Stephen Curry è rimasto lì, in mezzo al campo, con gli occhi lucidi e l’aria di chi non riusciva a crederci, mentre Lebron James piangeva lacrime di gioia e sollievo, intanto che i Cavs facevano festa, nel silenzio attonito del pubblico in t-shirt gialla, i veri credenti della Dub Nation.

Pensavano di assistere all’inevitabile trionfo della storia “giusta”, e invece, un tiro di Irving e una difesa di Love (di-fe-sa di Love) hanno cambiato il corso degli eventi.

A un minuto della sirena, Steph e i Warriors erano ancora perfettamente in corsa per bissare il successo del 2015, a dispetto della furiosa rimonta di Cleveland, sotto 3-1 e dead-in-the-water dopo Gara 4, ma capace, piano piano, di erodere il vantaggio tecnico degli Splash Brothers, improvvisamente denudati nella fragilità tecnica di un gruppo che, come ogni macchina di precisione, non può prescindere dal funzionamento di tutti gli ingranaggi.

È rimasto lì, Steph Curry, guardando Kevin Love mettersi il cappellino dei vincitori, con quel paradenti a mezza bocca che, nei momenti migliori, mandava fuori di testa chi lo reputa arrogante; non sanno, costoro, che faceva così anche quand’era un signor nessuno a Davidson, e ciondolava per il campus, esattamente con lo stesso atteggiamento.

Curry osservava, un po’ assente, con l’aria di chi sta tentando di accettare quel che vista e udito gli stanno urlando in testa: “Non sei più campione NBA. Hai perso la Finale, e hai sbagliato l’ultimo tiro”.

Nonostante tutto quello che era capitato nel corso di questi Playoffs, Steph Curry non aveva mai smarrito la suprema fiducia in se stesso che è la prima arma di ogni grande giocatore; non aveva dubitato quando si era doppiamente infortunato contro Houston; tantomeno si era scomposto sotto 1-3 contro gli Oklahoma City Thunder.

In fondo, perché andare in panico? Era l’MVP dei campioni in carica, i Warriors forti del miglior record di sempre; la squadra del destino scritto nei numeri (“strenght in numbers”, no?): i suoi, da capogiro, quelli di Draymond Green e dell’altro Splash Brother, Klay.

Però, man mano che la fisicità aumentava, e gli infortuni non gli davano pace (caviglia, legamento mediale del ginocchio, e gomito), Curry ha iniziato a fare sempre più fatica a costruirsi tiri puliti, e le sue magate, tutto d’un tratto, sono diventate cattive idee, tiracci che nemmeno J.R. Smith prende più, e che l’hanno tenuto ad un raggelante 40% dal campo, che fa il paio con 11.4 tentativi da tre su 17.7 totali. È un dato che racchiude perfettamente tutte le difficoltà incontrate dal figlio di Dell in Finale.

Steph è famoso e popolare per i suoi tiri da tre al punto da aver trasformato in uno show anche il riscaldamento pre-gara, ma a fare la differenza, è sempre stata la capacità di mixare il tiro alle penetrazioni, trasformandosi, grazie ad un ball-handling unico, in un giocatore imprevedibile, che usa tutta la profondità del campo per costruire opportunità per sé e per i compagni.

Sbaglia chi pensa che Curry abbia fallito per via della mano tremante, o per la storica inaffidabilità del tiro da tre ad alto livello. No, a fare la differenza è stata l’impossibilità, per Curry, di muoversi come fa abitualmente, ad esempio con il movimento laterale per costruirsi il tiro, oppure d’effettuare le consuete penetrazioni in controtempo, con relative conclusioni acrobatiche (in RS, tirava con il 66%, ai Playoffs, il 52%), o ancora, di tirare dal parcheggio.

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La heat map delle Finals di Curry

Se la difesa non è più impegnata a negargli la zingarata al ferro, se il difensore primario non è più preoccupato dal suo crossover, allora Steph diventa molto più facile da marcare, e la qualità delle sue conclusioni perimetrali s’inabissa, trascinandosi dietro l’intero impianto offensivo di Golden State, diventato improvvisamente stagnante.

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L’Offensive Rating di Curry nelle 7 partite di Finale

Il problema non è stato, quindi, il tiro da tre (certamente abusato, come attestano le 252 conclusioni da dietro l’arco prese nel corso di queste 7 partite, contro le 186 di un anno fa) quanto piuttosto il venir meno di quei presupposti che consentivano di costruire conclusioni a così alte percentuali.

