto a un nucleo che si cibava di energie nervose, abituato a sentirsi costantemente sotto pressione.

Il sindaco (com’era soprannominato quando giocava) non ha impressionato per acume tattico o per sagacia gestionale, ma è rimasto in sella perché il disastro di Chicago affonda le proprie radici nella difficile transizione tra l’ex uomo-franchigia, Derrick Rose, e il nuovo volto della squadra, Jimmy Butler, cui si assomma la presenza in spogliatoio di giocatori mai completamente digeriti dal “nucleo storico”, come i due iberici (Gasol e Nikola Mirotic). In questo contesto, cambiare head-coach sarebbe servito a poco, senza prima risolvere i problemi di chimica.

Subito prima del Draft, i Bulls hanno tranciato questo nodo gordiano impacchettando Derrick Rose e Justin Holiday in direzione New York, ottenendo in cambio José Calderon, Jerian Grant e Robin Lopez. Lo scopo dichiarato da Gar Forman era quello di “diventare più giovani e atletici”, ma è evidente che la finalità primaria fosse sbarazzarsi di D-Rose e alleggerire la propria situazione salariale in vista di una free agency scoppiettante.

Derrick Rose, che è nativo della “città ventosa” (di South Chicago, per la precisione, la porzione metropolitana più lontana dal lago Michigan, a maggioranza nera, e notoriamente malfamata), è stato a lungo il simbolo della franchigia, la prima vera superstar a essere transitata da queste parti sin dai tempi gloriosi di Michael Jordan.

I suoi furori giovanili, che gli valsero un meritatissimo MVP a 22 anni d’età (è tutt’ora il più giovane Most Valuable Player di sempre), hanno purtroppo incontrato un ostacolo insormontabile negli infortuni che ne hanno minato l’esplosività e la fiducia nei propri mezzi.

 Forse è vero quel che dice a riguardo Tim Grover, lo storico preparatore atletico che ha sede proprio a Chicago (ed è stato il trainer di Jordan, Kobe, Rod Strickland e Dwyane Wade, tra gli altri).

Secondo Grover, la responsabilità dei tanti infortuni di natura non traumatica va ricercata nelle modalità d’allenamento ripetitive che troppi atleti NBA seguono: “Gli stessi muscoli, legamenti, tendini e giunture sono messi sotto sforzo ripetuto, sollecitando gli stessi angoli e movimenti. Quale macchina non si rompe, dopo anni di utilizzo? A un certo punto il corpo umano dice basta”.

Per di più, continua Grover, “Molti atleti non hanno la capacità di fermarsi. Tutti vogliono essere veloci, ma senza la capacità di decelerare, cosa succede? Ti schianti. Ogni pilota d’auto sa andare forte, ma i grandi piloti sanno quando accelerare, quando rallentare, e quando fermarsi”. 

In queste frasi è facile intravedere una descrizione dello stile di gioco di Rose, fatto di accelerazioni e inchiodate brutali, cambi di direzione repentini e scatti fulminanti, che alla lunga, hanno presentato il conto.

Nel 2011-12 Derrick saltò più di metà stagione (43 gare, per l’esattezza) per problemi fisici assortiti, ma la vera mazzata arrivò ai Playoffs, quando, al termine di una Gara 1 ormai vinta contro i Sixiers, Rose si lacerò il muscolo crociato della gamba sinistra, iniziando un calvario che non ha mai avuto veramente fine.

L’anno scorso è finalmente tornato a giocare con continuità (ha disputato 66 partite, il suo massimo dal 2010-11), ma D-Rose non è più l’atleta di un tempo, e attorno a lui si è creato un clima sgradevole, di insofferenza per i continui infortuni e di recriminazioni a mezza bocca a proposito del suo contratto (94 milioni in 5 anni, firmato alla vigilia dell’infortunio che ha cambiato la traiettoria della sua carriera).

Forse questo scambio lo aiuterà a trovare un po’ di serenità e un nuovo inizio dal quale ripartire, per quanto la Grande Mela non sia esattamente la piazza più facile d’America, tra tifosi dal fischio facile, e i giornalisti dalle penne acuminate che popolano le pagine di Daily News, Post e Times.

Dopo aver salutato il loro playmaker, Chicago ha detto addio anche ai due lunghi migliori, Pau Gasol (scontato partente, accasatosi a San Antonio), e Joakim Noah, il franco-americano che, dal 2007 ad oggi, aveva sempre e solo vestito la casacca rossa dei Bulls. 

Noah torna nella sua città natale, New York, dove ritroverà Rose, e farà la conoscenza di Phil Jackson, che in lui trova leadership, mentalità difensiva, e quelle qualità di passatore dal post medio che tanto piacciono allo Zen Master.

I Bulls non sono rimasti con le mani in mano, riuscendo a convincere Dwyane Wade a lasciare Miami. Wade era ormai diventato sinonimo di Heat, tanto che Pat Riley, in primavera, l’aveva definito un “lifer”. 

