Rubando le parole al Bardo da Stratford-upon-Avon, potremmo definire il punto cruciale del mercato 2016 dei Celtics come il sogno di una notte di inizio estate.

Quella del draft, per la precisione, quando la tela tessuta con pazienza da Danny Ainge si è sfaldata tra le sue mani. Per ammissione dello stesso GM nessuna delle trade su cui tanto aveva insistito è andata in porto.

Sarà che, dopo il furto con scasso ai danni dei Nets di qualche anno fa, le franchigie concorrenti lo trattano con lo stesso sospetto di uno di quei venditori d’auto della piccola provincia americana, con la giacca colorata e il cappello a falde larghe.

Tanto rumore per nulla, ci suggerisce un altro titolo shakesperiano. I bersagli grossi – Jimmy Butler e DeMarcus Cousins su tutti – sono rimasti a casa, non bastava il richiamo della pletora di scelte al draft, tra cui una golosa numero tre, e Ainge non aveva alcuna intenzione di svenarsi per portare in maglia verde un All-Star.

Si va con il piano B, dunque: un aggiustamento al volo per accaparrarsi l’ennesima pick al primo giro – quella dei Grizzlies nel 2019 – e la consueta infusione di giovani talenti.

Uno è un draft-and-stash fatto e finito, anche se lui non sembra essere d’accordo: il croato Ante Zizic. Ben Bentil e Abdel Nader navigheranno a vista per strappare un contratto o si accomoderanno in D-League, Demetrius Jackson da Notre Dame va a aggiungersi al manipolo di guardie che tanto piace ammonticchiare a Danny Ainge, una batteria di cavalli affidabili come pedine di scambio o per sostituire eventuali partenti.

Certo, se vuoi stuzzicare l’appetito dei clienti con un Terry Rozier, un James Young o un RJ Hunter devi dare loro modo di mettersi in luce, e questo mal si accorda con gli obiettivi di una squadra che ha risalito la china in fretta. Le trade mancate, forse, dipendono anche da questo.

La pick numero 16 è la più discutibile. Il francese Guerschon Yabusele, materiale da draft ma che certo non si aspettava di finire così in alto, ala grande massiccia e dalle mani buone con l’etichetta di point forward appiccicata in fronte accanto a quella che recita “lavori in corso” – c’è chi lo paragona a Draymond Green.

Dovrebbe restare a maturare in Europa, dal basso dei suoi vent’anni, ma nelle prime prove sul campo ha ben impressionato gli addetti ai lavori.

Jaylen Brown è il pomo della discordia. La pick numero 3 che Ainge ha provato in tutti i modi a impacchettare con un bel nastro d’argento è ricaduta sull’ala da California.

Scacchista, musicista, poliglotta, uno che ha scelto Berkeley per la cultura prima che per la pallacanestro. Cento chili pronti per essere buttati sul parquet e un cervello fino. Forse troppo, al punto che alcuni scout ne erano spaventati.

Preferivano un cavallo da tiro a un prospetto che ha l’onestà intellettuale per questionare le scelte tattiche e societarie. Ma se c’è un coach a cui piace lavorare con bipedi senzienti, è Brad Stevens; non è nuovo a trarre il meglio da giocatori con un QI superiore alla media.

Non il soggetto più appetibile per una trade, ma uno dei più promettenti nel lungo periodo. L’architettura è quella degli esterni più gettonati nella NBA contemporanea, la speranza neanche troppo segreta quella che possa proporsi da subito come un upgrade di Jae Crowder.

Non siamo ancora a metà di quell’estate di cui cantava il Bardo, ma qualche giorno è passato e il sogno si è riacceso. Un tweet di Al Horford profetizza il diciottesimo banner sotto forma di quadrifoglio (sic), la firma sul contratto da 113 milioni per 4 anni concretizza il più grande affare di Boston nella recente free agency.

 Il lungo da Florida non è il più altisonante dei nomi ma è il fit ideale per la pallacanestro senza fronzoli che piace a Stevens. È il lungo di riferimento che mancava alle rotazioni, il complemento offensivo a Isaiah Thomas, uno che sa tenere la sua posizione in campo e il pacchetto completo in difesa.

Un altro bipede senziente, per l’appunto, e discreto rim protector che non guasta mai – 49.4% concesso agli avversari in stagione.

Il suo acquisto ha rilanciato con prepotenza il nome dei Celtics nella corsa a Kevin Durant. Si coinvolgono eroi locali come Tom Brady, Julian Edelman e David Ortiz, 48 ore di preghiere accesissime svanite nel nulla quando KD ha firmato con quelli là, ma il segnale resta.

Boston vuole tornare tra le grandi, ha una squadra competitiva, merce da scambio interessante e spazio salariale a sufficienza per accogliere un altro All-Star e offrirgli un rinnovo a sei cifre.

L’equilibrio è delicato e sta in piedi su una sola domanda: fino a che punto sei disposto a compromettere un nucleo giovane ma affidabile (Isaiah Thomas, Avery Bradley, Marcus Smart, Jaylen Brown, Amir Johnson) e fino a che punto riuscirai a trovare un compratore per gli asset chiusi in cassaforte – ci sono cinque scelte in arrivo nel draft 2017, tra cui un’altra al primo giro gentilmente offerta dai Brooklyn Nets.

Danny Ainge ha dimostrato di non avere fretta, sa che la data di scadenza è lontana. Si possono valutare i primi mesi di Jaylen Brown, aspettare i saldi della deadline a febbraio o addirittura la free agency 2017.

L’alternativa è premere il bottone subito, ma solo per un’offerta che non si può rifiutare. Un campione scontento che non vede l’ora di cambiare aria, una franchigia in fase di smantellamento. Come dite? Russell Westbrook?

One thought on “La solita estate complicata dei Boston Celtics 

  1. Stupenda e inquietante la storia sulla “mancanza di ignoranza” di Jaylen Brown… ci sarebbe un libro da scriverci sopra

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