This is the way the world ends, scriveva T. S. Eliot in The Hollow Men. Così finisce il mondo. Not with a bang but a whimper. Non con un boato, ma con un lamento.

La stagione 2016 dei Golden State Warriors finisce alla stessa maniera e il loro intero mondo con essa.

Klay Thompson si dilegua negli spogliatoi subito dopo la sirena, Draymond Green lo segue a ruota salvo riguadagnare il palco per uno scenografico abbraccio con LeBron James.

Il grido di gioia che doveva far deflagrare la Oracle Arena non c’è, al suo posto un silenzio carico di incredulità e domande. Il chiasso che fanno quelle due dozzine di persone sul parquet, tra giocatori e accompagnatori di Cleveland, sovrasta persino i pensieri delle altre ventimila, improvvisamente muti.

È l’atmosfera, già vista ma alla cui stranezza mai ci abitueremo, delle Finals vinte in trasferta. Steph Curry e Andre Iguodala rimangono lì, ai bordi della festa, ai margini del podio. Se gli altri piangono di gioia, nelle loro lacrime c’è la rabbia e l’incapacità di accettare la rimonta più imprevedibile della storia NBA.

Aspettavano il momento giusto per congratularsi con gli avversari, spiegherà Curry in conferenza stampa. O forse volevano marchiare a fuoco quel momento nelle loro memorie per alimentare le motivazioni necessarie a tornare lì, tra un anno, a parti invertite. A guardarli, le mani sui fianchi e gli sguardi persi, sembrano gli uomini vuoti di Eliot. La tensione allenta i muscoli da atleta e al corpo non rimane molto da custodire, ogni energia derubata dalla sconfitta; solo paglia e polvere.

È un ruolo ingrato quello degli sconfitti, in una notte sulla Baia che racconta di un’esperienza metafisica. La trascendenza di LeBron James, un fenomeno profetizzato nel giugno 2003 e di cui, infine, siamo tutti testimoni. Che lo si voglia o meno.

Sconfitti, ma non perdenti. La banderuola dell’opinione pubblica è particolarmente sensibile al vento, basta un attimo per passare dalla stagione dei record al più grande fiasco delle Finals.

Li chiamano “la miglior squadra di sempre a non aver vinto il titolo”. Si sprecano i paragoni coi grandi fluke dello sport americano, a partire dai più recenti; la regular season imbattuta dei New England Patriots 2008, ad esempio, superati dai Giants di Eli Manning, o la favola di Cam Newton e i suoi Carolina Panthers interrotta bruscamente dai Denver Broncos lo scorso febbraio.

Un accostamento fin troppo facile, estrapolato da una sceneggiatura hollywoodiana – ma cosa, negli sport d’oltreoceano, non lo sembra? L’amicizia tra Steph e Cam e la passione del primo per la franchigia dello stato in cui è cresciuto sono terreno fertile per le reazioni dei media.

Sarà banale a dirsi, ma su un campo di pallacanestro ci sono due squadre. I Thunder prima e i Cavs poi hanno mostrato al mondo che persino i giganti possono cadere, che la perfezione è solo un limite che si pone la mente, che se preso a martellate nel punto giusto qualsiasi piedistallo può incrinarsi.

L’idolo che Golden State si era costruita, a propria immagine e somiglianza, crolla in gara 7 ma non si schianta a terra. Scivola, si affloscia. Non con un boato, ma con un lamento.

Qualcosa dev’essere andato storto se una squadra che ha perso 9 partite in un’intera regular season si arrende nelle ultime tre sfide, due delle quali in casa.

Prima di tutto, il crocevia emotivo dell’intera serie, la squalifica di Draymond Green dopo una gara 4 conquistata sul terreno nemico con autorevolezza. In conferenza stampa Dray è stranamente tranquillo, sorride più degli imbronciati compagni, si professa orgoglioso della propria leadership e ammette che il fattaccio gli ha insegnato molto, promette che non metterà più in pericolo i propri compagni con un suo errore.

Forse quegli stessi compagni avrebbero preferito che ci fosse arrivato un po’ prima, a questa epifania. La sua mostruosa prestazione di gara 7 è più che abbastanza per sdebitarsi (32 punti, 9 assist, 15 rimbalzi, 6/8 dall’arco), ma i what if rimangono.

I Warriors affrontano la palla a due col piglio giusto. Al primo time out Steve Kerr loda i suoi per l’energia, li mette in guardia dall’eccesso di adrenalina che una partita a eliminazione diretta porta con sé, ma quel che salta agli occhi nei primi minuti è la bontà dell’esecuzione di Golden State.

Si sfrutta l’inedita partenza in quintetto di Festus Ezeli per allargare il campo con alcuni dentro-fuori, Klay e Steph aspettano palla a azione iniziata e si coinvolgono Harrison Barnes e Draymond Green.

