A dodici mesi di distanza dalle Finals 2015, saranno nuovamente Cleveland e Golden State a contendersi il titolo NBA; attenzione però, se il titolo del film è rimasto lo stesso rispetto ad un anno fa, il sequel avrà contenuti completamente diversi, perché i Cavs, recuperati Love e Irving, non sono più una one-man-band, e i Warriors (che non hanno ancora espresso il loro miglior basket) sono una formazione se possibile ancora più matura.

Quelle che inizieranno il 2 giugno saranno Finals all’insegna dell’equilibrio, tra due superpotenze distanti nel record accumulato in Regular Season (quando i Warriors hanno vinto entrambi i confronti diretti, e in panchina c’era ancora David Blatt), ma che approdano alle Finals col vento in poppa; Cleveland ha vinto 12 partite perdendone appena 2, esprimendo il miglior basket della storia della franchigia, e quelli di Oakland hanno fugato il dubbio d’essere diventati più belli che pratici, emergendo alla grande dalle difficoltà.

Al termine di una clamorosa (e logorante) campagna da 73 vinte e 9 perse, Golden State ha traballato più del previsto, e dopo due 4-1 rifilati a Rockets e Trail Blazers, ha visto in faccia l’eliminazione. Sotto 1-3 contro Oklahoma City, gli Splash Brothers hanno infilato un trittico memorabile di vittorie, rifiutandosi di gettare la spugna anche quando pochi avrebbero scommesso su una loro vittoria in Gara 5, figurarsi sul passaggio del turno.

E invece rieccoli qui, “pronti per la sfida”, come ha detto Draymond Green. Durante questa postseason i Dubs hanno imparato a vincere anche senza Curry (assente per due settimane a causa degli infortuni a ginocchio e caviglia patiti nel corso della serie contro Houston), per poi tornare a stupire il mondo dei canestri una volta recuperato il loro piccolo grande MVP.

Dall’altra parte d’America, i Cavs hanno passeggiato agevolmente sia contro Detroit sia con Atlanta, mettendo sul parquet un gioco assai più letale di quanto la burrascosa stagione regolare (chiusa 57-25) avesse lasciato intravedere, superando tutto sommato senza eccessivi sussulti anche la numero due del tabellone, una Toronto dal piglio garibaldino tra le mura dell’Air Canada Center, e piuttosto tremebonda alla Quicken Loans Arena.

Con Tyronn Lue in panchina, i Cavaliers sono finalmente sbocciati, trasformandosi in una formazione che gioca con ritmo e soprattutto, capace di costruire tiri fluidi, mettendo così a frutto il potenziale offensivo di un roster a lungo sottovalutato, ma che annovera giocatori esperti, come Richard Jefferson e Mo Williams, “situazionisti” d’alto livello, come Frye e Smith, e giocatori tatticamente preziosi, come Shumpert e Thompson.

Terrà banco la sfida tra Tyronn Lue (il secondo esordiente consecutivo a raggiungere le Finali sulla panchina di Cleveland), tacciato ingenerosamente d’essere in realtà solo e soltanto il passacarte di LeBron, e Steve Kerr, che con grande eleganza ha voluto condividere il premio di Coach dell’Anno con il suo secondo, Luke Walton, assieme al quale ha messo l’autografo sulla più grande stagione regolare di sempre.

Il centro della scena però, apparterrà ancora una volta a Steph Curry e LeBron James (6 MVP e 3 titoli in due), con il secondo chiamato a tradurre in fatti le tante frecciatine lanciate al rivale. Rispetto al 2015, quest’anno calcheranno il proscenio anche Kyrie Irving e Kevin Love, aggiungendo sapore tecnico a una serie che si profila per palati fini, ricca di stelle, ben allenata, tra squadre intense e con tante possibili armi tattiche in uscita dalla panchina, come Channing Frye (sta tirando il 58% da tre!) e Shaun Livingston.

Se Steph Curry è in cerca della propria personale consacrazione con il secondo titolo consecutivo e relativa dinastia (magari anche con il primo MVP delle Finals), per LBJ la situazione è diversa: a 31 anni, James è arrivato alla sua sesta Finale consecutiva (sono 7 in totale, come Kobe Bryant e una in più di Michael Jordan) ma i titoli sono “solo” due: dovesse vincere affiancherebbe l’altra grande ala piccola della storia NBA, Larry Bird, portando per la prima volta il Larry O’Brien Trophy sulle sponde dell’Erie, ma se dovesse perdere ancora, su di lui si riverserebbero infinite critiche.

Come in ogni Finale NBA che si rispetti, ci saranno tante storie nella storia, vicende secondarie destinate a intrecciarsi in una trama fitta e appassionante; basti pensare ad Anderson Varejao, pretoriano della formazione dell’Ohio (con la quale ha militato per quasi 12 stagioni) scaricato in primavera, che ha trovato spazio nella rotazione dei Warriors, oppure a Kevin Love, che nell’estate del 2014 era stato ad un passo da Golden State (operazione sfumata perché Jerry West e Steve Kerr erano contrari a privarsi di Klay Thompson) e ora li incontra da sfidante.