I Warriors hanno cercato scorciatoie anziché soluzioni alle difficoltà, e in questo, ha la sua fetta di responsabilità uno staff tecnico che, piano piano, è stato surclassato da Ty Lue, a lungo sbertucciato come “proxy” di James, ma capace di incartare Steve Kerr a piacimento.

Senza più la possibilità di spostare la difesa costringendola a chiudersi, i Warriors sono diventati un jump-shooting team, incapace di trovare buone conclusioni vicino al ferro (e di sbagliarle quando si sono presentate), costretto a forzare situazioni, mentre la difesa dei Cavs si permetteva ogni tipo d’azzardo sulle linee di passaggio (in questo LBJ è stato principesco), mente i Warriors, sempre più titubanti, inciampavano anche in errori non forzati, generati dal tentativo malaccorto di recuperare ritmo, figlio della mancanza di lucidità, e forse di una punta di presunzione che s’era lentamente insinuata nello spogliatoio.

La pallacanestro è questa, splendida nella sua crudeltà; l’equilibrio del 89-89, durato un’infinità cestistica (da 4:40 sul cronometro fino a 53 secondi dalla fine) s’è spezzato nella direzione meno pronosticabile, così, tutto d’un tratto, senza avere nemmeno il tempo di iniziare a familiarizzare con l’idea, la musica s’è fermata, e Curry s’è trovato in piedi, a recitare la parte dello sconfitto, quello che mormora qualche frase di circostanza, congratulandosi con i vincitori, per poi lasciare il campo a testa bassa.

Didn’t see it coming, e sono i colpi come questo a segnare una carriera, a dividere quelli bravi dai grandissimi, non perché la sconfitta capiti solo ai primi, ma perché i secondi sono capaci di rialzarsi e continuare come prima.

Sono le sconfitte a restarti addosso, non le vittorie, e questa è una di quelle batoste che s’infilano come un pugnale nel cuore; a volte, lo fortificano (come recita la massima nietzschiana citata peraltro fuori contesto). Altre volte, queste coltellate segnano per sempre uno sportivo, infrangendo il mito della propria grandezza, cui lui per primo deve sempre credere.

Dai titoloni su “Tragic Johnson”, ai fiumi d’inchiostro spesi per affermare che “Jordan non vincerà mai” (quando si schiantava contro i Bad Boys di Detroit), tutti i grandi hanno fatto conoscenza con le penne affilate dei media. Oneri e onori, in fondo, della vita di una superstar NBA, e forse King James avrà sussurrato proprio questo, al momento di salutare il suo rivale e concittadino.

LBJ c’è passato, sa com’è vedersi sfilare la corona dalla testa, lui che dodici mesi fa era stato marcato con successo da Andre Iguodala, nominato MVP della serie, e quest’anno gli ha rifilato una tonitruante stoppata che ha risucchiato ogni energia dalla Oracle Arena.

Va detto però che l’andamento di queste Finals conferma un trend visto anche lo scorso anno, quando l’impatto di Steph diminuì vistosamente in quell’occasione arrivò la vittoria, e le critiche vennero lavate dallo champagne versato per festeggiare.

Quest’anno, mentre le magliette celebrative e i berretti per il titolo ’16 venivano riposti alla chetichella, certi dubbi hanno ritrovato voce. “Non è decisivo”, oppure “quando la palla scotta non sa prender per mano la squadra”, “scelte senza senso”, e molte altre frasi ancora, che il duplice Most Valuable Player forse non immaginava di dover ascoltare, convinto com’è (o com’era?) d’essere il nuovo dominatore dell’NBA.

Intendiamoci, anche così, se quel tiro di Kyrie Irving (con la mano in faccia) avesse trovato il ferro, o se Kevin Love non avesse trovato dentro di sé le risorse per difendere muovendo i piedi come Hakeem Olajuwon, i Warriors avrebbero potuto vincere.

In fondo, il punteggio complessivo nella serie, fino a quell’ultimo minuto, era in perfetto equilibrio (pari a 699 punti). Nell’economia di una serie, è ingeneroso e miope trarre conclusioni lapidarie dall’esito di due tiri come quelli, che, a ben vedere, non sono conclusioni costruite, e possono uscire come entrare.

È mancata anche un po’ di fortuna, già, ma non si può liquidare così una sconfitta maturata buttando al vento un’infinità di occasioni per chiudere delle Finals che sembrava già finite dopo i primi due episodi.

I Warriors hanno continuato a cercare di giocare il loro basket, ma le armonie della Regular Season erano ormai lontane, tradite forse anche dallo sforzo mentale di restare sul pezzo così a lungo, fino all’ultima partita, per inseguire un record messo a libri, certo, ma del quale non ci si potrà certo vantare.