La circolazione di palla è talmente buona che il primo si risveglia dal letargo con un paio di bei canestri, poi torna in versione struzzo quando i Cavs si rifanno sotto. Della partita del secondo si è già detto, un’interpretazione magistrale su come coniugare aggressività, fisicità e letture lucidissime.

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Tiro io o tiri tu?

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Lettura della difesa, crossover e appoggio eseguiti andando a mille all’ora. Non per niente lo chiamano Dancing Bear

In difesa, guida la falange macedone che ha il compito di sbarrare la via del canestro a James. È semplicemente perfetto, costringe il Re a tre palle perse prima che si renda conto che deve rallentare il ritmo, che i raddoppi non gli consentono la stessa libertà nel pitturato di gara 5 e 6.

Ci sono buoni tiri per i compagni, e chi meglio di lui per pescarli, ma la scelta di Golden State paga. Al supporting cast tremano le mani, lo stesso Irving ammetterà di aver avuto bisogno di due quarti interi per scrollarsi di dosso la tensione della prima gara 7 in carriera; aveva a malapena dormito le due notti precedenti.

C’è anche un buon piano per arginare l’energia di Tristan Thompson a rimbalzo e negargli le facili ricezioni nei pressi del ferro che avevano seminato il panico in gara 6; peccato per Kerr che il collega Tyronn Lue avesse apprezzato un’anteprima dell’aggiustamento nella sua sfera di cristallo ed ecco un Kevin Love in tuta da lavoro che rovista tra la spazzatura e raccoglie un rimbalzo dietro l’altro – 59 a 48 per Cleveland il conto sotto i tabelloni.

Il punteggio alla fine del primo tempo, 49 a 42, non rispecchia la qualità del gioco dei Warriors. Un inequivocabile presagio di sciagura. Dal terzo quarto inizia una partita differente.

Il vantaggio degli uomini in bianco si spinge fino a sette punti ma dall’altra parte c’è sempre qualcuno pronto a ricucire lo strappo. Prima un JR Smith che fa piovere due triple dal cielo, poi un funambolico Kyrie Irving in piena mamba mentality. Soprattutto, la difesa dei Cavs produce 12 minuti di intensità finora mai vista in questa serie.

Ne usciranno spompati ma i Warriors non sono messi meglio, i loro problemi che tornano a galla adesso che la partita è uscita dai binari in cui desideravano farla scorrere. Dopo il buon inizio Iguodala si spegne, vittima dei dolori alla schiena.

Quando riceve palla Draymond Green fa sempre la scelta giusta, ma i suoi possessi diminuiscono, il gioco ristagna nelle mani degli Splash Brothers che spesso si avventurano in soluzioni dall’alto coefficiente di difficoltà.

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Questo tiro entra, ed è la solita roba da bava alla bocca, ma negli ultimi 5 minuti il tabellino di Steph recita 0/5

Sembra di sentire un rumore metallico, le fauci della trappola sistemata dai Cavs che gli si chiudono sulle caviglie. Le percentuali calano; per la terza partita consecutiva la precisione dall’arco non supera il 40% e si pianta sul 25% nel secondo tempo.

L’ultimo quarto è una battaglia di nervi. Quelli dei Warriors sono scoperti, un animale ferito e testardo che vuole vincerla a modo suo, nonostante tutto. Il risultato è questo.

curry persa

Cleveland non gioca bene e tira ancora peggio, però ha le idee chiare. Un passaggio, un blocco, un tiro. Attaccare Curry sempre e comunque. L’inevitabile conseguenza è questa.

tiro irving

Da oggi, quantomeno nel Northeastern Ohio, The Shot non sarà più quello di Jordan in faccia a Craig Helo

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Le descrizioni di questa giocata sfidano il limite della fantasia. Noi ci appoggiamo agli amici di Giacomo Leopardi racconta la NBA: Scende la luna; e si scolora il mondo / Spariscon l’ombre, ed una / Oscurità la valle e il monte imbruna

A vedere LeBron James che oscura la vallata con quella che passerà alla storia come The Block, e la tripla da Steph Curry in faccia a Steph Curry di Kyrie Irving, vien da pensare che era destino. Che sarebbe successo comunque, per quella forza trascendente che anelava al primo titolo NBA nella città di Cleveland, priva di successi dal 1964. Che i Warriors fossero meri spettatori. In realtà, per quanto pizzichi le corde della nostra sensibilità ai racconti epici, lo sport è una lotta tra uomini mortali, imperfetti. Le imperfezioni dei Warriors hanno spostato il piatto della bilancia.

Steph Curry e la sua gara 7 tutt’altro che memorabile sono i primi imputati. Ben lontano dalla “partita migliore dell’anno, forse della carriera” che aveva descritto come necessaria alla stampa, sceglie la serata sbagliata per legare la propria fortuna al tiro dall’arco.