Love non è più la giovane superstar in rampa di lancio di due anni fa, ma in quest’ultima parte di stagione è riuscito a redimersi, maturando in un ruolo che non è certamente quello sognato al momento della famosa trade con Wiggins, ma è comunque tale da consentirgli di recitare una parte importante in una formazione che ambisce legittimamente a vincere l’anello.

L’accoppiamento con Draymond Green è quanto di più complicato gli potesse capitare, perché il numero 23 lo attaccherà dal palleggio, cercherà di farlo correre e la metterà sul piano della fisicità (o direttamente delle legnate, come potrebbe testimoniare Steven Adams), esponendone la lentezza negli spostamenti laterali e la relativa cattiveria agonistica.

Se però Love riuscisse a tener botta, potrebbe essere proprio l’ex UCLA a spostare l’ago della bilancia in favore dei Cavs, contribuendo ad allargare il campo e pulire i tabelloni. Fin qui, nessuna delle squadre affrontate da Cleveland è riuscita a metterlo in difficoltà: segno di crescita individuale, oppure semplice conseguenza della pochezza dei rivali?

A Oakland invece, tiene banco il dibattito sulle reali condizioni fisiche di Stephen Curry, che, per quanto il club insista nel negare problemi, non è sempre sembrato al meglio, tra palle perse inopinate, e una certa, inconsueta, difficoltà a finire nel traffico alla sua maniera, con la conseguenza di rendere più perimetrale e meno ficcante l’attacco dei Warriors.

Per lunghi tratti di Playoffs la squadra di Kerr e Walton ha viaggiato con il pilota automatico, fino al primo, vero ostacolo incontrato sulla propria strada, quella OKC capace di spedire a casa gli altri grandi protagonisti della stagione regolare, i San Antonio Spurs. Nel momento di massima difficoltà però, i Warriors hanno risposto da grande squadra, zittendo i tanti che già iniziavano a recitare il de profundis dello small ball, mettendo in campo una prova di forza (mentale e tecnica) impressionante.

I Dubs approdano a questa seconda Finale consecutiva con addosso la stanchezza di una serie lunga e durissima, ma forti della consapevolezza che, se giocano come Kerr non si stanca mai di ripetere (muovendo la palla e i giocatori), per loro nessuna impresa è fuori portata. Le due sconfitte contro i Raptors non hanno invece cambiato di molto la percezione dei Cavaliers, formazione tosta, con rotazioni chiare, un J.R. Smith ormai completamente a proprio agio nel ruolo di cecchino, e un LeBron James che ha potuto dosare le proprie energie, disputando tre grandi serie.

Ora però gli uomini di coach Lue saranno chiamati ad una sfida completamente diversa rispetto a quella posta dalla fisicità di Biyombo e Kyle Lowry, giocatori di cuore, ma privi di grande talento puro. I Warriors sono un avversario resiliente e al contempo molto tecnico, e persino i Thunder, squadra fisica se ce n’è una, si sono dovuti arrendere alla capacità di Klay Thompson e Andre Iguodala di non uscire mai dalla partita, restando sempre pronti a sfruttare il minimo passaggio a vuoto dell’avversario.

In Gara 7 il terzo quarto di Golden State ha mandato completamente fuori partita Kevin Durant e soci, che pure si erano espressi in una serie eccezionale, ed è appunto questo il problema per chi affronta i Warriors: quando iniziano a grandinare triple, l’inerzia della gara pasa inesorabilmente dalla parte dei californiani, e Lue dovrà essere bravissimo nel predicare calma in spogliatoio.

I Cavs sono diventati una squadra versatile, capace di bombardare dalla lunga distanza (come contro Pistons e Hawks) e allo stesso tempo di flettere i bicipiti, come contro Toronto. Attenzione quindi all’assetto che verrĂ  scelto da Lue nel corso di questa serie, perchĂ© i Cavs hanno indubbi vantaggi offensivi nell’andare “small” con James da 4 e Love da 5, ma rischierebbero di farsi sommergere dal quintetto piccolo degli avversari (reduce dal record di triple in una serie al meglio di 7, con 90 a referto), che oltretutto hanno in Iguodala l’uomo giusto per tenere James in single-coverage.

Dal canto loro, i Warriors arrivano a questa Finale consci di dover ancora una volta miscelare il loro quintetto di esterni e le variazioni con in campo a turno Bogut, Ezeli, Speights e Varejao, ma ovviamente faranno principalmente affidamento sul tiro da tre, il “grande equalizzatore” che gli ha consentito di vincere contro OKC pur andando sotto a rimbalzo e anche per punti in verniciato.

Warriors e Cavs sono pronti per la grande sfida, e a noi non resta altro da fare che sintonizzarci (s’inizia nella notte tra giovedì e venerdì alle tre del mattino, ora italiana) e goderci lo spettacolo. Buone Finali NBA a tutti!

One thought on “Cavs e Warriors, Road to the Finals 2016

  1. Lue è il passacarte di James. Vincessero i Cavs, LeBron dovrebbe essere insignito del Coach Of The Year a pari merito con chiunque sia l’altro vincitore.
    L’NBA tifa per lui, se fossi nei Warriors cercherei di chiuderla in 5 o 6 perchè a gara 7 qualche arbitro può essere telecomandato…

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