Flash andrà ad affiancare Rajon Rondo (28 milioni in due anni, il secondo dei quali solo parzialmente garantito) nel nuovo, rutilante backcourt a disposizione di Fred Hoiberg.

Wade ha accettato un contratto da 47.5 milioni di dollari in due anni, non così migliore rispetto all’offerta di Miami da far credere che abbia cambiato casacca solo per soldi; la sua decisione però, è stata certamente influenzata dalla prima offerta di Riley, al ribasso (10 milioni annui). 

Di là dalle belle parole spese da Riley e Spoelstra, D-Wade non si sentiva più al centro del progetto, e si è così convinto a dire addio alla Florida dopo 13 splendidi anni, ritornando nella città e nella squadra della propria infanzia.

Per creare lo spazio salariale utile a firmare Flash, i Bulls hanno ceduto Calderon (ai Lakers, assieme ad una seconda scelta) e Mike Dunleavy (ai Cavs), due buoni giocatori ritenuti però sacrificabili pur di smentire la radicata percezione che Chicago fosse una meta poco ambita dai free agent (non per la città in sé, che è splendida, quanto a causa dell’organizzazione dei Bulls, talvolta descritta come opprimente e manipolatrice).

Dwyane trova ad attenderlo un roster che sembra una collezione di vecchie glorie scelte a casaccio, con un quintetto Rondo-Wade-Butler-Mirotic-Lopez più da fantabasket che da NBA, in una specie di riedizione dei Rockets versione 1999 (schieravano Olajuwon, Barkley e Pippen), e una serie di giovani di belle speranze a complemento.

A 34 anni, D-Wade non è il giocatore devastante di un tempo, e, pur mostrando una condizione atletica invidiabile, nell’ultima stagione ha segnato solo 19 punti di media con il 45.6% dal campo (e un aberrante 15.9% da tre). Sono cifre in assoluto ragguardevoli, ma lontane dalle vette di rendimento che hanno fatto di lui una delle migliori guardie di tutti i tempi.

Rajon Rondo, trent’anni, si è fatto una solida nomea da piantagrane che non sa stare all’interno di un sistema di gioco (e a provarci sono stati in tanti, da Doc Rivers a Rick Carlisle, senza dimenticare George Karl, che ci ha rimesso il posto), un play abile nel racimolare grandissime statistiche (nell’anno con i Kings ha messo a referto 11.9 punti, 11.7 assist e 6 rimbalzi di media) ma che non migliora minimamente i compagni.

Lascia dubbiosi la scelta di affiancare tre esterni non irresistibili nel tiro dalla lunga distanza (nel 2015-16 hanno segnato appena 133 triple, e il tiratore più accurato dei tre è, tenetevi forte… Rajon Rondo!) il che consentirà alle difese di raddoppiare e battezzare impunemente non uno, non due, ma ben tre tiratori. 

Hoiberg vuole correre di più e impedire alle difese di schierarsi, ma potrebbe essere più facile a dirsi che a farsi, specialmente considerando l’età non verdissima delle guardie veterane.

La profondità della rotazione (specialmente se Grant e Valentine riusciranno ad avere spazio) dovrebbe consentire di centellinare il minutaggio di Rondo, Hinrich (dato per quasi certo il suo ritorno) e Wade, ma la strada scelta dai Bulls rimane piuttosto bizzarra, anche perché Rajon si è già messo a parlare di un “pecking order” (letteralmente è l’ordine di beccata, cioè, chi mangia prima e chi dopo in una nidiata) che ricorda tremendamente i deleteri “possessi alternati” dell’ultima stagione.

Hoiberg ha viceversa insistito sull’altruismo e sulla flessibilità: “È questione di modellare il sistema e la filosofia sul tipo di giocatori a disposizione, e auspicabilmente, di giocare con altruismo; tutto ruoterà attorno al movimento di palla”. L’idea alla base di questa rivoluzione è che la presenza di tanti passatori contribuirà a rendere imprevedibile e qualitativo l’attacco, ma ci sono molti “se”.

Il primo di questi punti incerti è l’effettiva disponibilità di Rajon Rondo ad accettare di palleggiare meno e prendere decisioni più rapide, anche a costo di peggiorare le proprie cifre. Il Rondo dei Celtics l’avrebbe certamente fatto, quello dei Kings e di Dallas, un po’ meno. 

La presenza di due giocatori che rispetta, come Butler e Wade (col quale in passato però ci sono state storie tese), aiuterà a tenerlo sotto controllo, ma a prescindere dalle buone intenzioni, non è scontato che tra loro s’innesti la stessa chimica che c’era con Ray Allen e Paul Pierce, ai tempi del Boston Garden.

La seconda criticità riguarda, ovviamente, l’assenza di tiro da tre, divenuto in questi anni lo strumento indispensabile ad ogni attacco per far fronte alle difese “shell”. La presenza di tre trattatori di palla potrà mascherare il problema, ma sarà difficile tenerli tutti e tre in campo assieme, specialmente se sotto canestro evoluisce un centro classico come Robin Lopez.