Tira male, 4/14 da tre e 6/19 complessivo, ma nemmeno James e Irving sono precisi dall’altra parte. Lui però non fa altro. Non attacca il canestro, non coinvolge i compagni – due assist, quattro turnover -, non approfitta di quello che la difesa gli lascia.

Talento è anche conoscenza istintiva di ogni dinamica che ha luogo tra le quattro linee che delimitano il parquet, e un campione della sua intelligenza non poteva non realizzare subito l’errore. Probabilmente se ne rendeva conto nel momento stesso in cui eseguiva, eppure perseverava.

“Mi sono accontentato del tiro da tre” ha ammesso in conferenza stampa. “Giocando in casa, con la serie da chiudere, volevo andare per il dagger”. Ha già rielaborato quell’ultima azione, quel balletto sul perimetro con Kevin Love che gli nega il tiro, e ha un sorriso amaro quando i giornalisti glielo ripropongono. “Avrei dovuto attaccare il pitturato”.

Klay non ha offerto molto di più alla causa, 14 punti, 2 rimbalzi e un plus/minus di -11. 48 minuti nervosi e poco incisivi, infastidito dalle attenzioni della difesa dei Cavs e dalle acrobazie di Kyrie Irving che lo ha scelto come bersaglio preferito.

A fine partita è incarognito e a un giorno di distanza non sembra ancora consapevole di quanto è successo. “Ci sentiamo ancora la squadra più forte del mondo”, dice. D’altronde per lui gara 7 era win or bust.

Quando chiama Steve Kerr a testimoniare al banco l’accusa ha una precisa domanda da porgli. Quei minuti concessi a Festus Ezeli, sul finale, coi quattro punti di vantaggio dilapidati da due 1vs1 di James col nigeriano.

“Loro non stavano tirando bene da tre, schieravano Tristan e Kevin Love e volevo più protezione del ferro”, si è giustificato. Ma non doveva essere Kevin Love quello preso di mira dalla Death Lineup?

Adattarsi alla sua presenza in campo equivale a una mezza ammissione di sconfitta, una conferma di quella bizzarra sensazione che andava maturando da gara 5; gli aggiustamenti di Tyronn Lue, seppure tardivi, si sono rivelati più evidenti e efficaci di quelli del collega.

Il coach da Mexico, Missouri li ha enumerati con chiarezza nel post partita: meno cambi sui blocchi, solo sugli Splash Brothers, per difendere gli spot dall’1 al 4 e proteggere Irving da switch sfavorevoli; LeBron James in single coverage su Draymond Green, per disturbare i passaggi e concedere ai compagni un secondo extra per le letture e recuperare da eventuali ritardi sui blocchi.

Nessuno dei quintetti proposti da Kerr è stato in grado di sbrogliare la matassa. Complice l’assenza di Bogut, i suoi centri hanno totalizzato un -18 in abbondanti – forse troppo – 19 minuti in campo.

La sconfitta di gara 7 significa che l’idea di basket di Golden State non funziona? Che la rivoluzione copernicana ha già incontrato la sua prematura fine? Assolutamente no. Ma ci insegna che il concetto va rivisitato nei dettagli, cucito su misura per la pallacanestro dei playoff; sarà un cliché, ma mai come in queste Finals sono sembrati uno sport differente.

Il tiro da tre può non bastare per vincere sette partite in una serie, 41 tentativi solo ieri notte, perché non può piovere per sempre. Le altre doti, che i Warriors possiedono in gran copia, non devono passare in secondo piano.

Il loro miglior giocatore, Steph Curry, deve evolversi in quel leader, in quel giocatore totale che all’occorrenza sa già essere, sul modello dello stesso LeBron James. Il duello tra i due è apparso a tratti imbarazzante per quanto impari; la vera sfida nella sfida è stata quella tra i due numeri 23, Draymond Green il suo alter ego su entrambi i lati del campo.

Una passata di cenere sul capo e via, subito a pensare a un’estate di scelte importanti. Come muoversi sul mercato dei free agent, tra l’ambizioso obiettivo Kevin Durant e rumors recenti su Dirk Nowitzki, come comportarsi coi cento milioni da dare o non dare a Harrison Barnes, rimpiazzare o confermare le riserve in scadenza, sostituire il partente Luke Walton nel ruolo di vice.

Steve Kerr si godrà qualche mese per riprendersi dai postumi delle operazioni alla schiena, mai del tutto svaniti, e probabilmente starà già abbozzando nuove idee sulla lavagnetta. Scenari paralleli. Una risposta a quei what if. Qualsiasi cosa per tornare lì tra un anno, più cattivi e preparati. Più forti.

Era disteso nel prepartita, fin troppo, e ha accettato la sconfitta con altrettanta grazia. “The better team won, it’s the beauty of NBA playoffs”, perché l’amore per il gioco a volte sopravanza persino il desiderio di successo. Per una notte, non c’è alcun disonore nell’essere testimoni.

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