I Warriors pensavano d’aver costruito così tanto “momentum” (che poi sarebbe l’inerzia…) da rendere inevitabile la vittoria, ma questo sport non è una scienza, per quanto alcuni insistano nel cercare la pietra filosofale tra gli algoritmi.

In qualche punto del cammino, Golden State ha perso di vista i presupposti che l’avevano resa una formazione grandiosa, tecnicamente perfetta e puntuale negli aggiustamenti tecnici, esibendo una funesta sicumera, ben riassunta da un estratto del New York Times Magazine di aprile:

Quando ho chiesto a Larry Lacob della partita dell’altra sera, si è contenuto a stento. Si è vantato di come i Warriors giochino in modo più sofisticato del resto della lega. “Li abbiamo schiantati sul campo, e continueremo a farlo per anni, grazie al modo in cui questa squadra è stata costruita” ha detto. Ma quel che rende questa franchigia unica, ha continuato, è il modo in cui svolge il proprio business. “Siamo anni luce avanti a tutta la concorrenza, in termini di pianificazione, strutturazione, e nel modo in cui facciamo le cose” ha detto. “Saremo una brutta gatta da pelare per il resto dell’NBA, ancora per molto tempo.

Curry non è il genere di persona che si fa prendere da questo tipo di hybris, come testimoniano le rimpatriate a Davidson, e l’assenza, nel suo curriculum, delle classiche frasi da montato (magari pronunciate parlando di sé in terza persona singolare), ma probabilmente anche lui è rimasto invischiato nel narcisismo collettivo.

Questa sconfitta è stata una doccia fredda che costringerà i Dubs a reagire, ma come? Negare l’evidenza (condannandosi a declinare nel giro di qualche anno) oppure accettarla, e rispondere a uno stimolo in modo positivo, come, ne siamo convinti, vorrà fare Steve Kerr?

Si può ripartire dalla clamorosa rimonta contro i Thunder, per spazzare via le incertezze affiorate nella Bay Area circa la tendenza a “andare corti”, o non avere cuore; se i Warriors fossero stati una formazione in cerca di scuse per arrendersi, quella sarebbe stata un’occasione perfetta, e invece hanno reagito con tre vittorie contro una difesa fisicamente punitiva, e due dei migliori cinque (o sei, o fate voi quanti) giocatori del globo.

Certo, parlare di difficoltà tecniche, o di problemi legati agli infortuni, fa a pugni con la narrativa dominante, che esalta chi vince a prescindere, e fa del bullismo giornalistico con chi perde, dimenticando che a questo livello si affrontano solo campioni, e che qualcuno, prima o poi, deve pur perdere. Ci sembra però la prospettiva più esatta, non tanto al fine di “giustificare” la sconfitta, quanto per spiegarne la scaturigine, senza cedere alla logica perversa per cui chi vince ha ragione e chi perde torto.

Quella di Wardell Stephen Curry II sarà un’estate lunga, lunghissima, fatta di riposo (non andrà a Rio), di recupero, lavoro tecnico, e soprattutto scavo interiore, per non perdere e fortificare il proprio fuoco interiore. Sarà una off-season decisiva per il ventottenne di Akron.

I grandi giocatori crescono superando le avversità, e questa Finale persa, è il primo, vero inciampo della sua carriera. Tornerà più forte, o ridimensionato?

 

One thought on “Steph Curry: cos’è successo all’MVP?

  1. Tutto vero tutto bello, da fuori. Ma, da dentro, è così difficile capire che se sei un play e il tiro non va è il caso di usare soluzioni alternative? Va bene una partita a gatz, ma 3 consecutive significa che sei de’ coccio. Se ci arriva persino Lebbros James, che ha tanto fisico quanta poca intelligenza (non si dica di no: persino in gara 7 stava per affossare i suoi con percentuali raccapriccianti… deve costruire un monumento a Irving se quest’anno è campione… l’anno passato uncle Drew non c’era e si sa come finì), cominci a far credere, caro Stephen, che sei veramente un idiota. Scartando l’ipotesi-idiozia (essere stupidi non è un problema… per fare gli intellettuali c’è il coaching staff -sotto accusa pur’esso, infatti) rimane la boria. Non esiste un play con meno assist che palle perse; non esiste avere il 35% al tiro e continuare a sparacchiare sperando.
    Lue è sul serio il pupazzo di James, però se Irving mette 120 punti in 4 gare e Lebbros ne aggiunge 130 con 50 assist persino le marionette riescono a vincere.
    Spiacente per i Warriors: potranno vincere ancora (anche se ormai si è capito il giochino: basta levare Green e la squadra torna normale), ma certe occasioni non ricapitano più.

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