La terza criticità, riguarda le rotazioni alle spalle dei titolari: Tony Snell si è fin qui dimostrato incostante, ed è riuscito a farsi scavalcare nelle rotazioni anche da Justin Holiday. Denzel Valentine, ottima pesca con la chiamata n.14 al Draft, sarà con ogni probabilità la riserva di Wade, ed è un eccellente giocatore, ma è davvero lentissimo, e questo è in difetto che sconterà soprattutto in difesa.

In point guard, i minuti saranno divisi tra Hinrich e Jerian Grant, che i Bulls avevano provato a prendere anche un anno fa, e che dovrà lavorare tanto sul tiro, mentre in ala avrà finalmente spazio Doug McDermott, l’ex Craighton che fin qui non ha impressionato.

Lo spot di ala forte sembra destinato a essere coperto “per comitato”, con Mirotic probabile titolare, e alle sue spalle, l’esperienza di Taj Gibson e lo scalpitante Bobby Portis, destinato a diventare, prima o poi, il titolare del ruolo.

 Portis probabilmente rubacchierà qualche minuto anche da centro, alle spalle di Lopez, e davanti a Felicio, che non ha un contratto garantito.

Snell, Mirotic, Grant, Valentine, Hinrich, Gibson, Portis: sono tutti buonissimi giocatori, ma nessuno garantisce continuità di rendimento tale da poter essere sin da subito un punto fermo(tranne forse il tostissimo veterano Taj Gibson), e quest’incertezza, assommata ai dubbi sulla possibile convivenza di Rondo con qualunque altro bipede, non può far dormire sonni tranquilli ai fedelissimi dello United Center.

Se l’arrivo di Wade ha comunque senso, perché si tratta di un leader esperto e vincente (cinque Finali, tre anelli e un MVP delle Finals), l’addizione di Rondo è più controversa. Il talento del nativo di Luisville non si discute, ma la sua testa sì; tra alterchi con arbitri, liti con allenatori, squalifiche, falli tecnici e sospensioni, Rondo è una mina vagante, uno capace di viaggiare in doppia-doppia di media come di omettere ogni sforzo difensivo o di distruggere qualunque tipo di schema ideato dallo staff tecnico.

Può darsi che a Chicago Rondo ritrovi le armonie che ne avevano fatto un leader dei Celtics, e riesca a controllarsi quel tanto che basta per vincere, come Rasheed Wallace ai Pistons, ed è probabilmente questa prospettiva, a fronte di un rischio limitato (come detto, il suo secondo anno di contratto non è completamente garantito), ad aver convinto Forman che il gioco valesse la candela.

Visto che la palla sarà una sola, e ci sono tre ball-handler, è probabile che i “big three” siano destinati ad alternarsi sul parquet; questo significherebbe più riposo per loro, e al contempo, la possibilità di schierare almeno un tiratore in più per spaziare meglio il campo e punire le rotazioni pigre, con tre ovvi candidati, uno per posizione: Hinrich, Denzel Valentine, e McDermott.

Ci saranno momenti in cui saranno in campo Wade, Butler e Kirk Hinrich, oppure Rondo e Butler, con Valentine a spaziare il campo, oppure ancora, Rondo e Wade assieme, e McDermott appostato per raccogliere gli scarichi. 

A ben vedere, potrebbe anche funzionare, ma qual è il “tetto” di questa squadra? Raggiungere i Playoffs è il minimo indispensabile, mentre impensierire i Cleveland Cavs è utopia (e i Bulls lo sanno, o non avrebbero spedito l’utile Dunleavy proprio in Ohio).

Insomma, i Bulls puntano alla parte alta del tabellone della Eastern Conference, ma il vero obiettivo era evitare il tanking (che non piace al proprietario, Jerry Reinsdorf), e questo bersaglio dovrebbe essere stato centrato, consentendo di sviluppare Portis, Valentine e Grant in un contesto fin da subito competitivo, a base di tostissimi allenamenti tra le mura del Berto Center, e trasferte durante le quali avranno la possibilità di osservare da vicino un Hall of Famer come Flash e di imparare dalla sua impeccabile etica lavorativa.

Sapremo finalmente tutta la verità sull’effettiva consistenza di Nikola Mirotic, l’ex Real Madrid che a Chicago ha esibito tutto il suo talento e la sua incostanza. È in contract-year, e a 25 anni compiuti, e sarà usato soprattutto come tiratore, ma avrà finalmente tanti minuti per mostrarci di che pasta è fatto, così come McDermott (molto più a suo agio nel ruolo di cecchino) e probabilmente anche Bobby Portis.

Forse i Bulls non mieteranno successi, e neppure il plauso degli analytics, ma hanno optato per un’alternativa onorevole al più becero “rebuilding” hinkiano, e anche solo per questo meritano rispetto. E poi, chi lo sa, SE Rondo dovesse mettere a testa a posto…

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